giovedì 30 maggio 2013
Faccio la minorenne, per una domenica.
Mattarellum o porcellum? Il governo durerà o precipiterà? Il M5S è in caduta libera o gli spunteranno un paio di ali di riserva? E, soprattutto, chi sono i 101 che hanno tradito il PD? Ecco i grandi interrogativi della storia, quella nostrana s'intende, quella della nostra Italia, importante quanto poteva esserlo una provincia romana al tempo di Adriano e la citazione è puramente letteraria. Così i giornalisti si accapigliano, si scontrano nei talk show politici e i politici, a loro volta, mostrano facce pensierose o indignate, il pubblico applaude o ulula a seconda del gradimento, e a casa io mi taglio le vene e cambio canale. Oppure vado a riprendere il libro, mio eterno alleato contro la bestialità dell'esistenza. E mi sento ogni giorno che passa, sempre più lontana dalla politica, che pure ho amato molto, mi scopro uno spirito anarchico, insofferente ai gesti e alle parole pedissequamente uguali, mai un volo verso l'alto, mai il coraggio della verità, tutt'al più un salto, che dico volo, un piccolo salto nel pantano, tale però da schizzare fango e balle su tutti. Se poi, per caso, c'è chi si arrischia a venire fuori dalla muta, fa la fine della lepre, se non è lesto a svicolare. Non ne posso più, basta. Abbandono la mischia, lascio lo spettacolo ad altri spettatori (spero di farcela, spero di resistere alla vecchia passione), decido di non votare alle imminenti elezioni nella mia città, mi astengo. Non l'avrei mai fatto, in passato sono stata molto critica sull'astensione, ma ora capisco e abbraccio la scelta. Come si abbraccia un parente che non ti ispira affetto, ma che è l'ultimo baluardo della tua famiglia d'origine. La domenica in cui i miei concittadini si recheranno alle urne, fingerò di essere minorenne o forse, minorata.
domenica 26 maggio 2013
Pomeriggio in compagnia di un libro e del mal di schiena.
Me ne sto seduta, non comodamente per via del mio fondoschiena dolorante, le mie inseparabili ernie si risvegliano ai primi tepori come fossero boccioli di rose, e aspetto. Al mio fianco un accompagnatore paziente e compagno da sempre e mi sento ben disposta, la libreria è discretamente affollata, senza calca, una cosa civile e tranquilla insomma. Poi si inizia, la relatrice fa la doverosa introduzione e il giovane scrittore prende subito dopo la parola, lievemente impacciato, ma mi è simpatico, tengo il libro appena acquistato tra le mani e lo sento vivo attraverso le parole dell'autore. Non tutto quello che dice mi piace, non del libro, ma della sua visione della realtà, mi sembrano frasi più a effetto che ragionate, quasi da gossip per intenderci. Una visione fugace della letteratura isolana, un colpetto all'antimafia -Sciascia semper docet - la condanna ovvia dell'immagine stereotipata che si ha (ancora?) della Sicilia. Mi alzo, un po' irrequieta, ascolto la domanda di una signora del pubblico, "è il profumo a farti capire che sei in Sicilia!" asserisce la signora, e io comincio a smaniare. Mentre la sala si svuota, le defezioni avvengono in silenzio, solo il grattare delle sedie e lo sventolare lesto di abiti che si allontanano, arriva lui. Il relatore vero, colui che avrebbe dovuto spiegare a noi ignare menti l'argomento, arriva trafelato, boccheggiante, in ritardo e prende la parola. Pochi minuti, una manciata di arroganti banalità, di fendenti dati alla cieca, a chi tocca tocca, conferma soltanto la grandezza di Philip Roth e vorrei vedere, gli faccio cenno con la testa sempre più indispettita e stanca. Finalmente tace e non ha detto niente del libro, ho il dubbio che l'abbia letto. La sala è ormai vuota, sono fiera di me che ho resistito, mi avvicino al giovane scrittore, vorrei abbracciarlo in un empito di materna tenerezza, ma gli porgo il libro per l'autografo e gli sussurro sottovoce, dai, che Pirandello è un grande.
giovedì 23 maggio 2013
Poi ci fu l'interruzione.
Ero in macchina insieme ad alcuni amici, in un pomeriggio già estivo di maggio ed eravamo in fila per recarci alla piscina comunale dove si sarebbe svolta una partita di pallanuoto, non è che ci tenessi particolarmente, ma era l'occasione per stare insieme a un vecchio amico sceso da Roma e anche lui come mio marito ex pallanuotista. Chiacchieravamo noi donne, ridendo di ogni sciocchezza, non ricordo, forse ridevamo dei corpi non più così sportivi dei nostri uomini e intanto la radio mandava le sue canzoni. Poi ci fu l'interruzione. Calò come una nube oscura dal cielo il silenzio, accostammo la macchina, non sentivamo più niente, né i clacson, né i rumori della città, solo quella voce che diceva l'indicibile. Pensai, nella mia Sicilia, nella sua Sicilia lo hanno ammazzato, nella sua casa, tra la sua gente, ancora altri morti pensai, ancora altri eroi da piangere vuole questa mia terra maledetta. Non ci guardammo neppure, non dicemmo quasi niente, per la vergogna e la rabbia credo. Solo dopo, quando le notizie diventavano via via più dettagliate, il dolore si tramutò in lacrime.
martedì 21 maggio 2013
Grazie ai giovani, lunedì di speranza.
venerdì 17 maggio 2013
Io, al contrario.
Rifletto sulla mia città, sulle prossime elezioni del Sindaco e annessi e connessi, e mi confermo sempre più che non mi interessa, non farò la mia parte. No, non andrò a votare e lo asserisco con decisa testardaggine, una convinzione da cui non mi schiodo come un mulo strattonato e bastonato, ma che resta fisso sugli zoccoli.
Un'amica per telefono sostiene che non si ottiene niente così, che dovrei impegnarmi, lei che è molto impegnata nel gossip cittadino e tutto quello che fa di rivoluzionario è dare fiato alle parole riferite da altri, senza mai muovere un dito. Ma è così che funziona, è questo il saper muoversi nella società di provincia. Oggi, l'ossequio al potente e la speranza che da esso ne derivi un beveficio; domani lo strepito e l'ignominia, se non hai ottenuto soddisfazione. Senza accorgerti che loro, quelli che la città ce l'hanno da sempre nelle mani, continuano nei loro più o meno leciti traffici, nelle loro spartizioni e non ti vedono neanche, stringono la tua mano molle con altrettanta mollezza, accolgono il tuo sorriso carico di attese con denti di lupo. E il ciclo si ripete, diventa mito, diventa una saga senza eroi. Poi, ti risvegli, o lo vuoi far credere a te e agli altri, e ti scagli nella disamina impietosa dei delitti di quelli e ti senti migliore, "prendo le distanze" dici, e intanto ne cerchi ancora la contiguità, un invito, una frequentazione approssimativa, anche soltanto esserci nei luoghi dove vanno: l'esserci, essere presente, non importa se si tratta della prima di un film o dell'inaugurazione di un locale. Potrai dire, sì io c'ero. Io, al contrario, non ci sono mai, fuggo. Mi chiudo nella realtà che vivo, coltivo fiori e leggo, scrivo e parlo con poche persone, amo molto e amo anche questa mia città, fottuta e ferita. Ma non partecipo al suo saccheggio, né con le mani, né con le parole.
Un'amica per telefono sostiene che non si ottiene niente così, che dovrei impegnarmi, lei che è molto impegnata nel gossip cittadino e tutto quello che fa di rivoluzionario è dare fiato alle parole riferite da altri, senza mai muovere un dito. Ma è così che funziona, è questo il saper muoversi nella società di provincia. Oggi, l'ossequio al potente e la speranza che da esso ne derivi un beveficio; domani lo strepito e l'ignominia, se non hai ottenuto soddisfazione. Senza accorgerti che loro, quelli che la città ce l'hanno da sempre nelle mani, continuano nei loro più o meno leciti traffici, nelle loro spartizioni e non ti vedono neanche, stringono la tua mano molle con altrettanta mollezza, accolgono il tuo sorriso carico di attese con denti di lupo. E il ciclo si ripete, diventa mito, diventa una saga senza eroi. Poi, ti risvegli, o lo vuoi far credere a te e agli altri, e ti scagli nella disamina impietosa dei delitti di quelli e ti senti migliore, "prendo le distanze" dici, e intanto ne cerchi ancora la contiguità, un invito, una frequentazione approssimativa, anche soltanto esserci nei luoghi dove vanno: l'esserci, essere presente, non importa se si tratta della prima di un film o dell'inaugurazione di un locale. Potrai dire, sì io c'ero. Io, al contrario, non ci sono mai, fuggo. Mi chiudo nella realtà che vivo, coltivo fiori e leggo, scrivo e parlo con poche persone, amo molto e amo anche questa mia città, fottuta e ferita. Ma non partecipo al suo saccheggio, né con le mani, né con le parole.
lunedì 13 maggio 2013
Il bambino Bill.
La riflessione che mi piace fare
oggi riguarda i bambini e il loro mondo e nasce da un post condiviso sulla mia
bacheca in cui veniva citato un pensiero di Bill Hicks, il comico statunitense
morto prematuramente nel 1994. In breve, Hicks contestava, in maniera brutale
anche se non priva di umorismo, l’amore e il rispetto che, solitamente, si ha
nei confronti del mondo dell’infanzia. E in effetti, l’interrogativo che pone,
cioè se questi sentimenti di amore e di rispetto perdureranno anche dopo, nella
fase di crescita del bambino che diventa ragazzo e poi uomo, non è per niente
privo di fondamento. Quello che Hicks non fa e che gli nega il plauso, almeno
quello mio, è un’oggettiva analisi del perché si sviluppino questi sentimenti
di amore e di rispetto. Abbiamo avuto tutti la nostra infanzia, più o meno
felice, e ciascuno di noi ne conserva il ricordo che crede più vicino alla
realtà del proprio vissuto; ma forse quello che ci è sfuggito e che, certamente
sfugge a Hicks, è la totale libertà di quel periodo. Durante i miei studi forse
sarò rimasta affascinata dagli scritti e dalle teorie di J.J. Rousseau e di
altri, ma è soprattutto l’esperienza personale che mi ha portata alla
convinzione che il bambino è l’individuo
più libero che ci sia sulla terra, in quanto non ha costruito niente di cui
essere responsabile; non ha comportamenti indotti da norme e regole
precostituite; non ha vincoli affettivi, se non quelli legati alla propria
sopravvivenza e al proprio benessere; non è condizionato dai media e dalla cultura,
almeno fino all’età scolare, fatta eccezione per le immagini colorate di giochi
e libri e cartoni atti a stimolarne la curiosità fisica e intellettiva. Il
bambino è, più correttamente, potenzialmente libero, di una libertà innocente,
secondo il significato letterale “che non nuoce”, se non a se stesso. Da questa
paura, dal timore che egli possa nuocere a se stesso, perché tabula rasa di
tutto quindi anche del pericolo, da ciò deriva l’educazione, che altro non è se
non la perdita dell’innocenza e della libertà. Io amo i bambini assolutamente e
totalmente, soprattutto in età pre-scolare, quando sanno ancora essere buoni e
cattivi perché l’istinto li spinge in tal senso, sempre che gli aggettivi buono
e cattivo siano validi per un bambino. Vi è mai capitato di osservare un
bambino mentre vi afferra una ciocca di capelli, parlo di un poco più che
lattante, diciamo sette otto mesi, e voi gridate per il dolore e ridete per il
divertimento e lui, vi fissa imperturbabile e continua a tirare finché non
siete costretti a staccargli voi la mano? E lo stesso, mi è più volte capitato
con gli orecchini, tira e tira fino a che il lobo non comincia a graffiarsi e
io rido con le lacrime agli occhi per il bruciore e per l’ostinazione e la
innocente crudeltà che rivelano quegli
altri occhi fermi su di me. E al contrario, il volo nelle braccia che tendo
verso di lui o lei, e magari stringo tra le mani un nastro colorato o un
sonaglio trillante ed è un attimo di bocca ridente e versi amorosi. E poi, più
in là, le prime domande a cui rispondo come posso e come so e le favole
raccontate e i libri guardati insieme e già gli occhi assumono un’espressione
più attenta, sono vigili, capisco che partecipano e che stanno entrando, con
cauto entusiasmo, nella vita. Li guardo e mi riscopro innocente e libera e
tremo al pensiero che presto finirà anche per loro. Ecco, credo che Hicks,
nella sua invettiva, abbia voluto gridare la rabbia per un mondo perduto per
lui e l’invidia infantile, e non so se ne ha avuto contezza, verso tutti quelli
che possiedono quel mondo, che lo vivono o lo vivranno in futuro. Quel futuro
che lui non era capace di riconoscere, quel futuro che non avrebbe avuto.
venerdì 10 maggio 2013
Gli occhi del cuore.
"Il vantaggio di cui godevano questi ciechi era quello che si potrebbe definire l'illusione della luce." Da "Cecità" di José Saramago. Non le tenebre, ma un mare di latte in cui sono precipitati uomini e donne, senza conoscere la causa, senza preavviso, senza sofferenza fisica.
Ho ripreso il libro dopo anni, per situazioni personali ne avevo interrotta la lettura, mi aveva angosciata. Certamente, non ero pronta a finirlo, non ero pronta a diventare cieca tra quei ciehi così diversi. Oggi sono anche io in quel mare di latte, lo siamo un po' tutti in realtà: galleggio, mi adagio sul fondale, mi adeguo a nuotarvi come meglio posso, ma non ho più paura, il contagio mi ha procurato un benefico incremento di autoironia e autoconservazione. Mi dico, se non vedo, è perché la realtà non si fa vedere; e quando balugina nella nebbia, fingo di non accorgermene. Un'illusione ottica, la Fata Morgana sullo Stretto che non mi incanta, ma a volte mi diverte per via della sua inconsistenza.
C'è poi la realtà che vedo con gli occhi del cuore, quelli non possono diventare ciechi, è così stupido affermare che l'amore è cieco, quei miei occhi hanno undici/decimi, sono acutissimi e scorgono volti di persone belle, uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine dagli occhi, a loro volta, sani e ridenti , aperti come paesaggi marini, scintillanti di vita. E io mi immergo e annego felice.
Ho ripreso il libro dopo anni, per situazioni personali ne avevo interrotta la lettura, mi aveva angosciata. Certamente, non ero pronta a finirlo, non ero pronta a diventare cieca tra quei ciehi così diversi. Oggi sono anche io in quel mare di latte, lo siamo un po' tutti in realtà: galleggio, mi adagio sul fondale, mi adeguo a nuotarvi come meglio posso, ma non ho più paura, il contagio mi ha procurato un benefico incremento di autoironia e autoconservazione. Mi dico, se non vedo, è perché la realtà non si fa vedere; e quando balugina nella nebbia, fingo di non accorgermene. Un'illusione ottica, la Fata Morgana sullo Stretto che non mi incanta, ma a volte mi diverte per via della sua inconsistenza.
C'è poi la realtà che vedo con gli occhi del cuore, quelli non possono diventare ciechi, è così stupido affermare che l'amore è cieco, quei miei occhi hanno undici/decimi, sono acutissimi e scorgono volti di persone belle, uomini e donne, ragazzi e ragazze, bambini e bambine dagli occhi, a loro volta, sani e ridenti , aperti come paesaggi marini, scintillanti di vita. E io mi immergo e annego felice.
domenica 5 maggio 2013
Sotto un cielo ipocrita.
Cielo incerto tra il celeste smorto e il grigio topo. Un cielo ipocrita, che finge di essere amico della stagione accennata nei viali della città e nei giardini e invece trama strategie ancora invernali o almeno d'autunno. Mi pare che rappresenti tutte le ipocrisie di questi tempi, gli occulti pensieri che sguazzano nelle menti e che maldestramente si tenta di velare con frasi di circistanza e parole decrepite. Da qualunque parte volga lo sguardo, scorgo sorrisi che mi appaiono come unti dal crisma della menzogna, siano essi stampati su volti amici o estrenei. A volte mi dico, no è solo un'impressione, sei un po' paranoica; oppure mi dico, è così che si fa, così va il mondo, impara cretina, impara che ancora un poco di tempo resta per vivere tra la gente. Ma poi, non ce la faccio, parlo e le parole corrono dove vogliono, libere e nude e non le riacchiappo, le guardo volare e spero che arrivino a chi so io, a chi è come me. A chi ha scelto di essere quella che è, senza pretesa di piacere agli altri, senza pretesa di volere l'amore di tutti, senza pretesa di essere la migliore, sapendo in fondo che non lo sarà mai. Sarà solo se stessa, saremo solo noi. Senza ipocrisie.
venerdì 3 maggio 2013
1° maggio tra ricordi e umanità varia.
Un bel po' di anni or sono, ho scritto una poesia dedicandola a una suggestione provata mentre percorrevo i viali del Giardino Bellini.
Suggestione che si è ripresentata con maggior vigore ieri mattina, quando mi sono addentrata con l'amorosa compagnia dei miei affetti più cari e di Matilda, la bassottina a pois, nei medesimi viali. Sotto l'ombra morbida dei giganteschi ficus, nel calore ancora mite del 1°maggio, trascorreva la giornata festiva un discreto numero di persone: la coppie anziana con il volpino al seguito e lei con un inusuale cappellino dalla tesa ampia, di certo ripescato in fondo all'armadio, che veleggiava candido alla brezza; la famiglia in ordinata fila, prima il padre, con gli occhi seri e stanchi, in silenziosa marcia; i maratoneti svestiti e sudati, immagine della modernità; i bambini in bici e sui pattini a rotelle, instabili e instancabili; le giovani coppie allacciate e separate dal cagnolino spesso senza nobili avi; e infine, l'umanità senza età e senza volto dei dimenticati, extracomunitari, ma anche donne e uomini di questa nostra amara Terra, accovacciati sulle panchine di pietra, in attesa del nulla. I profumi forse sono diversi oggi, l'aria è meno limpida e i clacson e le sirene delle autoambulanze spezzano il rumore degli alberi e azzittiscono gli uccelli, ma la suggestione è tornata, ero di nuovo lì, in quel parco con mio padre e mia madre e avevo sei anni.
Suggestione che si è ripresentata con maggior vigore ieri mattina, quando mi sono addentrata con l'amorosa compagnia dei miei affetti più cari e di Matilda, la bassottina a pois, nei medesimi viali. Sotto l'ombra morbida dei giganteschi ficus, nel calore ancora mite del 1°maggio, trascorreva la giornata festiva un discreto numero di persone: la coppie anziana con il volpino al seguito e lei con un inusuale cappellino dalla tesa ampia, di certo ripescato in fondo all'armadio, che veleggiava candido alla brezza; la famiglia in ordinata fila, prima il padre, con gli occhi seri e stanchi, in silenziosa marcia; i maratoneti svestiti e sudati, immagine della modernità; i bambini in bici e sui pattini a rotelle, instabili e instancabili; le giovani coppie allacciate e separate dal cagnolino spesso senza nobili avi; e infine, l'umanità senza età e senza volto dei dimenticati, extracomunitari, ma anche donne e uomini di questa nostra amara Terra, accovacciati sulle panchine di pietra, in attesa del nulla. I profumi forse sono diversi oggi, l'aria è meno limpida e i clacson e le sirene delle autoambulanze spezzano il rumore degli alberi e azzittiscono gli uccelli, ma la suggestione è tornata, ero di nuovo lì, in quel parco con mio padre e mia madre e avevo sei anni.
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