mercoledì 13 novembre 2019

La giornata della gentilezza.

Trovo parecchie difficoltà nel recuperare gentilezza. Anche in me, nelle mie azioni e nelle parole. Ho imparato a strapparmi dalla ritrosia infantile, da quella pulsione straordinaria che mi trascinava in una solitudine rassicurante: da bambina e anche da adolescente non mi piaceva stare assieme agli altri, il gruppo mi infastidiva. Preferivo un libro a un pomeriggio con le compagne. O anche un cielo o un muro ai quali parlare. Non ero comunicativa, ero silenziosa, schiva, gli altri non mi appartenevano. Eppure avvertivo il dolore, la sofferenza in un modo acuto, tremavo e le lacrime riempivano spesso i miei occhi. Una mia compagna di liceo mi disse, molti anni dopo "tu eri così, con la testa da un'altra parte, sempre. Ma eri gentile e generosa". Forse è vero, forse ero da un'altra parte.
Come oggi. Come in questi anni e mesi e giorni che non passano mai, mai diversi eppure irriconoscibili, irricevibili. Da sbatterli fuori a calci, da tenerli lontano da tutto, senza alcuna gentilezza.
Questo tempo che è un urlo, una sconcezza di filastrocche per adulti istupiditi; questo tempo che non riconosce più la decenza di un gesto gentile e giusto; questo tempo che nega diritti elementari
a chi ha più diritti perché respinto, umiliato, ucciso; questo tempo non mi piace. E a parlare di gentilezza, oggi, m'assale una stanca tristezza, mi pare che si voglia invitare tutti con la retorica fasulla del popolaresco volemose bene per un giorno, ché domani ci scanniamo.
Mi accorgo di non credere più alla bellezza, al concetto stereotipato di essa, la bellezza come immaginifico riflesso di quello che vorremmo vedere, anche nella nostra quotidianità, la bellezza gentile che appaga solo noi e che ci rende, per ciò stesso, ciechi al resto. L'illusione di essere capaci di possederla perché ci sfiora è l'atto finale della sconfitta dell'umanità. Nel chiuso delle nostre case e dei nostri affetti, nell'appagamento dei nostri desideri materiali e non solo, nella consuetudine di gesti e di parole, di letture e di conversazioni troviamo quella bellezza gentile che ci permette di sopravvivere. Come nell'osservazione di un'opera d'arte o nell'ascolto di una musica eterna o ancora nelle parole di un grande poeta, ritroviamo tutta la bellezza del mondo.
Ma non basta. Non a me, almeno.
Quella bambina solitaria che amava discutere di sé col cielo e con un muro, ha trovato, con fatica, la bellezza nella percezione della sofferenza degli altri. Non rinnego la meraviglia di ogni giorno, degli affetti, del gatto di casa, degli oggetti familiari, della città severa e tiepida, del tripudio d'ogni stagione, no. Ma non è tutto, non è il completamento di me e di ogni uomo e donna.
La bellezza della gentilezza è corale, appartiene a tutti, è partecipe di tutto e di tutti: è il sentimento della gioia ma soprattutto del dolore degli altri e senza questo non si completa.

Giuseppe Carosi "L'angelo dei crisantemi (del dolore)" 1921

venerdì 1 novembre 2019

Vi porterei un fiore.


A te mamma  porterei una tuberosa
ti stordirebbe con quel profumo acuto
vi tuffavi la faccia a settembre
e a te nonna una rosa rosso cupo, la papa Meilland
se non ricordo male,
non so quale altro fiore ti piacesse,
è una rosa generosa e fiera, ti somiglia.
Alla bambina che era mia sorella,
un ciuffo scherzoso
di piccoli garofani bianchi
come i due dentini che ti luccicano in foto,
alla zia, a quel donnino smilzo che eri,
con te entro in confusione,
tu li amavi tutti i fiori,
ecco allora un variopinto fascio di corolle,
magari disordinate, un poco fruste com'eri tu.
Alle vecchie zie certamente iris e calle,
i fiori della belle époque,
eravate due ceppi di un secolo a me ignoto.
A te Giovannina, due girasoli da mettere
alle orecchie al posto dei cerchi d'oro
o i fiori di vaniglia per i tuoi biscotti.
All'altra nonna e all'altra zia un fiore,
uno qualunque, magari un po' esotici
irregolari come il vostro affetto e il mio.
Ai miei suoceri,  crisantemi ricci e folti,
eravate legati alle tradizioni giuste, voi
ma a te Maria aggiungerei i mughetti
così timidi e riservati.
E a mio padre e ai nonni sconosciuti
porterei foglie di tabacco e magari
in mezzo, di soppiatto ci infilerei una gardenia
da appuntare al bavero.
A tutti gli altri, e siete in tanti,
tutti, tutti i fiori della mia memoria.


Ambrosius Bosschaert il Vecchio "Natura morta con fiori" 1614


Lettori fissi