giovedì 30 novembre 2017

Nelle mie pagine.

Se il tempo scappa via veloce, altro c'è che, ostinato, resta. Ed è la memoria, sono i ricordi, sono i ricordi di persone amate. Di una.


Non sei laggiù, sei nelle mie pagine.


Scivolavo accanto alla pietra macchiata
Ti cercavo
come da bambina
E il gelsomino scopriva il tuo sorriso
In bianco e nero
delle attrici di allora
Ti ho strappato un ramo secco che ti attorcigliava
I capelli
E la fronte
 E i fiori non sono abbastanza belli
Per te silenziosa
Silenziosa regina
La luce era opaca senza di te
Eppure c’era il sole
E c’era caldo
Eri tu che non c’eri, eri tu
Che ti nascondevi
Non sei laggiù non tra le pietre rosicate
Non sei muschio
Non sei ruggine
Ti ho vista, sai,
danzavi ancora
e cantavi ancora
E la tua testa di regina
Era tutta bionda
Come nelle foto in bianco e nero
Che sto guardando
E so qual era il colore
Dei tuoi occhi.
Ti ho vista, sai,
In questi giorni brevi della mia vita
Sei uscita fuori con un guizzo
Un volo delicato verso me
E mi parli, sai,
Mi parli sempre e batti in testa
In questi giorni senz’alba né tramonto.
Il mio tempo veloce e trafficato
Scorre con te
E non sei laggiù, sei qui con me
Nelle mie pagine
In bianco e nero
A dilatare leggera questo mio tempo.


Jan Vermeer  "Donna che scrive una lettera"  1665 ca.





lunedì 20 novembre 2017

La ricchezza di alcune donne.

E lo sapevo, ne ero certa, ma così certa che Muzio Scevola mi fa ridere, altro che mano nel fuoco, tutto il mio braccio! E lo avrei tirato fuori senza traccia di fiamma.  Perché se si arriva a quest'età un beneficio deve pur esserci in mezzo a tanti guasti e uno è quello di conoscere le reazioni, i comportamenti di alcune persone di fronte a una prova, una prova che è una provocazione alla risposta che dovrebbe essere consequenziale alle esternazioni, più o meno plateali, nei confronti di qualcosa. E invece, il silenzio. Da me atteso con beffarda consapevolezza.
E qui entra in gioco nuovamente, mai stanca, mai sonnacchiosa, l'infingarda ipocrisia, il sorriso sdentato, il gesto ammiccante e osceno. Una trivialità dello spirito talmente palese (Freud e tutta la moderna psicanalisi sogghignerebbero e si fregherebbero le maani posti davanti a simili inezie caratteriali) che se è sconcertante e disgustosa, non mi sorprende più. L'essere umano è un impasto da rimodellare, in fondo. Il tragico risvolto della faccenda è che non ne è consapevole.
Ma non è su questo che intendo soffermarmi.
Il caso esiste, forse. O forse nasce dai nostri gesti, forse dalle nostre riposte ansie e dai nostri aneliti a qualcosa che sia altro. E ieri, sarà stato il caso o chissà quale piccolo dio che sì agita dentro di me, ho apprezzato con un poco di maggior letizia, una ingorda letizia, ho apprezzato meglio la vita e gli incontri che si possono fare. Due donne, sicuramente molto diverse tra loro, ma simili per età e chiarezza. E mi riferisco a quella chiarezza dell'anima, quella limpidezza che è dote preziosa. Due donne che raccontano - una tramite la scrittura, l'altra oralmente - episodi legati alle loro infanzie, che raccontano persone a loro care e paesaggi e mestieri antichi e stanze in vecchie case di borghi, alcuni sconosciuti e uno, Randazzo, fastosamente arroccatosul fianco sussultante dell'Etna. Narratrici attente, dalla lingua asciugata d'ogni orpello retorico, acuti occhi che si poggiano sul passato, restituendogli una luce quieta e ammaliante allo stesso tempo. Io, leggendo e ascoltando, vedevo scorrere valli ignote e monti aguzzi, volti in ombra e fruscii di lunghe vesti femminili, echi di un passaggio remoto ma che persiste caparbiamente vivo.
Ne ho tratto conforto, il mio lavoro ha un senso mi sono detta. In questo lago piatto e infinito posso trovare la mia brezza che sollevi l'onda; posso scavare nella mia stretta aiuola e ritrovare l'antico seme da cui tutto ebbe inizio.
Posso spartire con altre compagne la ricchezza di noi donne. Di alcune donne.


Jan Vermeer "Ragazza con l'orecchino di perla"  1665 - 66

mercoledì 15 novembre 2017

L'inverno del nostro scontento.

Nel bel mazzo di notizie, di fatti, nel profluvio di parole spese a commento di questi fatti, non poca parte hanno le nuove pruderie puritane degli scandali legati al sesso. E, in tutta sincerità, non mi appassionano, non mi interessa citare nomi di presunti molestatori e di presunte vittime. Dovrebbe essere compito della magistratura appurare la verità e decidere le pene.
Fin qui, però, ci stanno pensando in molti a giudicare e a comminare castighi. I social - novello tribunale mondiale - se ne sono assunti, doverosamente e gioiosamente, il compito. Schierandosi - la par condicio non è da trascurare -  in pro e contro i molestatori (presunti) e in pro e contro le vittime (presunte).  Ed è venuto fuori di tutto, un'onda gigantesca che, ritirandosi dopo aver travolto tutti, lascerà una landa piatta e fangosa. Non sono qui per schierarmi, non ne so abbastanza e, ripeto, non mi interessa. Ciò che mi disturba, che mi lascia il sapore disgustoso del cibo irrancidito è la tetra pervicacia nel reiterarsi di antichi schemi e di stantie schermaglie: tra uomini e donne. 
Ho letto commenti -  ed è tragicomico che a postarli siano state persone di non scadenti qualità culturali -  nei quali le vittime vengono, tout court, definite "troie". E mi auguro per chi lo ha scritto che sia una provocazione più che un'intima percezione della donna.  Ma a parte queste esternazioni estremizzanti, quello che mi ha fatto sbarrare gli occhi e mi ha, dato un poderoso senso di impotenza, sono alcuni post e commenti da parte di alcune gentili rappresentanti del mio sesso. Un accennare leggero, appena appena intinto nell'ipocrisia di un femminismo che pesa come le catene del forzato Valjean; un credere e non credere alle "fanciulle" seducibili dal potere e tardivamente pentitesi; un sorrisetto colloso, da beghina controvoglia, che equivale a "ti conosco, carina, a me che donna sono, non la dai a bere!" Come se il solleticante desiderio di parlare fosse sulla punta della lingua, ma l'apparente maschera di solidarietà femminile lo vietasse.
In tutto questo sconfortante scenario di balordaggini, ci saranno delle vittime, resteranno per terra dei cadaveri. E saranno quelli di noi donne. Non ce ne accorgiamo nemmeno, ed è un timore fondato, dell'aria che tira. 
Allora ci adegueremo, saremo le donne che molti uomini sognano di avere accanto. Disponibili e pronte a seguirli sempre, attente e premurose dispensatrici di lauti pasti e di letti accoglienti.  Madri e mogli. Compagne devote e silenziose. Torneremo ai fornelli e ai fiori e lasceremo tutto il resto, lasceremo la bruttezza della vita all'uomo. Perché così, in fin dei conti è sempre stato e perché così, in fin dei conti, è più facile essere amate. 
Le altre - e ce ne sono, vivaddio, ancora - continueranno a non stare zitte, guarderanno il mondo con i loro occhi, cercheranno se stesse anche da sole, vedranno gli uomini con occhi schietti. Non accetteranno l'ipocrisia dell'amore immobile. Vorranno il dialogo, l'aprirsi a  un reciproco rispetto, la consonanza dei desideri e la loro legittimazione. Senza trascuratezza alcuna, senza togliere niente all'uomo e ai figli e a se stessa. Sarà duro il cammino, ma lo è sempre stato, duro. Ci siamo avvezze, c'è una lunga storia alle nostre spalle che le ha rese larghe e forti.
Ci aspetta, e mi rivolgo a quelle che, come me, vogliono sperare nell' Altrove e nell'Altro Uomo, una solitudine fitta, ci aspetta un lungo inverno.
Sarà l'inverno del nostro scontento. Ma si muterà in splendida estate e ne verremo finalmente fuori.


Vincent Van Gogh "Donne che zappano la terra innevata" 1890

venerdì 10 novembre 2017

Io con lei.

Sarà questo mattino così spesso e grigio, che le stanze hanno l'ombra della sera. Sarà per un amico che mi ha scritto e che mi batte dentro. Sarà per una telefonata che non volevo avere.

Io con lei.


C'è la luce dei paesi ghiacciati
nelle stanze
ombre di sere, antiche sere, s'attaccano
alle pareti.
Il giardino è immobile mentre beve
tace il nido di passeri.
Mi aggiravo inquieta e storta
le mani
torcendomi e pure il labbro
senza risposte.
Quelle parole dette di scatto
il suo mare
sempre agitato dentro
il suo corpo leggero e teso
come un arco.
Sono pesanti frecce acuminate
quelle parole
si conficcano nei muri
 a fare buchi fondi
e il buio
non nasconde le crepe.
Neanche il cuore pauroso
e il cervello rotto
sfuggono all'amato
arciere.
La luce si abbassa e s'alza
lassù nel cielo chiuso
e nelle stanze
e io con lei.




Vilhelm Hammershøi (Danish, 1864-1916), Interior. “The Four Rooms”, 1914. 

domenica 5 novembre 2017

Non vi fregheranno.

Questa è una riflessione di alcuni giorni or sono, ormai quasi scaduta, nel senso che si sta votando, proprio in queste ore, per il rinnovo del governo in Sicilia. Ma la ritengo valida, per me.

Ci si prepara alle elezioni nell'isola. Sono arrivati tutti, in drappello e anche alla spicciolata. Sono all'arrembaggio, le vecchie e recenti volpi della politica, hanno il coltello tra i denti come pirati guerci. Alcuni esibiscono le zanne in untuosi sorrisi. Sono calati quaggiù per spartirsi ancora una volta la torta rancida di quest'isola, di questa terra che non ne vuole sapere di cambiare e loro lo sanno, sì che lo sanno. C'è qualcuno, qualcuno c'è che rumoreggia e mi ricorda le oche del Campidoglio, ma non c'è la certezza del prode salvatore, non c'è nessun Furio Camillo a soccorrerci. Soccomberemo, come altre volte, volontariamente e volentieri, ci consegneremo a quella sorte infame ma sempre cercata e accettata che non ammette il cambiamento. Sono questi i miei peggiori timori, sono sempre gli stessi, da decenni. Si potrebbe tentare l'eversione - e molti lo faranno - di votare quest'idea relativamente nuova, il Movimento. Si è tentati, lo sarei anche io se solo potessi dimenticare esternazioni ambigue e le cialtronerie urlate dal loro padre-padrone ( l'aspetto, per me, più inquietante è proprio questa sacralità del ruolo assunto dal leader, la sua indiscutibilità mi è disturbante); si è tentati e forse in molti lo voteranno. Ma basterà, basterebbe perché se non tutto, qualcosa inizi a cambiare? Perché si cominci a voltare le spalle a odiose, inveterate abitudini che rappresentano il tumore maligno, la Peste Nera di cui è ammalata l'isola?
Il malaffare, la corruzione, il potere mafioso si sono cronicizzati, il tumore ha fatto metastasi dappertutto. Almeno in una parte della società, quella che, anagraficamente, mi è più vicina. Quella che si è arraffata, nel silenzio consenziente di molti e dello Stato centrale, il Potere politico-economico di tutti i gangli vitali dell'isola. Uomini e donne (ci metto dentro anche le donne, anche se sono scarsamente rappresentate) che abusano dell'opportunità di una poltrona, di un titolo, di una dirigenza, per giocare sporco, per esercitare un dominio spesso feroce sulle esistenze di chi è costretto, per necessità, a soggiacervi.
Spesso sono i giovani a essere soccombenti, i più giovani sguarniti di protezioni adeguate - protezioni che uno Stato dovrebbe fornire - cadono sotto la mannaia di interessi, ripicche, ritorsioni, ricatti. E non parlo qui della Mafia, del Sistema che ha infettato e infetta le attività economiche dell'isola. Parlo della mentalità mafiosa, meno appariscente, sotterranea, strisciante, che è ugualmente infettante e infestante.
Mi rivolgo ai giovani allora.
Il voto di oggi, temo, non produrrà la svolta. Ma anche se qualcosa di nuovo dovesse accadere, non sarà sufficiente.
Il cambiamento sta dentro di voi, voi avete gli strumenti perché qualcosa si possa muovere nel limo, perché il fango si ossigeni di nuova acqua pulita. Siete fondamentali, siete necessari, ma non dovrete più lasciarvi abbindolare, non dovrete più chinare la testa: dovete riacciuffare la vostra dignità. Cambiate voi quest'isola, cambiamdo voi stessi. Scansatevi dalle false promesse degli ominicchi e dai loro ricatti foderati di sorrisi e pacche sulle spalle. Sono nani, gnomi malefici, rispetto a voi. Abbiate rispetto di voi stessi, non di loro.
Solo così non vi fregheranno più, non vi fregheremo più.

Raffaello Sanzio  "La Scuola di Atene" (particolare)  1509 - 1511 

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