venerdì 30 dicembre 2016

Il gran passaggio.

Domani si chiude, domani notte apre la porta a tutti noi un nuovo anno. Come sempre, come il calendario gregoriano vuole. Una faccenda vecchia,  quasi un disbrigo burocratico  verso il quale ci affanniamo tenendo il calice alzato. La ripetizione di un appuntamento, sempre uguale, sempre quello, tra i ritmi caraibici e i valzer viennesi sparati dalle tv accese nelle case; e nelle piazze i concerti e i concertoni e per le strade con le luminarie negli occhi della folla ammassata e brilla e i bicchieri di plastica rigida che rotolano sulla pietra e le bottiglie vuote, allineate lungo i muri, come in un desolato bar di quelli che Hopper preferiva; e tra i botti che schizzano nella notte i loro colori sintetici e squassano i timpani che pare di essere laggiù e invece non c'è la guerra qui.
E tutti a guardare verso il cielo, perché è da lassù che, inspiegabilmente, ci aspettiamo che arriverà l'anno nuovo, quello diverso, quello buono. Ogni trentuno di dicembre lo aspettiamo e ognuno manda i suoi voti, esprime un desiderio, caccia via un dolore. Per qualche ora vogliamo credere che qualcosa cambi, in meglio e non sappiamo, spesso, neanche cosa potrebbe essere il meglio. Ci affidiamo alla nostra allegria, un poco alcolica, ci affidiamo al buio percorso dai razzi illuminanti, come fossimo naufraghi su un relitto.
Il rito si compierà dunque, manca poco: solo il tempo di aggrapparsi all'enorme lancetta che scandirà i minuti e voleremo, faremo, ancora una volta, il gran passaggio. Buon anno, allora, com'è corretto dire.

lunedì 26 dicembre 2016

Un pugno al cielo.

Ogni tanto mi assale una rabbia irrazionale che si deposita, di notte, nei miei dormiveglia. Poi si stempera nelle prima luci, l'aurora fuga via le tenebre, dentro e fuori. Resta una lieve traccia, un'inconsistente scia che mi accompagna, discreta e silenziosa.


Un pugno al cielo.

C’è il soffocante sonno che non ristora
Scivolo lungo la Via Lattea e vi cerco alle due.
Siete le solitarie visioni di ogni notte,
siete morte visioni  nebbiose e scarne.
Mi insolentite con i vostri passi cauti,
mi percorrete in lungo e in largo,
dai capelli sparsi ai piedi chiusi,
ascolto il vostro ridere  tra il pianto.
E non avete mani a proteggere protese
Non intonate preghiere, siete nude
Immagini, mute senza pietà guardate:
Vorrei il vostro pugno alzato contro il cielo.



William Turner  " Rain, steam and speed "  1844 

giovedì 22 dicembre 2016

Il mercatino di Natale.

Anche quest'anno, come nel 2012, il mio Natale sarà incompiuto. Ci sarà un'assenza, ci sarà un vuoto. Lo colmeremo dopo, mi dico. In fondo, mi ripeto come una preghiera ripetuta nella novena davanti al Presepe, il Natale dura una notte e un giorno, che vuoi che sia? Altre notti e giorni ci saranno e non importa se non avranno le luminarie appese e i canti, saranno pieni di bellezza e d'amore, ugualmente.
Io li avrò, tu mia assenza, li avrai. Non sarà così per la ragazza di Berlino, non sarà più così per lei, né per i suoi affetti. Era al mercatino di Natale, La mente correva via, se ne andava giù, valicava i ghiacciai delle Alpi, scendeva fino a Sulmona. Gli occhi scivolavano tra i colori e le forme degli oggetti, le strenne da comprare, forse i suoi doni alla famiglia, agli amici. E penso a mia figlia, a tutte le volte che mi ha raccontato delle sue visite ai mercatini delle città in cui ha vissuto, come se non ve ne fossero di simili quaggiù ed è vero, quando si va via, quando si è soli, anche un mercatino delle pulci o delle strenne riscalda, smorza la nostalgia. Mi pare di vederla, la ragazza di Berlino, Fabrizia. Mi pare di vederla, come tante altre volte ho immaginato di guardare mia figlia, aggirarsi tra le bancarelle illuminate, nel rumore allegro dell'altra gente che sta attorno, imbacuccata perché al Nord il freddo è freddo vero. E poi scompare, si dilegua, diventa ombra. Fabrizia, travolta e straziata, senza più Berlino, senza Sulmona, senza la famiglia, senza gli amici. Senza il suo Natale e  i suoi regali, lasciati lì, per sempre,  al mercatino.



martedì 20 dicembre 2016

Il segnale.

Rientrata nel mio guscio, me ne sto seduta qui e fuori c'è un uragano di pioggia e vento. Sibila e scardina questo ventaccio furioso e mi rende inquieta, la luce a sud fatica a penetrare il grigio. E mi appare tutto acciaio freddo. Che strano Natale, questo. Ieri, la notizia della strage a Berlino, in un mercatino di Natale appunto: vili e dannati gli sciacalli neri, miserabili involucri di carne e ossa senza anima, che si fanno scudo della loro religione per portare la morte in giro, necrofori insetti, parassiti di un Islam che non ce la fa e, in parte, non vuole espellerli. Bestie feroci protette e armate non dal loro Dio come ruggiscono, ma da orchi pasciuti e tintinnanti d'oro, imbrattati di petrolio. Davanti ai quali l'occidente è prono.
La ferita rabbiosa che si aggiunge alle altre. Il disgusto rabbioso che si aggiunge alla consapevolezza di dover lottare per andare avanti,per insegnare a chi è più giovane a continuare il viaggio.
Torno sul viaggio, sì. Ho imparato tanto e ho avuto conferme, in questo mio itinerario sconosciuto, privo di mappa, cieco. Ho imparato ad avere coraggio, ho imparato a sbeffeggiare la paura, ho imparato a riconoscerla, insidiosa vecchia megera delle notti insonni. Ho imparato ad amare con maggiore pietà, con rinnovato fuoco, con rispettosa sollecitudine. E ho imparato, anche, che molte persone danno il meglio di sé nelle offese della vita, nella sofferenza quotidiana. E che altre, invece, vi si perdono brancolando, non vogliono vedere.  Restano ferme ad aspettare e si ostinano a vedere solo se stessi, eternamente Narcisi. Ma ne parlerò più in là.
Oggi voglio pensare a chi va avanti, a chi mostra il pugno al Cielo con fierezza, a chi non teme. E se, a volte nell'intimo del letto d'incubi notturni, lo afferra il timore di soccombere, al mattino torna a sorridere, per gli altri e agli altri che aspettano da lui il segnale. Continueremo a vivere, testardamente a vivere, dunque.

James Ensor "L'entrata di Cristo a Bruxelles" 1889

giovedì 15 dicembre 2016

Il viaggio.

Torno su queste pagine e trovo che tutto è cambiato. Anche la grafica. Il Πάντα ρει coinvolge ogni cosa, ogni azione, ogni storia. Personale e universale che sia. Torno da un viaggio che è stato un percorso interiore, soprattutto interiore, che ha travolto gli argini, i ponti e le roccaforti edificati in passato, lasciando tracce e ferite, crepacci dolenti come cicatrici da rimarginare con attente cure.
Tutto è cambiato dunque. E non mi riferisco, però, alla nostra politica, quella non cambia, quella ha sempre tante facce da mostraci e sono tutte uguali, pervicacemente identiche, perversamente identiche, un Giano molteplice e spudoratamente nudo sotto i nostri occhi; e non mi riferisco neanche alle interminabili guerre nei Paesi martiri, Aleppo e i bambini schiacciati come fossero mosche infette dagli sterminatori travestiti da giusti: queste lacerazioni restano, questo sanguinare incessante resta immutato, è l'obolo sacrificale offerto al Potere vile e crudele Moloc dei nostri tempi.
Il cambiamento che avverto, che mi scuote è quello che riguarda le nostre effimere esistenze, le nostre private e insignificanti vite. 

Il viaggio. 


Sotto un cielo di vetro e acciaio lustrati dalle piogge velenose
dietro le porte stagne che trattengono respiri e battiti
accecati dalla luce bianca nei campi gelati di brina 
le lepri e i corvi scattano rapide forme vive prima che sia sera.
Cammino in onde di solitudine aggrappandomi ai ricordi
aggrappandomi al cuore pulsante nel torace, allo squillo
delle voci lontane, aggrappandomi alla mia carne, la sento
sotto le ferine unghie, strappata veste dell'anima.
Nei corridoi del labirinto passa silenziosa ombra, s'affaccia
alle camere una ragazza esile,arde di fiamma con  labbra gentili  
sorridendo, ora è il crepuscolo nebbioso, ora è la notte lunga,
ora si va, mi dice, ed è un incerto viaggio. Tendo a lei la mano.


Vincent van Gogh "Mogli di minatori" 1882



giovedì 17 novembre 2016

Il nostro Far West.

Non mi piace la politica, non questa che ci mettono sotto il naso, così maleodorante che al confronto uno spruzzo  di puzzola è Chanel 5.
Mi dà la nausea il grottesco gioco delle parti avverse che demoliscono la supposta credibilità dell'avversario-nemico a colpi di più o meno fantasiose menzogne, insinuazioni, manipolazioni retoriche, iperboliche e visionarie immagini di possibili catastrofi.  Tattiche  pedestri che assomigliano più ai dispetti tra bambini all'asilo, come la bandiera europea che viene rimossa per protesta. E con l'ausilio anche di pirati virtuali che si infiltrano nei circuiti virtuali per manovrare e distruggere consensi e dissensi. Un'epopea degna del peggiore Far West che tanto è stato amato da molti italiani. Ma la saga del Far West appartiene a un'altra Nazione, non è la nostra, noi avremmo altro  cui attingere, qualcosa, per la miseria, dovremmo averla conservata nella memoria! Una storia plurisecolare, ricca di chiaroscuri come nei dipinti di Leonardo; di tenebre ma anche di violenti squarci di luci, come nelle tele di Caravaggio. E cultura e bellezza e stile. Tutto dimenticato, tutto fuori dalle nostre esistenze, cancellato. E poi noi abbiamo assunto il vizietto, da molto tempo, di essere gli epigoni di quelli che riteniamo essere degni di emulazione, le loro novità ci hanno sempre attirato come il più potente dei magneti, le loro mode, i costumi, le loro indiscusse abilità in molti campi delle tecnologie più avanzate ci hanno conquistati, sottomessi al ruolo vicario di compiacenti e accoglienti imitatori. Per mimesi camaleontica, ne assumiamo le sembianze. E così la  politica e gli uomini e le donne che la rappresentano tra di noi - con poche malinconiche eccezioni - gongola e si pavoneggia, facendo la ruota nell'inchino al neoeletto e facendogli eco stridula e scomposta.  E instancabilmente rissosi, inutilmente vociferanti, invitano il popolo a scindersi, a spaccarsi per difendere la Costituzione così come ci è stata offerta o per cambiarla in alcune parti. La Costituzione divenuta come il Nodo di Gordio attorno al quale tutti affilano le spade. Tutto il resto si perde, le domande restano senza risposte, i giovani disoccupati senza lavoro, i vecchi sempre più soli e arrabbiati, i diseredati sempre più ultimi.  Ma il baccano resta, quello sì, è incessante e copre il Paese come una immensa coltre sporca e pulciosa.

Michelangelo Merisi da Caravaggio "Flagellazione di Cristo"  -  1607-1608

venerdì 11 novembre 2016

Il giorno del Ringraziamento.

Nel turbinare frastornante, nelle voci concitate e distorte di questi giorni di novembre, nel vorticoso maelstrom in cui pare precipitare tutto e anche la mia vita, mi appiglio come posso a qualche fragile ricordo. E uno tra questi fragili ricordi ha un'origine: stamattina ho trovato sulla mia pagina social il post di una quindicenne che salutava, con un video, Obama. Una quindicenne come tutte le quindicenni di oggi, o almeno come vorremmo che fossero.
I giorni, che adesso sembrano risplendere di una luce dolce,  di otto anni fa, quando si insediò alla guida del Paese più potente, un giovane uomo, un nero: un uomo di colore alla Presidenza degli Stati Uniti, di quel grandissimo territorio così variegato paesaggisticamente e sociologicamente da contenere in sé tutte le contraddizioni, nel bene e nel male, dell'intero pianeta. Un uomo di colore alla Presidenza di una Nazione che aveva vissuto il delirio del Ku Klux Klan, del razzismo esasperato e grottesco contro i neri e gli ispanici, che aveva conservato l'orgoglioso rifiuto delle minoranze etniche e religiose, che era ancora, profondamente avviluppato nelle spire di un puritanesimo reazionario e anacronistico. Paesaggi diversissimi, metropoli opulente e infinitamente povere al contempo, sterminate lande destinate alla vita dei meno fortunati, la provincia profonda percorsa da malesseri e ingiustizie antichi; i sobborghi ricchi e i ghetti miserabili. Tutto e il contrario di tutto. Mi era sembrato un segnale, un buon segno l'elezione di Obama, mi era sembrato che stesse per concludersi un periodo e che a quello ne sarebbe seguito un altro, ancora incerto ma promettente. Il cambiamento, quello auspicato, quello atteso. Non è stato così, ci sono stati errori, mancanze, delusioni. Ma il ricordo di quel giorno di novembre di otto anni fa mi sta dentro, una crisalide che poteva diventare farfalla, un battito d'ali che poteva diventare un volo verso il futuro.
Oggi c'è altro, c'è un uomo del passato che si metterà alla guida dell'immenso Paese e ci sono tutte le premesse perché chiuda le porte alla speranza di poter cambiare un poco, almeno in parte, questo pazzo mondo. Ma così hanno voluto e a me e ad altri resterà solo il ricordo di qualcosa che non è avvenuto.
Tra poco cadrà, come ogni anno, il Giorno del Ringraziamento, nel quale gli statunitensi ricordano i Padri Pellegrini, che giunsero nelle nuove terre, e il loro ringraziamento a Dio per il primo raccolto. Spero che si ritrovino nelle famiglie. davanti ai loro tacchini, lieti degli affetti e anche delle loro scelte. E per quelli che non fossero lieti della scelta,  cosa posso dire? Cari amici d'oltreoceano che mi seguite, non mi resta che augurarvi buona fortuna, good luck my friends!


Vincent Van Gogh "Campi di grano" 1887

lunedì 7 novembre 2016

Nelle velate notti.

I ricordi del passato sono sentinelle, sono i guardaspalle che proteggono nei giorni difficili. Quando il cielo cala su di noi pesante e fosco, impietoso. Non ci sono vie di fuga, se non quelle indicate, con dolce fermezza, dai ricordi.


L’amore pazzo.


L’amore affacciato agli occhi sta
Dentro pupille fonde e buie di notti
Senza sogni che non fossero anche i tuoi
Nelle piazze antiche aspettavamo l’alba
E il vento era molesto ma non importa
Non eravamo soli a combatterlo era sconfitto
Dalle mani unite sui capelli, i tuoi e i miei
Intricati di sonno e di desideri pazzi
Pazzi eravamo sulla soglia aperta a noi
Della vita che serbava giochi di carte
E sfere colorate fragili al tocco non credevamo.
Pazzi eravamo nelle lunghe arrampicate in vetta
Pazzi bambini volevamo essere gridando forte
Il nostro amore e nessuno poteva ascoltarlo
Il nostro grido era nascosto a tutti anche a noi.
Pazzi eravamo nelle velate notti dell’amore pazzo.

Max Ernst "The Entire City"  1935

giovedì 3 novembre 2016

Non scendo agli Inferi.

Ciò che più mi lascia stupefatta è l'assoluta certezza di molti. L'inconfutabile, per loro, certezza di essere nel solco giusto, di trovarsi dalla parte corretta, di avere imboccato la via che, sicuramente, porta allo scopo. Che è, manco a dirlo, perfettamente aderente ai loro desideri - e a quelli di tutti - e alla giustezza delle cose. Senza che un insignificante dubbio gli morda la coscienza, senza che un microscopico tarlo gli rosicchi il cervello e l'anima. No, le loro convinzioni sono assertive, assiomatiche, non c'è spazio per il confronto, né per la discussione, con nessuno, neanche con se stessi, appunto. Come se avessero fatto tabula rasa di tutte le esperienze pregresse, di tutte le letture fatte (se le hanno fatte), di tutti gli incontri avuti durante il peregrinare perenne che è la vita. E i toni, poi, con cui esprimono la loro sicumera, sono un coacervo di furibonda risolutezza, di sprezzante acredine verso chi, al contrario, non ha le stesse idee, è esitante e crede nella forza del dubbio. Come me che del dubitare, con  cautela e rispetto, ho fatto motivo del mio vivere. Il dubbio non come escamotage codardo per aggirare le scelte, ma come opportunità di ascolto, di confronto e di rispetto;  il dubbio come forza a cui attingere, prima di precipitarsi per poi, magari, cadere.
So bene che non è l'atteggiamento che si richiede alla persona "vincente"  e mai come oggi questo participio mi procura scontento e sgomento; so che si vuole il cambiamento, anche se non ho capito bene in che senso, e che deve avvenire in fretta, prima che sia troppo tardi - ma è già tardi, forse - e che il cambiamento deve essere preteso e che deve essere il popolo a pretenderlo. E qui si grida a gran voce alla democrazia, all'onestà, all'etica, in un boato assordante di voci sempre più esaltate, tanto da risvegliare i morti. Paradossale, grottesco il caso del redivivo Umberto Eco, per un inqualificabile, volgare errore di persona, tirato in ballo e ricoperto di invettive. E altrettanto paradossale e triviale che si azzannino le spoglie ancora calde di Tina Anselmi per ottenerne un consenso dall'Ade.
Tutto questo baccanale mentre la terra che calpestiamo continua inesorabile a rammentarci che è lei la più forte, che è lei ad avere la bilancia in mano o il filo delle Moire.
Io preferisco il mio cantuccio nebbioso dove ogni tanto penetra la luce fioca di un lumicino a rischiararmi e a confortarmi: i miei dubbi, aperti agli altri sono i compagni di viaggio che mi sono scelta. Per non scendere anche io agli Inferi della prosaica violenza che mi circonda.

Francis Bacon "Autoritratto"  -  1971

sabato 29 ottobre 2016

La ricerca dell'Altrove.

Vorremmo, in alcuni periodi dell'esistenza, essere altrove, forse. E ho citato il titolo di un romanzo di Amos Oz, autore che amo molto. L' Altrove è il luogo dell'immaginazione, della dimenticanza, della fuga dalla realtà che pare soffocare ogni possibilità di speranza. Ed è anche il luogo della memoria, di una trasfigurazione malinconica del passato che tende ad accogliere le nostre istanze di quiete, di trascorsa felicità. Un riparo offerto al senso di perdita, al disorientamento sconfortante che impedisce di procedere, che intralcia il passo. Ma c'è anche il forse e non è meno importante, contiene in sé tutti i dubbi, le incertezze che racchiudono il nostro vivere il presente. Difficile districarsi,  è un garbuglio intricato questo sottobosco, rovi e sterpi, ombre che oscurano il fioco filtrare del sole. E si cammina a vista, scansando le trappole e le buche, lacerando lembi di pelle con le spine, prendendo storte alle caviglie, con le vesciche alle mani e ai piedi. Con nuove cicatrici nel cuore. Si va avanti, perché è questo che ci resta, continuare a cercare l' Altrove, dalla condizione umana e dalla memoria, continuare a spingerci dentro con la determinazione dell'esploratore che non sa cosa troverà, ma penetra infaticabile nei territori sconosciuti.
Ci sono periodi dell'esistenza che suggerirebbero la resa. Ma la resa è la rinuncia alla vita, è la consegna di sé all'indifferenza, è la rinuncia di sé. Altrove, forse c'è.

James Tissot "Figliol prodigo, la partenza"  -  1880-82

lunedì 24 ottobre 2016

Le ragazze pettinate.

Oggi mi sento misogina. Capita anche questo nella vita di una donna, di non sentire empatia per certe donne, di non condividerne le scelte, di provare un senso di malessere e di sconfitta. Misoginia è una parola brutta, è un'iperbole voluta, lo so. Ma oggi è così. E mi sento misogina non verso le cosiddette"cattive ragazze" no, quelle mi sono carissime, ne ho già parlato in precedenza; oggi mi sento misogina verso le altre, quelle che sono pettinate.

Le ragazze pettinate.

Le ragazze pettinate che non hanno riposo
Con le unghie perfette e le scarpe scomode
Che stracciano la terra coi loro tacchi di lama
Le ragazze rapide come razzi illuminanti
Nelle notti scure che grondano dal cielo
Arrivano cavalcando erette negli sguardi.
Le ragazze con le rosse labbra contratte
Come molle d’acciaio pronte a scattare
E gli occhi seri senza riflessi di luce.
Le ragazze che sono amiche e nemiche
Sedute al tavolo a giocare con la sorte
E la pallina rotola lontano e scivola ai piedi.
Le ragazze che vogliono tutto e tutto prendono
Con le mani incerte lasciano cadere il calice
Del vino dolce che più non sanno  bere.
Le ragazze addormentate nelle culle vuote
Sognano l’infanzia senza innocenza il latte freddo
Che non scalda la coperta che le nasconda ancora.
Le ragazze puerili con la valigia vuota leggere
Volano sui tetti s’insinuano con lo spiffero delle finestre
Calano nei crepacci la treccia storta e aspettano.


Tamara de Lempicka  "La sciarpa blu"  -  1930





martedì 18 ottobre 2016

Per caso e per amore.

Gli incontri nella vita sono sempre opportunità di conoscenza e di crescita. Qualche volta sono deludenti e si possono relegare in fondo al baule, nella soffitta delle cose inutili; altre volte sono scoperte di tesori, forzieri di gioie ed emozioni.  Gemme con le quali adornarsi nel restante cammino.
I figli rappresentano, di solito, lo scrigno da aprire: dentro c'è, già dall'inizio, ogni ben di Dio. La bellezza di accompagnare e di essere accompagnati, l'intensità dell'apprendere e dell'insegnare; l'amore da travasare e nel quale naufragare con lietezza. Qualche volta anche il dolore da sopportare insieme, ma ponendolo sulle nostre spalle perché il peso non sia troppo oneroso per loro.
D'un tratto, senza preavvisi, avvengono altri incontri. Gli anni sono trascorsi in fretta, i figli sono venuti fuori dallo scrigno, sono gemme solitarie che aspettano di regalare la loro luce ad altri. Si è destabilizzati da questo, inutile negarlo, ci si chiede chi sarà il portatore di nuovi doni e se sarà capace di portarli. A me è accaduto di ricevere nuovi doni.

Per caso e per amore.


Sei arrivata tra fiori, fasci di rose
Tu che dici di non amare le rose.
Sei giunta sotto casa, gli occhi incerti
Sai non lo dimentico quel giorno.
Seria e timorosa bambina apparivi
E io non conoscevo ancora la tua risata.
Il mantello bruno dei capelli ti cingeva
Nel viaggio senza sosta, correvi e i libri
Erano i tuoi compagni e ne parlammo subito.
Ricordi? Pessoa e gli altri affastellati sulle tue
E sulle mie spalle, il generoso premio della vita.
Poi venne la risata e venne anche il mio pianto
E tu avevi laghi scuri e dolci  in cui nuotare,
mi eri accanto e non c’era una madre per me,
non c’erano parole al mio errare triste,
la mano calda tendevi e l’afferrai, eri la figlia.
Un’altra figlia incontrata per caso e per amore.


Edward Simmons " Girl Reading"  -- 1893


giovedì 13 ottobre 2016

Una giornata particolare.

Oggi è una giornata particolare. No, non come quella raccontata magistralmente da Ettore Scola nel suo film, non ci sono state (per fortuna) "adunate oceaniche". Oggi è scomparso Dario Fo, il giullare del popolo, il giullare che non abitava presso le corti dei potenti. Di lui manterrò vivo il ricordo di una sera a teatro, con il suo grammelot smozzicato e inestricabile che esplodeva dagli occhi roteanti e irridenti, dalla mimica del corpo forte e agile, dalla risata fragorosa che contagiava e seppelliva, come avremmo sperato noi che lo guardavamo e ridevamo con lui, chi del potere ingiusto e vessatorio si è  sempre fatto scudo.  E la sua gentilezza, la sua capacità di essere artista sul palco e uno di noi,  tra il pubblico. Un senso di perdita, una nuova assenza, uno scintillio di lacrime e di sorriso insieme nel ripensarlo. E la speranza, anche per me, di trovare, chissà un domani, una sorpresa. Buona sorpresa allora, amato Dario.
E oggi è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan. Strana coincidenza! Nel 1997 venne assegnato proprio a Dario Fo, e chi lo sa se tra quelli che oggi ne tessono le lodi ci sono anche quelli che, allora, ne criticarono ferocemente la legittimità al più prestigioso dei Premi.
Due menestrelli, due cantori, due diversi modi di esprimere la singolare posizione di chi contesta un mondo, un modello sociale. Accomunati dall'identica volontà di raccontare la vita e le sue malinconie e le sue miserie. Dario con la parola, con la scrittura; Bob con la parola e con la musica.
Quando ho letto la notizia del Premio a Dylan non nascondo di avere avuto un momento di stupore, forse anche un lieve disappunto, mi aspettavo altro, mi aspettavo che uno degli scrittori che più amo, Roth o Oz, o De Lillo, ricevesse il meritato trionfo , il serto che gli spetta certamente. Poi però ho riascoltato Bob, ne ho riletto i testi e sono tornata indietro nel tempo. Mi sono venute le lacrime agli occhi, ho percepito l'accelerazione dei battiti, ero nuovamente una ragazza con la gonna e i capelli pieni di sogni, andavo incontro al futuro e non temevo niente perché ero giovane, perché non potevo sbagliarmi: quello era un tempo buono, quello era il mio, il nostro tempo.
La motivazione che la giuria ha dato nell'assegnare il premio al musico-poeta, mi è parsa allora perfetta "Ha creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana". 
E così adesso sono in viaggio, a ritroso, con un'assenza che accompagna e una presenza che continuerà, spero ancora per un bel po', a rallegrare il mio cammino.  mi resteranno accanto nel passato struggente, nel presente incerto, nel futuro che una certezza ha.
P.S. Non è un caso che abbia scelto un dipinto di Marc Chagall!

Marc Chagall  "Sopra la città"  -  1918

martedì 11 ottobre 2016

Nella mia terra diletta.

Una notifica mi avverte che oggi è la giornata mondiale delle bambine e delle ragazze. Ne comprendo le motivazioni, anche se mi intristisce, e pure tanto,  che ci sia necessità di una giornata mondiale per sensibilizzare tutti alle condizioni umilianti e dolorose e spesso atroci, in cui sono costrette a vivere moltissime bambine e ragazze presso alcune società e culture non laiche, nelle quali i diritti delle donne non esistono: un medioevo prolungato, cupo, micidiale. Un medioevo che permette l'utilizzo delle tecnologie più avanzate, ma esige il silenzio e la sottomissione a una società settaria, maschilista e feroce. Ho sempre in mente un romanzo, letto sette o otto anni fa, di una giovanissima autrice saudita che era riuscita a farlo pubblicare in occidente, tramite il web. Un buon uso del web, una vittoria in questo caso. Sì, perché la ragazza, matricola presso l'università di Riad, di famiglia molto agiata, aveva ottenuto la "libertà" di avere un computer, un pc tutto suo che le avrebbe permesso di collegarsi con il mondo, che le avrebbe permesso di conoscere l'altro mondo e dopo, di poter pubblicare il romanzo che aveva scritto. Crudo e crudele, il libro. Com'era prevedibile.
Ma questo è solo un ricordo, lo spunto per una riflessione più intima e stratificata, negli anni e con l'esperienza, dentro me.
Ho già parlato altre volte dell'innocenza dei bambini, maschi e femmine il sesso è ininfluente. L'innocenza dei loro occhi e delle loro bocche. La larghezza dei loro pensieri in cui è facile annegare delusioni e amarezze, in cui è facile annegare le personali certezze. Sì, la larghezza, la vastità delle loro idee. semplici, tagliate con il coltello, nitide. Di quel nitore che ferisce gli occhi e fa vacillare per la troppa luminosità. Senza filtri, senza artifizi, senza la retorica dell'esperienza accumulata e pesante. I bambini che dicono bugie, le loro bugie dalle gambe corte, come li ammoniamo noi saggi adulti. Le più belle bugie le ho ascoltate dalla bocca dei bambini e mi hanno commossa e mi hanno fatto ridere molte volte, perché erano sempre messaggi da un mondo che avevo dimenticato, un mondo mitico, il mondo degli archetipi perduti e nascosti a noi stessi.
Per questo motivo, ogni tanto, ogni qualvolta tutto quello che mi sta intorno mi soffoca, si fa cupo, io scappo. Corro verso l'innocenza, mi abbraccio a lei, affogo in lei. Ed è un affogare dolce, necessario. Un ritorno alle origini, un rimpatriare nella mia terra diletta.


Francesco Galante "Sonno tranquillo"  -  1925 ca.

sabato 8 ottobre 2016

Ogni tanto: shit!

Ho letto un articolo su "Il manifesto" nel quale l'autore si occupa di un saggio di Sherry Turkle " La conversazione necessaria" , edito da Einaudi e bel tomo impegnativo. L'autrice, come in passato, mette sotto la lente del  microscopio il mondo della connessione virtuale. Interessante, ma non starò qui a parlarne, Però mi offre lo spunto per riflettere sul dialogo, sulle conversazioni, sui post e in definitiva su quello che dalla frequentazione del web ne ho tratto o intuito.
Negli ultimi tempi, forse a causa di una mia particolare sensibilità acuitasi sotto il peso delle esperienze fatte in rete, mi sono resa conto di quanto difficile sia mantenere un equilibrio decente tra le pulsioni empatiche e il senso critico che, ci si augura, dovremmo continuare a coltivare per non essere assimilati e fagocitati dalle fauci dei "mi piace".
L'incantesimo della tastiera e dello schermo ci induce spesso a depositare i nostri giudizi, le nostre sensibilità, le nostre stesse esperienze di vita reale, nelle parole di altri che, per motivi di appartenenza a un determinato status sociale, culturale o politico, ci appaiono più degnamente rappresentativi di quanto potremmo essere noi stessi.  E la scelta di questi emergenti tra noi, di condividere "con noi" i loro pensieri, le loro riflessioni, i loro giudizi, ci dà un senso di appartenenza a qualcosa che, altrimenti, non ci sarebbe data.
Sovente però, ci si accorge, ed è il mio caso ed è un bene, che l'incantesimo ha un costo: tende ad annullare la personale percezione della realtà, rende tremolanti i  criteri di giudizio, tende, senza dolo forse o forse no, a creare una massa indefinita di consenso.
Mi è capitato il caso di una persona giovane e abbastanza fragile che, addirittura, ha iniziato a scrivere i suoi post, in maniera diversa, utilizzando uno stile, un lessico, un ritmo che non è il suo. Sacrificando, quindi, all'irrealtà di una frequentazione fittizia, la  reale condizione umana, la  spontaneità, il proprio essere "così come sono".
Facile ricordare, a questo punto, le parole di Umberto Eco,  il web come spazio che dà voce agli "imbecilli". In un modo o nell'altro lo siamo stati tutti, almeno una volta, imbecilli sul web, è vero. Ma tutti abbiamo puntato e puntiamo ancora il dito contro gli altri, l'imbecille è sempre l'altro, è una certezza, è fuor di dubbio. E più si ottiene, facilmente, l'approvazione e più ci si convince della propria non imbecillità. Se solo riuscissimo a ridere di noi e delle nostre altissime frasi, dei nostri orpelli retorici, della nostra sapienza, avremmo molte più chance di non esserlo. Un soffio di vereconda modestia non guasterebbe, come quella che ombreggiava gli occhi delle dolci madonne trecentesche.
Bene, ho finito di riflettere, è tardi, fuori è calata definitivamente la notte ed è tempo di riposo e di sogni.
Come salvaguardarsi? Non ho la bacchetta magica, né la ricetta, mi pare ovvio. Posso dirvi come mi comporto io, sempre che vi interessi e se così non fosse, saltate quest'ultimo passaggio, come non detto.
Adopero un poco di cautela, cerco la bellezza ma anche la sostanza .Più cervello, meno viscere. E se proprio non resisto, un pizzico d'ironia  nel commentare (anche se l'ironia non è ben digerita sui social, in special modo da chi colleziona like come figurine di calciatori). Oppure ogni tanto, invece che apporre un like, solo perché il nome dell'autore del post è altisonante alle universali orecchie, provo a non digitare niente, sfumo la visione, stacco la pagina. Contemporaneamente, sussurro o grido, se ne ho voglia e motivo: Shit!

Henri de Toulouse-Lautrec   "Yvette Guilbert saluta il pubblico" - 1894

domenica 2 ottobre 2016

Sotto mentite spoglie.

Non vedo Dostoevskij in giro” Ho letto questa frase a commento di un post in cui l’autore del post stesso discettava del romanzo, della sua morte della quale, per inciso, non è convinto, della questione che, nel bene e nel male, i romanzi si scrivono ed esistono.  La frase mi ha colpita e mi induce a una riflessione. Sono pienamente d’accordo con il commento, non ci sono in giro Dostoevskij, Come non c’erano altri Dostoevskij coevi del grande scrittore russo. Come non ci sono più Leopardi, Proust, Joyce, Pirandello, Woolf, Cechov, Tolstoj, Kafka, Borges. O Dante e  Shakespeare, andando ancora più in là, nei secoli. E la lista è lunghissima.
 Se uno di questi monumenti della letteratura mondiale fosse in vita oggi, se fosse un contemporaneo, scriverebbe altro o, forse, non scriverebbe affatto. L’unicità magnifica di quegli uomini è legata al loro tempo, alla storia e all'evoluzione della società in cui agivano e che li ispirava. E da quella visione della società e della storia, la loro storia, la loro contemporaneità, seppero trarne la linfa umorosa che così copiosamente ancora nutre e alimenta il senso estetico e le necessità etiche dei lettori di oggi. Divennero universali, furono riconosciuti da tutti, le loro parole colmarono cuori e cervelli e lo fanno ancora. Ma vivevano in epoche altre, gli stimoli e gli imperativi erano altri. C’erano i movimenti delle masse oppresse, le desolanti condizioni di operai e contadini, il divario incolmabile tra stati sociali; c’erano le pulsioni nuove delle donne che sentivano crescere spasmodicamente la propria ribellione a una condizione secolare di dipendenza, di silenzio; c’era l’avvento di una scienza misconosciuta, quella che poi si chiamerà psicoanalisi, che strappava sipari, lacerava involucri, metteva a nudo impulsi e paure, ossessioni e desideri.
Oggi tutto, o almeno ne siamo convinti, ci è noto. Siamo il bersaglio,  le veloci sagome verso cui si indirizzano, come proiettili sparati a raffica nei campi di tiro, informazioni, notizie, immagini. In un gigantesco caleidoscopio, frammenti ai quali noi dobbiamo dare un ordine, un significato. Servendoci della nostra esperienza globalizzata, così simile, così sovrapponibile a quella di milioni di individui.  E lo scrittore? Anche lui nel calderone, nel labirintico caleidoscopio, alla ricerca di un filo d’Arianna per uscirne. E molti lo trovano, oh certamente che lo trovano, lo hanno saldamente tra le mani, Oz, De Lillo, Roth, tanto per citarne alcuni e tanti altri ancora.

E Dostoevskij? No, non c’è, magari non c’è lui, proprio lui,  come lo abbiamo letto e amato. Ma è vivo, sotto mentite spoglie.


Michelangelo Merisi da Caravaggio  Autoritratto" particolare del "Martirio di San Matteo" - 1599

sabato 24 settembre 2016

Le voci.

Le parole e le voci che arrivano dal mondo intorno a me, a noi tutti, sono spesso odiose menzogne, brandelli informi agitati per creare disorientamento e paure.  Tra queste riusciamo a distinguere a malapena quelle che non mentono e sono voci e parole di dolore sconfinato, di sofferenze inaudite, di agonie strazianti: sono le voci e le parole degli innocenti, dei bambini sepolti sotto le macerie delle guerre, abbattuti come secchi ulivi assetati d'acqua e di pane. I bambini siriani, i bambini di Aleppo e di Baghdad, i bambini afghani, pakistani, libici, palestinesi. I bambini dell'Africa e i bambini delle favelas sudamericane. I bambini di quelle parti del pianeta dove la vita di un bambino non ha valore, è un numero da aggiungere alla lista dei morti, è la fotografia da offrire ai nostri occhi pietosi, per un attimo, quello che ci basta per piangere, quello che ci basta per avvertire la coscienza sporca. Ma passa presto.Abbiamo le nostre voci da ascoltare, abbiamo le nostre parole da dire, ci salva la distanza, ci salva il mare che inghiotte i corpi, ci salvano i confini e le barriere, da tutto questo.
Eppure quelle voci  e quelle parole sono reali, lo sappiamo bene. Continuano a bussare, entrano nei nostri sogni, sono il soprassalto del cuore nella notte, sono l'appello ripetuto ed echeggiante di qualcosa che vorremmo mettere a tacere, nascondendola a noi stessi, sono la nostra umanità perduta e disconosciuta.

Le sento le voci e non sono pazza,
non sono legata ai polsi non ho la camicia
macchiata d'infamia, non ho sbarre
al mio letto, le sento le voci distanti
echi di onde maligne, di flutti schiumosi.
Le sento le voci e sono canzoni dolenti
sono bisbigli e lamenti dispersi dal fuoco
ferroso, piove dal cielo sordo il veleno,
cartilagini di città seppelliscano i morti.
Le sento le voci mi battono dentro,
incessanti giochi di bimbi nel mare
tra dune di sabbia e nudi relitti
mi chiamano e sanno il mio nome.


Vincent Van Gogh "Ulivi" - 1889

domenica 18 settembre 2016

Mater amorosa.

Mi è capitato di leggere molte note interessanti concernenti gli ultimi tragici accadimenti. Molte sono state compilate da donne. Mi è capitato anche di sperimentare, nelle ultime settimane - o più probabilmente ne ho presa consapevolezza, intima coscienza adesso, proprio per via degli stessi eventi - la cortese e velata compiacenza, a volte neanche tanto velata né tanto cortese, nei confronti delle mie opinioni, delle mie idee, del mio essere convintamente e finalmente libera d'ogni laccio e vincolo imposti dall'ipocrisia generale e generazionale.
C'è ancora ben salda, massicciamente scolpita nell'immaginario maschile, la figura compassionevole della mater amorosa. O se si preferisce la versione pagana della dea Vesta, antica benefattrice del focolare domestico. La donna che accudisce e consola, la donna che deve assolvere, come ruolo primario e indefettibile, al compito di badare al benessere fisico e spirituale dell'uomo.
Una visione arcaica che, seppur fortemente negata e, a parole, relegata a un mondo ottocentesco se non medievale, ancora alberga, insinuante, in molti e insospettabili uomini. L'archetipo femminino della madre (alcuni si spingono alla modernità della donna sorella-amica) rimane immutabile e incrollabile.
Ciò non toglie che la donna abbia le più svariate opportunità, oggi. Lavora e fa carriera, vive la propria vita sessuale come e meglio le aggrada, sceglie la maternità nel momento per lei più opportuno ( mi correggo, in teoria dovrebbe essere così, nella pratica sono cavoli amari).  Con il placet dell'uomo, spesso ammirato, spesso anche sbalordito. Come se non se l'aspettasse, come se tutte queste energie, questo vivere fossero una grazia concessa a noi donne e non una faticosa, annosa, complicata conquista. Ma è nelle emergenze, negli eventi drammatici, nei fatti sconvolgenti l'ordine stabilito che si nota l'irrigidimento, il dietrofront severo degli uomini. Ed è doloroso, è umiliante, più per loro però.
Non ammetto l'atteggiamento di sufficienza, non tollero l'amabilità ipocrita di un complimento, non sopporto la supponenza di un primato intellettuale.
Spesso, purtroppo, siamo noi donne a consegnarci a questa visione mistificatrice. Con il nostro silenzio, il nostro consenso deluso, con il nostro desiderio di essere amate, con il nostro opportunismo anche.
Un uomo ha scritto che gli uomini possono cambiare: se la donna sa, vuole , può cambiarli. Io dico che noi donne sapremmo, vorremmo e potremmo farlo. Ma prima dobbiamo sapere, volere, potere cambiare moi stesse. Senza più tacere, senza più timori.

Mary Cassatt: Louise Nursing Her Child, 1898.

mercoledì 14 settembre 2016

E vi maledico.

Sono arrabbiata, Sono veramente arrabbiata. E disgustata. Due episodi recenti mi hanno, ancora una volta, confermato i miei dubbi circa il degrado culturale e morale in cui l'Italia, una sua cospicua parte, versa.
Il primo riguarda la bambina di Melito. La sedicenne, oggi, usata come oggetto sessuale dall'età di tredici anni (per tre anni!) da teppisti criminali (uno figlio di un boss locale) nel silenzio spaventoso, omertoso di tutti: Sapevano tutti e tacevano. E ho ascoltato alcune dichiarazioni di donne, di vecchi, di giovani, la stessa indifferenza generata dalla paura. Se non il dito puntato, l'accusa "se l'è cercata". A tredici anni si cerca il primo contatto con quello che potrebbe apparite amore, ci si affida al ragazzo che corteggia e pare cotto: Ci si affida senza rete, perché spesso la rete non c'è, i genitori sono distratti, sbattono la testa tra le mille difficoltà del vivere; e la scuola e i compagni e le compagne non ci sono, sono un'assenza pesante: la scuola è solo un edificio in cui recarsi di malavoglia  e i compagni e le compagne sono chiusi, come lei la bambina di Melito, chiusi nel loro guscio di noia, di cattivi programmi televisivi, di solitudine  ai cellulari e su Facebook. Una solitudine che avvolge un paese e i suoi ragazzi e li trasforma in mostri e in prede. Alla fiaccolata erano in quattrocento su undicimila abitanti, la giornalista ieri ha detto a muso duro al sindaco:" Dovevano esserci tutti, tutti." A me resteranno per sempre impresse le parole della bambina: "Mi sento una merda".

Il secondo episodio è forse ancora più agghiacciante, ammesso che si possa stilare una simile graduatoria.
Una giovane di trentun'anni si suicida, impiccandosi.  La storia gira attorno al web, è nel web anzi che prende corpo la tragedia. Dei filmati hard, sei pare, con uomini diversi in cui c'è lei, la ragazza consenziente. Messi sul web, forse da lei stessa, per una storia di tradimenti, di ripicche verso l'ex. Una storia di squallore, una storia di perdita della dignità. Da quel momento, per mesi e mesi, la ragazza diventa la troia a cui indirizzare ogni oscenità, ogni insulto. La ragazza si uccide e gli oltraggi continuano anche adesso.
Ho detto che prima che, forse, questa vicenda è ancora più raggelante della prima. Perché una vita si è spenta, perché la morte è stato l'epilogo. Ma anche qui, tutto quello che mi balza agli occhi è la sconfinata solitudine, l'abbandono malato, l'esclusione da una società altrettanto malata e morbosa. Il web come palcoscenico per essere e non importa come ci si mostra, c'è la platea infinita ad aspettare, non le parole che non sapeva dire, ma l'unica cosa di cui era certa, il suo corpo offerto al piacere di moltissimi uomini oltre il piatto schermo di un pc.
Una storia di solitudine, di fragilità psichica, di esclusione sociale. Per una donna il peso può diventare insostenibile. Per una donna.
E gli uomini? Immagino (ne sono certa a dire il vero) che quelli che, senza pietà, la chiamano ancora adesso che è in una cella dell'obitorio, che l'appellano come "troia" "puttana" e peggio ancora, siano gli stessi che hanno spiato dal buco della serratura, che si sono messi davanti al pc a gustarsi lo spettacolo.
Ecco a questi uomini vanno le mie maledizioni più sincere.
Un'ultima cosa. Si parla tanto, e a ragione spesso, della totale mancanza di rispetto e di tolleranza, se non di manifesta violenza,  da parte del mondo islamico maschile nei confronti delle donne. E da noi, in alcuni casi, in certi contesti, in certe comunità, come siamo messe noi donne? E gli uomini chi sono e come sono?

Gino Covili "Meditazione"  1973

martedì 13 settembre 2016

C'era una volta.

Torno sul tema delle "assenze". Quando l'orizzonte si restringe e diventa un confine insuperabile, ogni mancanza, ogni lontananza è un ago sottile nella carne e nell'anima. Ci si interroga, i dubbi hanno necessità di essere lacerati, si esige finalmente la verità da se stessi e dalla vita. Ma è un sentiero impercorribile, impervia scalata tutta in salita, il terreno è accidentato, sconnesso e il panorama che si scorge non sempre rinfranca l'occhio. Balzano i ricordi, dalle pietre e dai grovigli di rovi, balzano le immagini di momenti felici, di volti infantili, di capelli arricciati tra le dita come fossero anelli, di risate festose e scrosci di lacrime, brevi tempeste da placare con un bacio. Si susseguono nella pellicola mentale fotogrammi scomposti, cronologicamente disorientati; eppure così sanguigni, vitali, che vengono fuori, sfiorano, accarezzano: li afferriamo, ne respiriamo l'odore. Si fanno presenze di carne.
Non v'è altra maniera, non ne conosco altra.

C'era una volta.


C'era una volta un fiore
lanciato dal cielo e dal vento
ad arrossare le guance dell'isola
ed elfi e fate intrecciavano giochi
tra le spume verdi d'erba e di mare.
Uno soffio d'aria calda ne colse uno
e lo portò in volo all'isola lontana
ai piedi del vulcano gentile lo poggiò
e qui si aprì al sole, selvaggio e festoso.
Piccola erica, cuore di brughiera.


Donegal - copyright

Holger Leue



domenica 4 settembre 2016

L'immortale.

Ipocrisia. Credo di essere arrivata in quel punto preciso della vita nel quale si fanno i conti con se stessi. E con il mondo e con gli altri. La prima riflessione che mi saltella dentro è che, inutile negarlo, siamo tutti ipocriti, chi più, chi meno. O, per lo meno, lo siamo stati di volta in volta, a seconda delle contingenze e pena l’esclusione sociale. Infatti  il timore dell’esclusione sociale, di una solitudine involontaria è uno dei motori ruggenti che danno lo sprint all’ipocrisia. Mostrare compiacimento, approvazione verso chi si ritiene abbia un qualsivoglia potere – intellettuale, culturale, politico, economico  - è l’atto di un conformismo ipocrita plateale, che investe e ha investito un po’ tutti.
C’è poi l’ipocrisia congenita e per quella non vi è soluzione: è un abito culturale ed educativo e proviene da anni, se non da secoli, di imposizioni autoritarie che determinano il carattere del futuro ipocrita. A questo segmento, ben impresso nella nostra società, appartengono i fornitori di chiacchiere,  i curiosi oltre misura – non intellettualmente – che adeguano volti di circostanza e pronunciano parole di circostanza a scopo estorsivo, quando nella realtà della loro quotidiana routine,  non gliene frega niente  delle altrui vicende e non provano alcun afflato, emotivo, sociologico, antropologico. Indossano le maschere,  per l’occasione,  quella della vergogna, del disagio, della pietà, del disprezzo, della misericordia anche!
E ancora, ed è molto diffuso, esiste il caso dell’ipocrisia nascosta a se stessi, perché il giudizio  che l’ipocrita, nascosto  a se stesso, avrebbe di sé,  potrebbe incrinare le certezze e le abitudini di una vita: per intenderci, l’ipocrisia nascosta a se stessi si disvela nella frase “io non sono un ipocrita”. Come avviene anche per la gelosia e l’invidia, diffidare sempre di chi dice con mite occhio  e dolce bocca “io non sono geloso/invidioso”. O almeno è consigliabile premunirsi di un corno rosso o di altro oggetto apotropaico.
Insomma, i greci hanno dato un nome alla veste di cui ci copriamo ed è una veste che non si lacera, è una veste che ci ricoprirà in eterno. Immortale.
Concludo questa mia riflessione invitando tutti, me per prima, a saper fare buono e moderato uso dell’ipocrisia, capisco benissimo quanto sia necessaria a volte. Ma senza eccessi. Anzi, se vi va, potete cominciare adesso con me, spedendomi  al diavolo.  Accoglierò l’invito, giuro,  senza ipocrisia.

Ah! Tanto per tenere desta la nostra memoria. Ecco la frase più schifosamente ipocrita che sia stata mai scritta:
“Il lavoro rende liberi”  - Campo di concentramento di Auschwitz.

giovedì 1 settembre 2016

Un settembre buono

Abbiamo tutte delle preferenze, anche per i mesi. Io ne prediligo due. Uno di questi è settembre. Forse perché chiude il ciclo dell'estate, delle vacanze e mi trascina alla quiete delle stanze; e perché conservo sfocati ricordi dell'infanzia, di odori e sfumature persi nel viaggio. Ma sopra ogni cosa perché ho provato, per due volte, la gioia di vivere a settembre.


Un settembre buono

C’era un settembre chiaro
Senza foglie ingiallite, erano d’oro
Pendenti dai rami irti al cielo vicino
Così vicino da rapirmi dentro .
C’era un settembre  allegro
Tremava tutto di canti e di risate
Avevo la veste larga sulle gambe
Così volavo tra le mongolfiere.
C’era un settembre ricco
Di fremiti e profumava di rose
Tardive, una mi cadde accanto
Era la più bella e la più selvatica.
C’era un altro settembre
Avevo la luna nelle notti tiepide
A sorvegliare i sogni dei bambini
C’era un settembre ed era buono.


Gustav Klimt "La Speranza II"  -  1907


venerdì 26 agosto 2016

Nell'alba.

Non dormo, non riesco: Dalla strada, arrivano i rumori delle macchine della spazzatura, un rumore rotondo che trita anche le residue ombre della notte e i miei pensieri.
Sono i giorni del dolore e della paura, rimarranno.  Ogni fatto, ogni accadimento si porteranno il fardello di sofferenze come sempre avviene nelle tragedie senza scampo, quelle tragedie che paiono non avere un Dio che ne stravolga il finale. Ci saranno la forza e il coraggio della ricostruzione, ci sarà la speranza sopra le macerie, ci saranno i giovani a ricoprirle con i loro sogni, con i loro passi verso il futuro. Non noi, non noi. Non io che non credo in niente e vorrei credere in tutto.
Seduta senza capire il perché, seduta tra amici e parenti, ieri sera, non ero lì. Chilometri di strada rotolavano via,  lenti come le parole impigliate dentro, e ascoltavo e ridevo anche, è giusto che sia così, mi dicevo, è giusto.
Non è giusto un bel niente invece, non è giusto un cazzo di niente invece.
Non è giusto il dolore straziante; non è giustizia la lontananza; non è giustizia l'assenza; non sono giusti i cumuli di pietre che rovinano sui corpi; non è giusta la notte che stermina vite e paesi; non è giusta la morte dei bambini in guerra e schiacciati dalla natura maligna.  Non è giusto, per me, sentirmi spaesata, disaggregata, sperduta. Senza slanci, senza più empatie né desiderio di dividere il mio tratto di strada camminando a fianco di altri che sono assorti sul loro ombelico. Perché essere assorbiti dalle quotidiane cose, dagli impicci e dalle fatiche, e dall'inestinguibile falò delle vanità è talmente facile, talmente umano da comprendere. Sono anche io assorta e mi osservo l'ombelico, il centro del mondo è. Ma orni tanto scappo, via via. L'orizzonte è limitato, ma c'è, ecco un tenue bagliore a oriente. L'alba, la luce.
L'unica luce, ecco a oriente schiarisce il cielo, sono loro i ragazzi. I miei giovani, i miei figli dagli sguardi disorientati spesso, anarchici, fuggitivi da noi, senza convenzioni e senza pretese. E quasi sempre soli, taciturni e taciuti.
Il buio si è dissolto, ci sono gli uccelli nel parco che fischiano, io ho negli occhi tante immagini del passato più vecchio e di quello,  crudele, recente; ho le immagini dei ragazzi e non ho altro.
Per tutto il resto una fredda tristezza e, per me, una delusa collera. Ma, in fondo, ho sempre saputo di essere un'aliena. Distorta e testarda ancora in quest'alba.
Oggi sarà giorno di lutto per il mio Paese, io non dimentico e dietro i vetri tutto riprende come prima, come dev'essere.

Michelangelo Buonarroti - Cappella Sistina "Creazione di Adamo"   1508-1512





venerdì 19 agosto 2016

Un'eco lontana.

Il ferragosto si è concluso, le ferie stanno per andare in pensione anche per quest'anno, l'autunno è fuori dalla porta e non promette granché: Le aspettative di tutti, chi più chi meno, sono appuntate come spilli incerti, in Italia sul referendum costituzionale - sì o no - e la campagna referendaria assumerà toni sempre più accesi, impadronendosi degli epiteti e degli stilemi più da angiporto che da res publica; negli USA, e quindi nel mondo, si seguiranno con ansia gli esiti delle presidenziali, a novembre: il miliardario con la mitraglietta o l'ex first lady, politicamente corretta, che più non si potrebbe. Uno scenario da incubo per chi, come me, non ne può più di parole, di secchiate di insulti, menzogne tattiche, allusioni, sgambetti verbali, squittii e rutti vari emessi negli interminabili talk show televisivi, sui social, sulla stampa. Tutto condito, e mi auguro davvero che ciò non avvenga, dalle nostre paure quotidiane per eventuali attacchi terroristici. Nel frattempo, i migranti continueranno nella loro infinita odissea, continueranno ad assieparsi lungo le frontiere, nelle città, nei centri di accoglienza estenuati e saranno i più fortunati, perché il Mediterraneo non se li è presi. E l'Europa cincischierà con le carte del trattato di Schengen, si girerà i pollici fino a intrecciarseli e cercherà disperatamente di distrarre lo sguardo dal futuro di facce stravolte dalla fame e dal dolore, parlerà di finanza, di banche, insomma di tutti quegli argomenti che sono il pane quotidiano nostro e anche dei disperati. Ci rincoglioniranno ancora e ancora con dati, incomprensibili ai più, creeranno il terrore nelle nostre tasche: Che è ciò che più ci terrorizza, infatti.
E in Siria? E nelle zone martoriate dalla guerra? Da lì continueranno ad arrivarci, sotto la spinta delle organizzazioni umanitarie e di qualche volenteroso e coscienzioso reporter, le immagini e le grida di un'ecatombe, di un eccidio prolungato e programmato, sarà l'eco lontana e triste che ci ronzerà intorno. Senza scalfire abitudini, senza scomporre l'iter deciso, solo un'eco molesta. Fino alla prossima foto che farà piangere, oh! se ci farà piangere! di un bambino morto su una spiaggia; degli occhi perduti di un altro, ferito e salvato dalle macerie di Aleppo; di due piccoli annegati . proprio in queste ultime ore . al largo della Libia. Fino alla prossima planetaria commozione. Ma non durerà a lungo, ci saranno altri argomenti sui quali ficcare gli sguardi e l'attenzione, qualche indignazione autunnale non ce la negheranno e se non sarà più il burkini,  qualcosa tireranno fuori dal magico cilindro, sono abili prestigiatori perbacco! Tutto passa, tutto corre veloce:  la nostra ingordigia d'immagini, di fatti e fattacci, di scandali o pseudo tali, sarà soddisfatta zelantemente. Possiamo dormire sonni tranquilli, possiamo rimettere a tacere le nostre pigre coscienze. Aleppo è solo un'eco lontana.

venerdì 12 agosto 2016

All'altro di voi.

Scelgo un pomeriggio senza velleità di fare, senza scopo, senza nulla. Un pomeriggio appena appena ventilato, il mare riesce a farsi strada fin qui con la sua brezza che agita le tende. Un pomeriggio come tanti, in quest'estate strana. Ma io dovrei essere abituata alle stranezze del destino. dovrei accoglierle con un'alzata di spalle o con un sospiro. E mi dibatto nelle cinghie dei ricordi e sono strette, non riesco a fuggire. Così i pensieri partoriscono parole e le parole mi conducono altrove. A quello che poteva essere e non è stato, a quello che si è rotto, come un giocattolo nelle mani di un bambino capriccioso.

L'altro di voi.


Andate ragazzi, andate figli.
Ma non staccate le vostre mani
tenetele avvinte, intrecciatele
come un cesto di giunchi e viticci
Le nuvole coprono gli occhi
oscurano il cielo ma dentro
nascosto c'è il sole, cercatelo.
Andate ragazzi, andate figli.
Scoprite lo scrigno serbato per voi
attingete alla fonte più limpida
senza che vi trascini nel gorgo
e offritela all'altro di voi che ha più sete
Scovate il rifugio al riparo dal gelo
dal caldo dall'odio dalla freccia crudele
e offrite un letto di foglie ammassate
all'altro di voi che non ha un letto.
Andate ragazzi andate figli.
Cuocete un pane tondo che sia ben dorato
tagliatelo a fette che profumi d'amore
e datene all'altro di voi che pane non ha
Andate ragazzi, andate figli.
Con le mani intrecciate, con gli occhi larghi
con le spalle dritte come l'orizzonte
che io seguirò, in silenzio, da lontano.


Claude Monet  (Impression, soleil levant) (1872

domenica 7 agosto 2016

Un ricordo. Ancora uno.

Un ricordo, ancora uno. Di giorni trascorsi al mare, piccoli piedi che scavalcavano picchi di rocce nere, un secchiello appeso al braccio paffuto , i tuffi del mio cuore mentre le onde accoglievano il tuffo del suo corpo.

Nuota, nuota, nuota. 

Tieni sempre quei ricci sconvolti sulle magliette vivaci
E la bocca pronta alla sferza e al pianto s’allarga ridendo
Calpesti strade nuove coi tuoi magri piedi scalzi di zingara
Cresciuta tra cuscini e gatti in stanze polverose di libri
Cerchi le piazze più grandi ove allungarti al raggio immobile
Ti immergi ninfa straniera nel mare vecchio della città vecchia
La pelle di sabbia infuocata leviga le pagine  lette
Le altre restano mute, aspettano il vento e le tue mani.
Una stella di mare purpurea, un granchio nel secchio,
i cento sassi raccolti e le orbite vuote delle conchiglie
il mare bambino compagno di giochi, nudo per te.
Vestiti di alghe profumate allora, metti perle d’ostrica ai capelli ,
fatti sirena, coda d’argento  intona canto d’infanzia
Nuota allora, nuota, nuota, nuota
e non voltarti mai, non ti girare indietro, non guardarti alle spalle.

Carlo Carrà "Le nuotatrici" - 1911 ca.



lunedì 1 agosto 2016

Il cambiamento.

Non si finisce mai di imparare, si arriva al limite della maturità, a quella linea sgraziata che separa la piena maturità dalla vecchiaia, e sempre ci è concesso di apprendere cose nuove. Degli altri e anche di noi stessi. Spesso sono conferme di sensazioni e sentimenti; altre volte sono squarci di luce e d'ombra.E si rimane trafitti e doloranti;  oppure, anche, quietamente indifferenti, paghi dell'esperienza accumulata. Una giovane donna mi ha detto di recente che le persone non cambiano e io le ho risposto che è così. Ma, riflettendo sui trascorsi della mia esistenza, ripensando agli incontri con tantissimi uomini e donne durante tutto l'arco di una vita, no, capisco che non è vero. Le persone cambiano, possono farlo, accade. E non è detto che sia un male, di sovente il mutamento avviene senza traumi, lentamente, con delicata traccia. Mi è capitato anche di assistere a bruschi cambiamenti, positivi cambiamenti, però erano tutti casi in cui il dolore dell'anima aveva sfigurato ogni aspettativa, ogni certezza. O ogni dubbioso vivere.
Io, per mia inclinazione di cuore e di cervello, prediligo le persone capaci di cambiare.

A un Dorian Gray

Non ti specchiare nei vetri lungo la via 
Non cercare la tua immagine in vecchie foto
Non hai venduto l’anima al diavolo o forse sì?
Il tuo ritratto lo dipinge un pittore nuovo
E scava rughe attorno agli occhi e alla bocca
E incanutisce i capelli, sono così sottili
sono fragili ali di farfalle che ti volano sul capo.
Non aver paura, sei sempre tu  con il mento opaco
Al pittore trema la mano e i contorni non sono netti
Non allontanarti, guardati allora,  è il tuo ritratto
Di oggi e sei cambiato, la vernice scolora sul volto.
Sei cambiato in meglio, prima eri bello e stolto
Quelle pieghe, quelle grinze sono le tue strade
Quel bianco è il ghiaccio che hai sciolto
Quel mento molle è il timore  di perdere qualcuno.
Accogliti, dai il benvenuto a quest’estraneo
Che tanto somiglia all’altro, giovane e stolto.
Cambia il tuo volto, cambia il tuo passo,

cambia il tuo cuore, è tempo. Mio amato amico.



René Magritte "La reproduction interdite" - 1937 


martedì 26 luglio 2016

Ed è così che faccio io.

Quando si vive con l'assenza la vita assume altri ritmi e ha altre   esigenze. Anche la città appare diversa e i colori e i suoni sono diversi. C'è una percezione offuscata di ogni cosa, come se una nebbiolina impalpabile si posasse sugli alberi e si spalmasse nell'azzurro del cielo, rendendo i suoni lontani, meno fragorosi, meno vitali. Le ore si dilatano, prendono la misura dalle telefonate e dalle attese; e i pensieri vi ruzzolano dentro, in queste ore lunghe come le ombre al tramonto estivo, si accapigliano, si mettono a correre, bambini ridenti e giochi vicino al mare. Si nascondono e li cerchi, i pensieri bambini e fai la conta, sperando di riacciuffarli. Così scorrono i giorni e i mesi e l'assenza non è meno faticosa da sostenere, è solo ingentilita dai ricordi.
L'assenza di chi molto amiamo ci dà altre esigenze, meno schiaccianti, meno pressanti. Ogni gesto, ogni azione è inconsistente, soffice, priva di peso. Vaghiamo nelle giornate avvolte l'una sull'altra senza fretta e senza particolare cura, la cura vuole l'oggetto del nostro amore e non c'è, è via.
Io vivo la mia assente in questo modo, senza pretese, senza volere altro se non i miei pensieri e le mie parole per lei. E ogni attimo che scorre è un attimo che mi avvicina, nient'altro. Per questo sorrido a chi mi invita a vivere, a essere attiva, a prendermi il tempo che mi spetta. Ma io non voglio tempo per me, non per me sola. Io voglio dividere il mio tempo con la mia assenza: ed è quello che faccio.
Senza tristezze, senza rinunce, ma gentilmente, amorevolmente appagata.


Pablo Picasso "La soupe"  -  1902

mercoledì 20 luglio 2016

Forse, col cuore stretto.

Diffido delle persone che, universalmente - e per universo intendo il circoscritto spazio in cui si muovono e agiscono - sono ritenute buone. La bontà d'animo, qualità sempre più rara da riscontrare, è indissolubilmente legata alla propensione umana al perdono, o più semplicemente alla comprensione dei difettosi limiti di ogni individuo. E chi non vede e quindi non comprende questi limiti, ha difficoltà nell'affrontare con se stesso e con gli altri, la questione della bontà, della caritatevole qualità che tutti vorremmo sperimentare e di cui, in tanti, ci sentiamo depositari. Diffido dunque di chi elargisce lodi sperticate, di chi manifesta empiti d'affetto traboccanti, senza guardare, senza vedere meglio, chi è il degno bersaglio di tali benevolenze. Senza vederne gli angusti vicoli, i tortuosi sentieri dell'anima, le duplicità caratteriali; fingendo di non accorgersi che ci sono le ombre che oscurano la luce e sono tante. Chi crede di amare così è l'eterno cieco, colui che si è tolto gli occhi o li ha coperti per non vedere e prosegue a tentoni, con abbracci e struggimenti, con parole di gloriose lodi, gesti enfatici e giaculatorie che fanno bene a chi li compie e a chi li snocciola piuttosto che a chi li riceve.
L'affetto concreto, bello pieno di polpa e succo come un frutto estivo è capacità di accoglienza, ma anche di giudizio. Non servono a nulla le sperticate lodi e l'amour fou se non sono sostenuti dalla capacità di discernere, di setacciare ciò che è buono da ciò che lo è meno. Non si può dire bravo! a chi, anche se è la "luce" dei nostri occhi, compie un'azione ingiusta, immotivata, a chi taglia con le parole il cuore di altri. L'amore concreto è ricco, come un frutto maturo, di semi e li sparge, li sotterra perché germoglino piante sane e forti. Quanto vale, in certi frangenti, un rifiuto, un rimprovero, un solo sguardo di riprovazione ferma, non valgono cascate e cateratte di abbracci e di baci e di parole dolci. Noi ci sentiremo forse un poco male, forse lo faremo con il cuore stretto, ma sicuramente daremo un contributo amorevole nell'aiutare il nostro amato "lupo" a togliersi di dosso il pelo e il vizio.



Roy Lichtenstein - Kiss V   1962

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