venerdì 12 aprile 2019

Tante terre.

Scrivere di me e di altro non mi appassiona, sempre meno avverto l'impulso, un tempo irrefrenabile, alla comunicazione, al coinvolgimento  delle mie più intime sensazioni. Troppo schiva sono divenuta? No, no. Sono stanca, a un certo punto della vita c'è bisogno di placarsi, di smettere di cercare, bisogna riposare. Perché si è spossati dal lungo cammino e anche dagli incontri: è il preludio del silenzio? Della quiete finale? Potrebbe anche essere così.
Sempre più di frequente mi astengo, annoiata, stremata, fiaccata nello spirito e nella residua intelligenza (se mai ce ne sia stata una, mi consola pensarla come un'intelligenza del cuore, ché troppi si esprimono da intelligenti del cervello), mi astengo, dicevo, dal commentare e dal partecipare a interminabili questioni, su tutto e sul nulla. Comincio a intravedere la vacuità di questi luoghi, ne scorgo l'opacità e l'ipocrisia, il conformismo che s'accinge a diventare strutturale all'esposizione sulle piattaforme virtuali. Nulla più mi sorprende, nulla più mi stupisce, in prima battuta sono le mie parole e le mie riflessioni a essermi venute in uggia. Sono esausta.  Eppure in me ci sono voci che si rincorrono, echi smarriti, curiosità irrisolte.  Canti e musiche che mi seducono; strida di aquile zoppe e gracchiare di cornacchie che mi offendono.

Mi viene in mente il bel rapace, signore incontrastato delle vette, che però si è automutilato, infliggendosi la perdita di una zampa, di modo che nel suo volo immaginario di estrema, splendida libertà, viene mortificato dall' handicap.  E certi uomini mi ricordano questi nobilissimi uccelli. Di solito sono   molto eruditi, talmente eruditi da non lesinare la propria ingente scorta di letture in note e chiose e infernali critiche a molti aspetti della vita e della società. Questi uomini-aquile zoppe suscitano in me un miscuglio informe - non riesco a capire dove finisca l'ammirazione e inizi il biasimo.
Si fanno vanto, per esempio,  di essere nati dalla "plebe urbana del sud" che tanto, però, disprezzano (la plebe urbana e il sud); si gloriano di appartenere alla piccola-media  borghesia, quella  che è riuscita a venire fuori dall''esiziale destino che, come  Caronte, attende di traghettare verso dannati inferi, i disgraziatissimi abitanti delle latitudini da Roma (compresa) in giù. Si compiacciono di appartenere, con solerte gratitudine,   a quel nord attivo e vitale e laborioso che nessuno può negare. Si divertono molto a dare patenti di inutilità, di insulsaggine a questo e a quello, del mondo del giornalismo, dello spettacolo, della politica. Triturando in un favoloso tritacarne ogni aspetto del vivere. O quasi, si salvano solo alcuni fortunatissimi.   Allora leggo e mi dico, da convinta democratica, libertaria: tutto lecito, ognuno ha il diritto di esprimersi come crede.
E no, non è vero. C'è un conflitto in corso, un anarchismo evidente. In quei rinnegati e negatori delle origini e anche in me. Mi ribello all'equazione "sud=brutti sporchi e cattivi". Così come questi eccellenti rifugiati economici si ribellano alle loro" miserabili" origini.
Però, però. Il costume indossato da questi cultori di tanto  illustre saper di lettere e storia e filosofia e, via, anche una scappatella dalle parti della sociologia, non mi è nuovo. Ha una foggia conosciuta: è l'abito indossato da chi ritenendosi più forte - anche per lo scampato pericolo - giudica gli altri, meno sorteggiati dalle buone fate, con distaccato occhio.  Che vorrebbe essere asciutto e limpidamente asettico, sterilizzato da qualsivoglia moto dell'animo e invece, scintilla di un'antica, convulsa rabbia. Di un cinismo istrionesco, da palcoscenico o da pellicola. Insomma, il vecchissimo gioco cui partecipò il nostro Sordi in un famoso film "Io so' io e voi non siete un cazzo"
Che  è una costante di molti che si sono "fatti da soli": una specie di estrema rivalsa - che si traduce in una ripulsa -  nei confronti del destino e della terra che li ha visti nascere per poi scaraventarli in giro per il mondo,  un astio per la città arcigna e matrigna che li ha mandati in adozione. Sarà pure un modo di soffrire l'esilio e il distacco.  Non mi azzardo a definirlo "razzismo"ma gli somiglia.

E ripenso a una mia non poesia, parole di tanti, tantissimi anni addietro, nelle quali prorompevo in un inno, un empito affannato di visioni e di amorosi sensi verso le mie Terre che erano tante, dal mio sud "nero lutto greco antico" alle dolci colline e alle pianure torrentizie; dai campanili gotici alle fattorie col tetto di paglia nelle estreme brughiere, tanto amate. Ero europea molto prima che venisse la moneta e la ineludibile delusione della moneta. Oggi? Qualcuno di recente mi ha detto, sorridendomi con affetto: "Sei come l'ultimo dei Mohicani, sei l'ultima idealista" Non lo so, non so se sono l'ultima, non credo.  E sono stanca, provata, scossa. Ma ci proverò.  Proverò ancora, a dispetto dei tanti, a essere innamorata delle mie tante terre.

Anton Mauve "Spigolatori nella brughiera" 1882-88

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