giovedì 29 marzo 2018

C'è una scala.

Il dolore che ci portiamo dentro, quello chiuso, quello che può esplodere d'un tratto ed è follia, è annientamento di sé e degli altri. Il dolore che si mostra, sfacciato come il bambino che sempre chiede, il dolore che viene urlato senza pudore e che imbarazza perché l'ostentazione non è mai elegante. Si dice. Ma non può esserci eleganza nel dolore, il dolore è una cosa sporca, il dolore è cattivo e toglie bellezza e grazia a ogni cosa. C'è della retorica quando ci si azzarda  a rintracciare la bellezza del dolore o nel dolore. Il dolore è solo devastazione. Ma il mio è un giudizio da laica,  non accolgo la grazia del martirio, dello strazio.
Che invero ci sia una scala di dolori, sì, come c'è per i minerali, di questo sono convinta. Le assenze che non si faranno mai più presenze, quelle mancanze che diventano ombre nella mente, rappresentano il dolore assoluto e c'è la spinta impellente di afferrarle quelle ombre, di riconsegnarle alla vita e a noi.
Ma c'è il dolore quieto e silenzioso, forse sarebbe meglio chiamarlo sofferenza, patimento, che è quello che ci balla dentro, ci fa sussultare e tremare, delle assenze che tornano e poi svaniscono, dei volti amati che ci sono fisicamente lontani. L'accettazione non lenisce la ferita, questa continua ad allargarsi, non si stabilizza. Ma si continua a vivere con essa, ce ne prendiamo cura, la mitighiamo quando l'assenza si fa presenza; la accarezziamo con le passate memorie quando tutto finisce e resta il vuoto, resta il posto a tavola vacante e il letto sfatto.
Però ci sono le tracce, gli umori residui su un cuscino, una ciocca impigliata nel pettine, il calzino dimenticato. E sono doni e sono linimenti, cicatrizzano un poco. Riprendiamo a vivere le nostre giornate, ci frastorniamo d'altro, ci invischiamo in altre cose, corriamo e ci fermiamo ad ascoltare il nostro cuore che è lontano, almeno una parte. Impariamo col tempo, abbiamo bisogno di tempo, a vivere senza. E ci aiuta il pensiero di saperla felice, lontana da noi, la nostra magnifica assenza.
Allora, conoscendo il dolore di altri, il dolore in alto sulla scala, sappiamo che il nostro è poca cosa. E quasi ne proviamo vergogna.


Rodney Smith  "A.J. Looking Over Ivy Covered Wall"

venerdì 23 marzo 2018

Non come Picasso.

Ogni tanto, ogni tre o quattro mesi, vivo il mio periodo del Dubbio. Come Picasso ebbe e coltivò in maniera eccelsa il suo Periodo Blu e poi Rosa, io coltivo miseramente il mio periodo dubbioso, amletico, tragicomicamente dedita al dilemma, mi dibatto in me stessa.
Cado nelle spire di una crisi profonda che mette in discussione tutto o quasi e quel quasi mi salva, perché vi sono i rapporti intangibili, sacri e non sacrificabili.
Il dubbio che tutto intorno a me, a noi, non sia altro che una scacchiera davanti alla quale siede un unico giocatore, divertito, cinico e scorretto. Il dubbio che, qualunque nostra azione, qualunque nostra mossa, venga spostata, accantonata in un angolo perché ininfluente, senza importanza, senza diritto a partecipare al gioco della vita.
E ci sono fatti che confermano, illuminando di una luce sinistramente fioca, questi dubbi. L'alternarsi sgradevole delle coincidenze negative, l'allontanarsi dall'acquisita e mai sconfessata fiducia nella equità del giudizio; lo spaesamento dell'agnosticismo, perché l'Etica appare un puntino informe e in dissolvenza.  E anche i rapporti umani ne subiscono una corruzione lenta e inesorabile, ci perdiamo tutti in questo cupio dissolvi delle coscienze come delle nostre più intime conoscenze.
Si parla tanto di depressione, ce n'è tanta in giro. Ma io non sono depressa, sono incerta. Degli altri e di me stessa,  si è stravolta radicalmente la concezione che finora ho avuto del mondo e della vita. Non erano illusioni che deludono , erano fermezza, erano centro attorno al quale girare.
Poi però ci sono loro, Torno sempre a loro, ai più giovani di me, a quegli amori assoluti e stringenti, che non lasciano spazio né tempo. E credo che sia la via di fuga che ci resta, unica. Il futuro, fissato negli occhi dei ragazzi, il loro futuro che si deva custodire e curare, con molto amore. Non ci resta granché d'altro, a noi che abbiamo sprecato il nostro periodo blu o rosa, non siamo stati bravi come Picasso. 




Pablo Picasso "Ritratto di Jaime Sabartés"  1901

lunedì 19 marzo 2018

Figli padri.

Partendo dalla festa di oggi e tornando alle origini. Alle mie origini che non penso siano così differenti da quelle di molti figli e figlie.
La retorica è il vulnus inferto, anche senza volontà di crimine, a tutti i festeggiamenti e a tutte le celebrazioni. A questa odierna nuoce particolarmente è pure ovvio. Ci stanno i sentimenti di mezzo, ci sta il cuore, ci stanno i nostri ricordi d'infanzia a fare da scudo alla festa. Un obbligo recepito come tale quindi, l'apologia della figura paterna. C'entra un po' di tutto nel crogiolo, il mito dell'Eroe greco, semidio e deus ex machina delle nostre prime apparizioni sulla scena del mondo; il Maestro messianico che ci proietta a una catarsi escatologica (tanto consolatoria e avulsa dalle responsabilità della Ragione); infine l'Educatore, quello che una volta era il ruolo tenuto dal precettore o, nei casi più socialmente fortunati, del Maestro di Corte. Il Padre dunque che ci rappresenta, rappresentando per noi ogni aspetto del vivere. E per molti è così e ne sono fervidamente convinti, felici loro. Acriticamente, senza giudicare, riconoscenti per sempre di essere quello che sono al padre.
La penso in maniera diversa, io.
C'è un'età per ogni scoperta, per ogni passaggio. E la mano nella mano del padre è quella del bambino che è incerto nei passi e ha bisogno del sostegno; poi la mano si stacca perché i passi si fanno più sicuri e perché ci sono luoghi tutti da scoprire e sono misteriosamente attraenti, meravigliosamente attraenti ed esigono la solitudine e un nuovo impegno. Altre cure attendono quel bambino e già non lo è più.
Le mani si ritraggono e i pensieri e le idee volano da un'altra parte, e crescono, si rinnovano di nuova vita e linfa e bellezza. E allora si guarda indietro a quella mano paterna, si guarda con amorevole distacco e si cammina ancora avanti.

Questo è, a mio avviso, l'amore che si può dare al padre, quando ci si è fatti uomini e donne, quando ci si appresta a diventare noi, padri e madri. L'amore critico, l'amore che raccoglie dubbi e incertezze e fragilità e li mette sull'ipotetica bilancia della nostra coscienza razionale e osserva, spesso, che i piatti non sono in equilibrio, si accorge con dolente e fredda lucidità che ci sono stati abissi di sconfortante incomprensione e cadute rovinose dal piedistallo e l'eroe, il maestro, il precettore non c'erano, erano un miraggio dei nostri occhi di bambini abbagliati dall'amore e dalla necessità. Al loro posto però c'è un uomo, un uomo che ha le nostre stesse qualità, le nostre stesse peculiarità, nei vizi come nelle virtù. E, a volte, pur non ammettendolo perché è una pena antica e pesante, troppo pesante (ed è una colpa nei nostri confronti, non ammetterlo!) scorgiamo un uomo peggiore di noi. A questo punto ecco, accade il miracolo, la bellezza di essere figli: quell'uomo, lo si accoglie con tenerezza E spesso lo si ama e molto. Nonostante non sia il padre che avremmo voluto per noi, nonostante la consapevolezza di essere noi migliori, lo amiamo. Diventiamo, in qualche arcana, indecifrabile maniera, noi i padri.

Guido Reni  "Giuseppe con Gesù"  1635

lunedì 12 marzo 2018

Le Idi di marzo. Oggi.

Certo, sarebbe meglio aggirarsi dalle parti della politica, sarebbe più rilassante. Sì, rilassante. Perché è lo sport più praticato ormai: tutti ci occupiamo di politica, tutti ne sappiamo qualcosa, ingozzati come Hansel e Gretel dall'informazione che, come la laida vecchia della favola dei Grimm, ci ha stregati e ogni tanto anche fregati. Potrei discettare insensatamente. Sproloquiare ai quattro venti.  E sempre e solo sul problema che ci affligge, sul nodo che ci strangola: ma chi farà il governo? A chi affiderà l'oneroso onore il Presidente della Repubblica? Chi sarà il beneamato Premier? E, domanda irrinunciabile, irriducibile, pleonastica eppure necessaria (secondo molti): ma il PD che farò? Accetterà il dialogo per il bene della Patria? Oppure sederà, fieramente assiso, sui banchi dell'opposizione?
Sono questi i dibattimenti in cui ci si dibatte, in questi giorni, in queste quasi Idi di Marzo che ci riportano alla memoria due delitti, la brutale uccisione di Cesare e, duemila anni dopo circa,  la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro, in seguito ucciso. Ben altre idi quelle, altre storie, altra Storia. Quella che resta a insegnarci il bene e il male, quella che ci fa spalancare occhi e menti e cuori. O dovrebbe.
E di queste Idi cosa ricorderanno i nostri figli, cosa ricorderà la futura gente?
Confusione, voci, volti ansiosi, strepiti, trombette dei vincitori, canti funebri degli sconfitti, tutti insieme appassionatamente. Tutti a sostenersi, in fin dei conti, per non cadere nel baratro dell'assenza. Saranno le nostre nuove idi di marzo, senza spargimenti di sangue per fortuna. E senza una grande storia ed + forse meglio così. La Storia delle chiacchiere e dei caminetti e dei sorrisi in attesa e dei musi lunghi in offesa.
Ah! Scusate, avevo posto una premessa, avevo detto che sarebbe stato facile parlare di politica e ci sono cascata. Pardon, tolgo il disturbo a voi e a me. E torno a occuparmi dei ricordi di alcuni bambini di molti, molti anni fa.



Leon Wyczółkowskii_Primavera a Gościeradz _1933

martedì 6 marzo 2018

Poi una stella

Succedono le cose, si susseguono e si inseguono ed è difficile afferrarle, è difficile comprenderle. Accadono senza un motivo e al contrario nascono perché il motivo c'è, accucciato da qualche parte se ne stava immobile e silenzioso. Eppure dovremmo intuire, dovremmo decodificare i segnali che, giorno per giorno, si manifestano leggeri come farfalle, evanescenti come spettri della mente. Li scacciamo via, sono molestie che non vogliamo nelle plaghe desolatamente note delle nostre esistenze. Dove tutto deve essere quiete, ordine, abitudine.



Poi una stella

Non ti parlo delle cose
che si muovono dentro di me
Non ti afferro e non  strattono
il magione blu che ti sta stretto
Ti osservo e mi sento una ladra
una gatta o una faina
accanto all’albero che nasconde
la preda sicura nel nido di sterpi
Ti guardo e sono sorridente
con un pugno di sale in bocca
vorrei fumare una sigaretta
ma non posso dare il cattivo esempio
La tua pelle è pallida oggi sotto
la luce smorta della stanza lontana
Vorrei accarezzare quest’ombra scura
che ti si è disegnata qui sulle guance
vorrei sfiorare il tuo ridere imbarazzato.
Ti volto le spalle e la porta si chiude
e non siamo soli io e te
lo sai questo, tu lo sai.
Fuori c’è il freddo della notte di marzo
sale dalla terra smossa
a toccarmi la nuca
La gatta non dorme respira qualcosa
un frusciare di piccole zampe
oppure è la rosa che s’allunga
ingannando il silenzio e noi due
Il cielo è una certezza di blu
di nero di fondo di vuoto
mi perdo ubriaca nel pensiero di te
Poi una stella mi s’impiglia negli occhi
E li chiudo e la conservo per te.


Marc Chagall  "Le cinque candele (particolare)"  1953-1956




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