sabato 29 marzo 2014

Crepuscolo.

Ogni tanto scrivo quattro versi. Ogni tanto fingo di esserne capace. Soprattutto in anni passati, forse quando le emozioni mi raggiungevano con più velocità. E ogni tanto succede qualcosa che fa riemergere un'emozione, un sentimento dall'archivio. Oggi è arrivato un dipinto e la fiammella si è accesa.

Crepuscolo di polvere
Nei capelli di gocce
Intrecciati tra le dita
Fuliggine umorosa
Negli occhi accesi
Da giovani scintille.
Immota stai nel buio
Della camera gialla
E parole ti dici quieta
La solitudine sfiorando.
Fuori una volpe ride
Rovistando tra i ricordi
E dall’olmo saetta forte
Il grido della tua civetta.


Edvard Munch - Nudo  1913



mercoledì 26 marzo 2014

Op! Op! Saltate pure.

In Francia l'estrema destra di Marine Le Pen accumula consensi, coagulando i malumori dei nostri vicini (un tempo erano detti "i cugini d'oltralpe") nel calderone agitato da neonazionalismi beceri, rigurgiti di antisemitismo ancora più beceri, xenofobia varia, antieuropeismo e chi più ne ha, di disvalori e di anacronistiche pulsioni, più ne metta. A me duole il cuore solo a pensarci e non voglio pensarci: è come perdere un amico caro, come vederlo partire senza che ti abbia salutato. E invece c'è chi si rallegra, chi fa salti tripli e quadrupli di gioia alla notizia ed è la Lega Nord, quell'inutile accozzaglia di uomini e donne che si ostinano a chiedere, con viva e vibrante vigoria (Crozza docet), l'indipendenza dalla detestata Italia, fino a oggi loro patria inconfutabilmente. E anche qualche altro si frega le mani soddisfatto come gatto Silvestro davanti all'innocente Titti, e sono i Fratelli d'Italia, partito di destra, in verità dai numeri esigui, che non si capiva di chi fossero poi i fratelli almeno fino a pochi giorni fa. E così plauso e soddisfazione si sprecano e i due partiti (Lega Nord - Fratelli d'Italia) sono pronti a saltare sul carro del vincitore, pardon della madame vincitrice. Solo che c'è l'ostacolo naturale delle Alpi di mezzo e se non ne dovessero tener conto, potrebbero rompersi l'osso del collo. Attenzione quindi, pensateci bene e se proprio non ce la fate a contenere la voglia matta, andate, andate pure, ma con mezzi meno incerti che un triplo salto, andate che nessuno vi tratterrà. Come nessuno di noi. comuni mortali senza superstipendi, cercherà di fermare il Gran Manager Moretti se volesse, cortesemente, togliersi dalle scatole. Anzi, sarebbe auspicabile un processo emulativo, una reazione a catena, un sussulto di ferito orgoglio che coinvolgano i nostri IperMegagalattici Direttori, Presidenti, SuperManager e affini che non hanno requisiti di merito e di virtù: che scollino il sedere dalle loro poltrone rivestite con la nostra pelle e vadano via. Non all'inferno, non al diavolo. Semplicemente via da qualunque altra parte.


Fernando Botero - Gente del circo.

sabato 22 marzo 2014

La bellezza non è più dentro.

Per anni ho creduto che il concetto di bellezza non potesse essere univoco. Ho creduto che anche davanti alla suprema perfezione di un’opera d’arte c’era chi potesse restare insensibile, percependone, sì,  l’ideale estetico, senza  però provare contaminazione alcuna, senza commozione. Per anni ho creduto che la bellezza fosse davvero un quid magico, una scintilla interiore che un oggetto o un volto,   seppure imperfetti secondo i canoni accreditati da secoli di educazione artistica, possedevano; una dinamica che scaturiva dal “dentro,”  dall’interiorità celata da tratti non perfetti.  La grazia, mi dicevo, è ciò che si intende come grazia, mi dicevo. Per anni dunque ho creduto che bellezza fosse la forma che lasciava trapelare l’essere. Come dire, banalmente, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ora mi rendo conto che non è così, in questi tempi di oggetti-corpi-volti consumati come caramelline da succhiare per ingannare l’ora che non scorre o che corre via troppo in fretta. Non è più concessa l’immaginazione, la fascinazione della scoperta. Il disvelamento dei sublimi abissi nascosti dentro, la ricerca dell’emozione profonda nel tuffarsi senza salvagente negli occhi altrui per catturarne la segreta armonia. Quella, l’unica, che può ancora salvarci. Ora so che non è così, ho creduto fosse possibile, ma no non è così. Più pedestremente ci si accontenta. Ci si accontenta di una sfacciata volgarità che sembra bellezza; ci si accontenta di essere anche noi come ciò che consideriamo gradevole e desiderabile,  e diventiamo, senza acorgercene, “brutti”  e ciechi dentro. Forse perché ci è insopportabile scorgerla la vera  bellezza, forse perché riflettendoci in essa, ne saremmo sopraffatti. Potremmo morirne.


Prassitele - Hermes


martedì 18 marzo 2014

C'è un tempo per seminare.

"C'è un tempo per seminare." Ivano Fossati è per me fonte di riflessione, sempre. Ascolto le sue canzoni e mi emoziono e mi rispecchio nelle parole che sussurra con quella sua voce un po' roca, un po' vecchia, che tanto amo. E in effetti arriva il tempo di seminare, di far crescere nuovi frutti dentro di noi, dentro di me. I riti di passaggio non finiscono con la maturità anagrafica, no, sono sempre lì, nel futuro più prossimo, nell'oggi anche, ad aspettare di essere celebrati. La maturità dovrebbe significare compostezza, rigore, pienezza di propositi e di esperienze; ma potrebbe significare anche assuefazione, abitudine, quiete. Una quiete piatta molto vicina alla noia. In fondo un frutto maturo è vicino a disfarsi in polpa molle, ricca di zuccheri, ma con un retrogusto di aromi marcescenti. Io preferisco la frutta un poco più acerba, consistente nel morso che l'addenta. Per questo i giorni tiepidi di marzo mi rendono allegra, mi ritrovo a cantare e a giocare  sul pavimento con la bassotta sculettante; mi guardo allo specchio e mi accorgo di una nuova ruga, ma non importa, è quasi bella. Mi entusiasmo per un nuovo movimento, la Lista Tsipras, e aderisco con lo stesso spirito di quando, ragazza all'università, partecipavo a manifestazioni e cortei. Afferro il mio uomo e ballo con lui, in un pomeriggio senza ore.
I riti di passaggio sono dentro di noi, se li vogliamo ascoltare. Ci portano altro, ci fanno sprofondare nella sofferenza e subito dopo ci innalzano alla luce; ci fanno piangere e poi ridere; ci fanno prendere coscienza che un ciclo si è chiuso e ce n'è un altro, bendato come un pirata, pronto a rapirci. C'è un tempo per seminare, c'è ancora un tempo per cambiare.

venerdì 14 marzo 2014

Donne affacciate alla finestra della vita.

Un tempo qualcuno mi disse "vorrei che tu fossi talmente piccola da poterti tenere sempre con me, da poterti chiudere dentro una tasca della mia giacca". Da allora sono trascorsi molti anni e io sono diventata molto ingombrante, Se mi si chiudesse in una tasca (ammesso che esista una di dimensioni così grandi) la farei a pezzettini, la ridurrei a brandelli e non con le unghie, ma con le parole. So di essere un martello pneumatico, una trivella petrolifera o più familiarmente un tritatutto con questa mia maniacale fissazione sulle parole, ma non posso farne a meno: le parole che vengono fuori dalle nostre bocche sono chiodi sparati che si conficcano nel cuore, nella mente, nelle viscere. Le parole non scorrono fluenti, no, le parole cadono addosso e scalfiscono, incidono solchi e aprono ferite che non si rimarginano; a volte sono lievi brezze che accarezzano, sono pleniluni di luce nella notte dell'anima. A volte. Ma le dimentichiamo, le riponiamo in angusti spazi e intanto guardiamo la lacerazione delle altre, le parole-chiodo, quelle che fanno sanguinare. Siamo in attesa, donne alla finestra della vita, in bilico nel dubbio che è peggiore del dolore stesso, in attesa delle parole nude, senza orpelli, senza ipocrisie. Senza menzogne. Siamo donne alla finestra della vita affacciate, sempre alla ricerca di quella parola che non verrà mai detta. Quella parola che, sola, può fugare dubbi e paure, quella parola che può salvare noi e gli altri. O forse no, forse vorremmo stare nascoste, nella tasca della giacca di chi, crediamo, possa amarci.


Edward Hopper - Eleven A.M.  1926

lunedì 10 marzo 2014

Sulla ruota panoramica, su e giù.

Il passato si chiude senza che te lo aspetti, come una porta sotto l'impeto del vento. lo stesso rumoroso sconquasso nelle orecchie e nella testa. E ti interroghi perché un periodo della tua vita si sia concluso così  senza preavviso, senza darti il tempo necessario per prepararti a dargli un saluto. Accade un fatto, ascolti delle parole, vedi un'immagine e il cerchio si chiude, non più una linea retta che ti porta al futuro, ma una bolla ialina in cui resta racchiuso e concluso per sempre: emozioni, momenti di gioia e di dolore, volti, parole e gesti, tutto si rannicchia nella memoria. I ricordi diventano il grembo materno che custodisce la nostra vita trascorsa. All'inizio è dura. Quando ci si rende conto che niente sarà più come prima, che niente sarà più e basta. Intollerabile, la privazione di una parte di sé, una lacerazione dolorosa che si riflette negli occhi smarriti, nella mimica del corpo insicura, nella voce che flebile non vuole essere voce. Se non della sofferenza che proviamo. Poi, piano piano, ci accorgiamo di essere immobili fuori dalla vita che continua a scorrere fuori, che ci scorre dentro dispettosa e pulsante. Ci accorgiamo degli altri, di nuovo, ci accorgiamo che c'è un presente, pressante e inelu
dibile. Non è facile e ci rimettiamo a camminare, rialzandoci e guardandoci attorno, spaesati quasi fossimo appena nati, quasi fossimo bambini alla scoperta di un giardino incantato. La giostra gira veloce, il Luna Park ha tutte le luci ammiccanti e saltiamo sulla ruota panoramica, su e giù in vorticosa caduta, e poi ancora su a sfiorare le stelle e giù a temere la terra. Sapendo che anche il Luna Park del presente diventerà un gioco del passato, sapendo che nascosto tra le luci fredde delle stelle e la violenza della terra, c'è il futuro. Velato, misterioso. Ma c'è.

mercoledì 5 marzo 2014

Un pomeriggio a Pompei

I recenti crolli verificatisi a Pompei sono da addebitare, secondo il soprintendente al sito archeologico, alle forti piogge. Lo stesso dicasi per il cedimento con relativo squarcio di un bastione dell'Acropoli etrusca a Volterra. Peccato che non si possa dire al maltempo di smetterla di infastidirci e di arrecare danni al nostro patrimonio artistico, sarebbe tutto talmente più semplice, sarebbe tutto risolvibile. E invece no, bisogna spremersi le meningi, capire e dopo mettersi in moto e spendere quei soldi che già, oh perbacco! sono stati stanziati e ridare la giusta attenzione a quei siti che come dice il ministro ai Beni Culturali, sono il nostro "orgoglio"!  Bravo, ci volevano altri dissesti e altri crolli per ritrovarlo. Come se non lo sapessimo già, come se non lo sapesse il mondo intero che il nostro Paese è uno scrigno di gioielli da non disperdere, ma da conservare con amore. Ed è quello che manca da sempre a noi, inutile fingere, è l'amore per la cultura e per l'arte che ci difetta e i nostri politici in questo ci hanno degnamente rappresentati, oh sì, non possiamo lamentarci davvero. Ora promettono che le cose cambieranno, che il nostro patrimonio d'arte (immenso e meraviglioso) diventerà priorità assoluta: vogliamo crederci? Poco, date le circostanze, ma di certo saremo sempre più vigili.
Voglio ricordare Pompei così come mi apparve durante un viaggio di moltissimi anni or sono, da bambina con mia sorella e i miei genitori, ancora giovani e felici. Voglio ricordarla nella luce di un pomeriggio di settembre, una spruzzata d'oro sulle pietre antiche, sull'acciottolato corroso, sui muri ingentiliti da erbe selvatiche; voglio ricordarla nel silenzio di quel pomeriggio, pochissimi visitatoti e io e la mia sorellina che ci perdiamo nell'intrico di vie e non scorgiamo più la schiena dritta di papà e non sentiamo la risata dolce della mamma; voglio ricordarla così con quel brivido su per la schiena,
 un misto di paura e di smania d'avventura, quel senso della scoperta. Quel senso dell'ignota vita di altri uomini e donne che mi camminavano accanto, ombre remote e amiche. Forse furono loro, con le loro bocche mute, a prendermi per mano e a farmi scegliere quegli studi che non ho mai smesso di amare.

Pompei - Villa dei Misteri

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