lunedì 28 maggio 2018

La casa arrampicata al cielo.

Meglio tacere, meglio sfuggire alle sollecitazioni dell'oggi. Quando non vi è nulla che possa dare uno stimolo fertile di gioia, di pacata serenità, meglio affondare nel sogno vissuto.


  La casa arrampicata al cielo.


Ho bisogno di dimenticare dove vivo
questa terra di nequizie trionfali 
di uomini bugiardi sulle cattedre
sconquassate.
Di liberarmi dei sipari tarmati
rigonfi di parole e corpi ubriachi
di sé, ho bisogno.
Di sfuggire agli occhi morti della speranza
ai giudizi guasti della bestialità
umana, ho bisogno.
Di lasciare ombre di carezze
larve del passato recente e antico
soffrire, ho bisogno

E non nella luce del mattino
Il telefono squilla i muri sono echi
delle voci che m’afferrano
E non nelle sere ormai estive
Sconfinate aperte sugli alberi
oscillanti di segreti sotto la luna-

Di notte, irrompe nella clausura
del letto, nelle palpebre chiuse
La casa che s’arrampica
al cielo.
Il limone è sempre là fiorito
di zagara graziosa sul minuscolo
terrazzo quadrato sospeso al viale
Il vetro riflette i lampadari dipinti
dal tuo estro
E lo scialle indiano ordinatamente
adagiato come te,
sul divano
E sul tavolo quella pianta dal fiore
strano e giallo
di cui non ricordo il nome,
ritaglia un merletto di sole.
Camminavamo insieme e tu la
tenevi stretta al cuore
Era l’ultimo regalo che ti facevo
A te e alla tua casa arrampicata
Al cielo.



Marc Chagall " La casa blu "  1917 - 20
  



















  






















sabato 19 maggio 2018

Bisogna essere un po' pazzi.


Quell'uomo. Quel fauno con i capelli lunghi e lisci, vibranti d'argento come piccole serpi stese al sole, quel fauno senz' età come impone il Mito, con un lungo impermeabile nero allargato a guisa di paracadute, quella figura alta e seria sfrecciava sulle selci sconnesse, le mani aggrappate al manubrio del monopattino. Mi sfiorò quasi, mentre lo seguivo sbalordita e divertita. E ridevo, ridevo sotto quella pioggia di raggi tiepidi e ripensavo alla signora non giovanissima, come una stella filante sul lungomare alla Barceloneta, sullo skateboard, mentre si faceva spazio tra i ragazzi e le ragazze in muta e tavole da surf , pronti a tastare il mare, ed era acciaio duro il mare, in quel giorno, tagliato dal vento freddo, ma la luce rimbalzava sui volti e vi si stendeva accarezzandoli e vi restava attaccata illuminandoli. E nel Barrio, nelle pietre gentili e antiche, calpestate senza posa dai turisti, la donna imponente e malinconica, il grande seno da soprano  e la voce forte e pura, una cascata di parole note,  "libiamo ne' lieti calici" e una vertigine d'amore e d'orgoglio che mi assale, ma è un attimo.
Poi la piazzetta nascosta, poco frequentata, con la Chiesa su un lato e i muri che hanno nel loro corpo di pietra chiara i segni di morte e non occorre che ci siano cartelli a ricordare, la storia è tutta scritta in quei fori tondi di mitragliatrici. La scoprii quella piazza e quella Chiesa di S. Felipe molti anni fa e fu un colpo al cuore, fu un grido, uno straziante grido di libertà e ci sono tornata e ci tornerò ancora perché è anche questo grido di morte e di libertà. il mio cammino.
E i giovani, ancora i giovani,  tanti, da tutto il mondo. Odore di libertà che si mescola a quello salmastro del mare, sempre presente, anche quando non si vede. I giovani coloratissimi, che non hanno uno stereotipo, uno straccio di moda da seguire, meravigliosi, se ne fregano e si vestono come gli pare. E l'invito a sedersi ai tavoli di un bar, dappertutto disseminati, piccoli e grandi, eleganti e con le sedie scrostate, e ancora gli odori del cibo, a tutte le ore, non importa che sia da gourmet, ci si siede, si mangia, si parla, si parla. Il brusio delle voci che accompagna il cammino, sempre.
E le strade che portano giù al mare, ancora il mare in fondo come una promessa, nel barrio poco frequentato dai turisti, il quartiere, come mi informa ridendo una bella donna, degli artisti, dei radical chic, mi dice e ride. Le strade che portano al mare hanno alberi d' aranci su un lato e piccole deliziose botteghe, librerie, fiorai, e poi si aprono di colpo in piazzette ombrose e lì c'è sempre un luogo di ristoro, un benvenuto di sapori e di musica. Una donna porta in braccio un grosso cane, lei è minuta ma procede svelta e sicura. Si ferma accanto a noi, depone il cane per terra, è molto malato ci dice, parla, racconta il suo dolore e piange, ha un viso segnato e bello, la voce dolce e si asciuga le lacrime e sorride e continua a parlare. Io l'ascolto e so di cosa parla pur non comprendendo le parole. Se non fosse per Altrove, la mia Altrove che mi sussurra, ogni tanto, una breve sintesi. Generosa, si chiama Generosa la donna del cane che sta morendo. Lei e Altrove si scambiano i numeri di telefono. Si allontana dopo averci baciate ed è piccola sotto quel peso. Il sole è calato dietro i platani del viale e il buio si fa veloce e la inghiotte subito.
Il mare soffia il suo profumo verso di noi e io e Altrove gli andiamo incontro, mano nella mano. Domani saremo lontane.
Difficile staccare il cuore da questa città, difficile. E forse bisogna essere un poco pazzi per viverci, ma bisogna essere anche un poco pazzi per lasciarla.

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