domenica 28 settembre 2014

In punta di piedi.

In punta di piedi, senza fiatare. Con il cuore ebbro e la mente vacillante. Ci si sente così a ripensare al passato, Ubriachi eravamo e ciechi, non volevamo vedere. Ma la luce cambia e si fa gravida. Di colpo illumina.

In punta di piedi


In punta di piedi rientro
nella tua vita scollata dalla mia.
Nei palmi screziati di mappe
nuove, i miei dolori antichi
le mie recenti gioie ti offro.
Non voltarti più, c'è buio
e cadresti di schianto.
Afferrati a me, allacciami ai fianchi
e nel buio e nella luce cadremo
ancora e ancora, insieme.

martedì 23 settembre 2014

Da una città all'altra.

Nel flusso di pensieri ne pesco qualcuno strampalato eppure talmente pressante, che le dita si agitano alla ricerca dei tasti, una volta avrei detto "della penna", ma il progresso esclude spesso oggetti di nobili virtù. La stramberia di oggi è che non ho voglia di riflettere, non penso. O meglio voglio pensare solo a cazzate. Voglio mettermi a scrivere che faccio dei dolci e che non mi riescono e chiedere il perché agli amici dei social; voglio fare un selfie e sono indecisa se assumere una posa sexy (alla mia età? uhm, meglio lasciar perdere) oppure scegliere una  posa filosofica-intellettuale-rompolepalleatutti (questa mi verrebbe meglio) e postarlo subito; voglio condividere una decina di barzellette cretine che si guadagnerebbero, sicuramente, centinaia di like e il mio ego si espanderà in maniera spropositata; voglio intervenire in qualche battibecco in cui non c'entro e di cui non me ne frega un tubo, solo per il gusto di infastidire; voglio raccontare le esperienze, manco a dirlo uniche, del mio ultimo viaggio all'estero (quelli in patria non contano), solo che questo risale ad alcuni anni fa e chi se lo ricorda.  Insomma, ho voglia di essere un'abitante degna dei social, una di quelle che fanno la differenza (con gli esseri pensanti, beninteso).
E mentre batto sui tasti, rimugino e rimugino e una luce si accende, benevolmente disposta. Ma non è che basterebbe uscirsene un po', andare a sedersi in un bar con quattro amici/he e scambiare, non opinioni, no, solo pettegolezzi, quisquilie, titillanti nuove su questo o quello (tanto, per tutti "pari sono")? In fondo è la stessa cosa, non cambierebbe granché: passerei dalla sconfinata (sembra, ma è poi vero?) città virtuale, alla mia conosciuta, bien- aimée- detestée, realissima città.

sabato 20 settembre 2014

Déjà vu

La storia personale di ognuno di noi riflette spesso la storia dell'umanità nel suo complesso, si ripete. Ciclicamente si compiono gesti analoghi a quelli di un anno o più anni fa; si pronunciano frasi già dette e ascoltate; si ricade negli identici errori, che ci eravamo ripromessi, inutilmente, di non commettere mai più; ci si avvoltola sempre nell'uguale groviglio di vecchi dubbi e di vecchie bugie, ai quali si aggiungono nuovi dubbi e nuove bugie. Tutto scorre in un continuo déjà vu che non cessa di stupire.

Déjà vu

Le stesse parole rimosse
dagli occhi con frullo d’ ali.
Il gesto perenne di tedio
affannato sulla bocca tagliata
dalla lama di altre bugie
sculture di graffi irrisolti.

I fiori non reco, solo il vino
 trabocca dal mio calice e dal tuo
nella stanza di risate ardente.
Di lei e di me con il dubbio nell’ombra
della mente greve d’ amore amaro.
Di silenzio ammantato resiste ancora.

Il ciclo di immemori lune è passato
sulla casa ospitale e nulla è mutato.
Non tu dagli incerti sonni erranti
e dalle veglie sfinite come il tuo corpo.
Non io dalle dita spoglie, aghi d’acciaio
 ti indicano penombre tessute dal ragno.
Non lei, crudele e ignara dea
che tende e spezza il filo annodato

 Un anno  è passato e non ha tempo
di lacerata pietà, di furente pianto.
Il sangue del vino si accende 
nelle nostre vene pulsanti.
Nella stanza calda saetta il lampo
del mio ultimo film e resto cieca.


Foto di Henri Cartier Bresson





martedì 16 settembre 2014

Nell'alba.

Ci sono giorni particolari, si sa. Giorni nei quali ci si sveglia all'alba, senza un motivo,  e si corre fuori verso l'aria fredda che sferza e dirada le nebbie notturne. C'è sempre quella luce fuori, quel rosa livido sospeso sugli alberi e sulle case e si rimane a osservarlo, con gli occhi rivolti all'est, fino a quando trascolora e si muta in rosso. Il sole sale veloce e accende tutto, l'opacità notturna sbiadisce al suo irrompere, quasi violento. E si rientra nella penombra ancora scura e odorosa di buio. E si vorrebbe restare così, nella sommessa quiete delle stanze. Senza affacciarsi al mondo, senza accendere la radio e il televisore, senza collegarsi a Internet. Senza squilli di telefoni, solo il silenzio nella mente. E invece bussano da tutte le parti, chiamano, strepitano. La città si sveglia e spezza la quiete. Il mondo si affaccia e non ci si può nascondere, ti cerca e ti vede. Questo mondo infetto e pazzo, con le sue eterne guerre e i suoi massacri che non ti lasciano scampo. Se hai una coscienza; se hai orecchie per sentire le urla di dolore; se hai occhi per vedere l'orrore che si compie.
Ci sono giorni nei quali si vorrebbe parlare, gridare anche, ma sai che è inutile. Nessuno starà ad ascoltarti, neanche chi ti è accanto. Anche lui sperduto nell'alba di un nuovo giorno, anche lui afferrato dalle tue stesse paure.
Io li chiamo "i giorni spezzati" perché, fragili come cristalli, vanno in mille pezzi.
Allora provo a raccattarli, questi pezzi, faccio che combacino e provo ad attaccarli con la colla della paziente attesa. E della speranza.

venerdì 12 settembre 2014

L'eco del tempo.

Il tempo si ferma. Gli orologi smettono di scandire i minuti. Anche il corpo rallenta i suoi processi, tace. Solo la mente continua, incessante, a correre. E non va avanti, volta le spalle all'oggi e non si cura del poi. Configge i suoi occhi chiari in un recente passato, ricco di silenzi e di assenze. Attesa, era la parola  sussurrata dal tempo,  e l'eco lenta si frangeva nelle stanze.


Ottobre 2012


Comincio a sentire il freddo inverno,
anima mia girovaga tra remote stelle
e fumanti prati intrisi d'acqua verde.

Scorre sui vetri nella veranda esposta
la pioggia attesa, vacilla il cuore di legno
al gocciolio continuo sul tetto in rame.

La luce s'abbassa sul viola del cielo
e un aereo scintilla tondo e rosso
come una luna piena nel nostro agosto.

Ti aspetto al buio seduta, scomoda
e paziente trattengo il libro inglese
che mi hai donato, anima grande.


Man Ray - Hand on the lips  1929




domenica 7 settembre 2014

Bugie, che passione!

Torno spesso sul tema della menzogna, lo so. Rischio di essere monotematica, ma che vi posso dire a mia parziale discolpa, se non che è un argomento che mi affascina? In verità, è meglio togliersi il sassolino subito, siamo tutti bugiardi. Un pochino, tutti. C'è chi lo fa per mestiere (gli attori e i politici); chi per guadagno (imprenditori, banchieri, le prostitute); chi per infingardaggine (sempre i politici e quelli che non vogliono rotte le scatole); chi, in ultimo, per propensione naturale (quelli che non sanno fare altro e vi possono rientrare tutti gli appartenenti alle altre categorie succitate). Qualche volta mentono gli scrittori e i giornalisti, ma è un vezzo, una sbandata dell'ego distratto, un momentaneo riflesso condizionato dagli eventi, dai ricordi, dalle esperienze. Di solito sono i signori uomini - e non me ne vogliano - a mentire di più: noi donne siamo storicamente, culturalmente avvezze a prendere la realtà così come ci si palesa davanti agli occhi, un figlio è un figlio, bello o brutto che sia, buono o cattivo che sia; e anche nel mondo del lavoro è la stessa cosa. Dall'origine del mondo abituate a sfangare l'esistenza nel far quadrare il girone infernale di moglie-amante-madre-massaia-lavoratrice, non abbiamo bisogno di sdrucciolare sulla effettiva consistenza di questi ruoli. C'è chi lo fa, d'accordo, ma si tratta di una specie in via di evoluzione. In senso maschile.  Ma più che altro la menzogna nella donna assume le caratteristiche di un ornamento, di un arricchimento della realtà quotidiana, noi donne abbiamo il potere di rendere suggestivo un luogo che non lo è; di creare un'atmosfera vivacemente gioiosa o terribilmente tragica, anche se non vi sono i presupposti, nella realtà, per essere  felici oppure per precipitare nello sconforto. Possiamo definirci propense all'esagerazione dei sentimenti, a un'espansione dilatata delle nostre e altrui percezioni ed è una delle tante maniere di essere bugiardi. Quelli che però mi seducono con virulenta passione sono i mentitori cronici. Cioè quelli che non sanno di mentire o se lo sanno non vi fanno più caso, e saltellano, piroettano da una bugia all'altra con incredibile agilità. Difficile scorgere sui loro volti lo stigma della menzogna ( c'è tutta una letteratura sulla gestualità dei bugiardi), riescono a non battere ciglio; non arrossiscono, non si tormentano le mani e non si grattano il naso o non si titillano l'orecchio. Sgranano occhioni innocenti e rifilano menzogne. Contraddicendosi, colti da provvide e improvvise amnesie, marciano impavidi e a testa alta nella strada che hanno scelto. E se qualcuno fa notare loro una buca, un intralcio sulla loro strada, se qualcuno osa replicare "ma ti stai contraddicendo, alcuni giorni fa mi hai dato una versione diversa", non vi stupite se vi risponderanno "ah sì? non me n'ero accorto!" Con gli occhi innocenti ben piantati dentro ai vostri.


Amedeo Modigliani    -  Fotografia e ritratto di Celso Lagar  1915

martedì 2 settembre 2014

Sull'Ippogrifo.

In questo scorcio d'estate tentennante tra accenni di grigio nel celeste smorto, con lo scirocco che incendia le colline, si affollano pensieri e ricordi. Un'estate che si chiude e un'altra che si apre, come scatole cinesi vuote eppure misteriose. Se torno a quelle degli ultimi anni, mi appaiono informi, senza qualità, tutte egualmente piatte nella pigrizia assolata dei mesi caldi. Tranne una, recente, che svetta appuntita con le sue forbici capaci di recidere tutto, il passato dal presente e questo dal futuro.
Succede che ogni cosa proceda come dovrebbe; succede che tutto appaia confinato nella quotidiana, sudata monotonia. Senza scosse, senza attese: soltanto la certezza di un distacco, quasi accettato.
 Sono i fatti della vita, toccano un po' tutti: le vacanze e il mare e il solleone e la cucina estiva e le chiacchiere indolori e una serata con vecchi amici e poi, poi basta. Poi una partenza, un aereo che si porta via un pezzo di te. E l'autunno fa il resto e ti chiude nella sua dolcezza.E si pensa che sarà così ogni estate a venire. E invece no, quella che se ne è andata, avrà il potere di farti chiudere i conti con te stesso. Quei conti in sospeso di cui eri all'oscuro. Sarà perché ci si è distratti (il corpo si apre al sole e la mente si richiude); sarà perché si cacciano via quasi fossero zanzare e tafani, le ansie moleste; sarà perché le notti sono brevi e sguazzano nella birra ghiacciata; sarà perché la luna è così grande nel buio e crediamo di poterla raggiungere con un salto. Sarà per tutto questo e per molto altro ancora che dimentichiamo chi siamo e, spesso, chi sono i nostri compagni di viaggio. Poi arriva settembre e la prima pioggia, la notte si fa più lunga e la birra non ha più lo stesso sapore; la luna non è poi così lucente e così grande, ma soprattutto è talmente lontana che dovremmo cavalcare l'Ippogrifo per recuperare il nostro senno perduto. Ma non ve ne sarà bisogno, la vita si ripresenta, scomoda, pressante, vivace, rumorosa, e ci presenta il conto da pagare. Assieme al senno smarrito sulla tonda luna estiva.

Marc Chagall - Sposi sul cavallo alato.








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