lunedì 25 dicembre 2017

Vorrei.

I giorni di festa sono giorni gonfi di sentimenti. E se c'è l'assenza, se c'è la distanza fisica, i sentimenti si dilatano, crescono a dismisura, avvolgenti come il sacco amniotico.

Vorrei vedere.


Vorrei vedere
i tuoi stivali nuovi
Vorrei vedere
il tuo passo veloce
nel mattino pallido
Vorrei vedere
la tua mano
tra i riccioli
e il vento del mare
li muove e muove
I tuoi capelli
e la tua mano
Vorrei vedere
e posarvi la mia.
Vorrei vedere
i tuoi occhi
allagati di sole
così grandi
da contenerlo il sole.
Vorrei vedere
i tuoi jeans stinti
seguirli nelle piazze
Vorrei sentire
il tuo rumore
la porta che sbatte
il lancio della borsa
che sulla sedia
s'abbatte.
Vorrei vedere
vorrei sentire
tutto di te
ogni millesimo di fibra
che lo spazio arricchisce
ogni pulviscolo di aria
che dalla tua gola esce.
Vorrei.



Pablo Picasso  "Buste de femme"  1940

lunedì 18 dicembre 2017

Perché è così.

Nonostante tutto, anche quando non c'è proprio tutto e le assenze sono aghi conficcati. Nonostante tutto si vive.

Perché è così.

Faccio larghi sorrisi
Appena alzata
Col canto del gallo
Sveglio solo per me
Mi invento le stanze
Le affresco
Con le immagini
Trascolorate
Le accordo
Alle voci
Di dentro
E cammino a lungo
Nel giardino freddo
Che s’apre piano
A un breve raggio.
Faccio tutto con calma
E il cuore batte
Dove stanno le gallerie
Di sangue vivo 
Io vivo.
Nonostante tutto
Nonostante lei
Faccio larghi sorrisi
Faccio ogni cosa
Perché è così.


Claude Monet  " La liseuse"  1871 
 










lunedì 11 dicembre 2017

Le vite degli altri.

Prendendo spunto da un brevissimo post letto ieri.
Nel quale l'autore, concisamente e velocemente, stroncava quella che ormai è  la dottrina religiosa di Facebook. Ovvero che si è "amici". Che i rapporti che intercorrono tramite i mi piace, gli emoticon, i commenti graziosi e teneramente articolati, siano le spie luminose dei rapporti di amicizia. E qui inizia il mio smarrimento, il mio turbamento.
Nulla togliendo agli effetti benefici del social per coloro che ne traggono un vantaggioso ritorno di immagine in quanto la loro professione richiede un pubblico vasto; e nulla togliendo alla necessità di molti di aggirare le solitudini passeggere e le nostalgiche fughe del cuore verso una gioventù sempre più lontana, resto perplessa e titubante , anche io, sulla reale consistenza dei legami che si possono instaurare in queste pagine che scorrono e scorrono molto più velocemente della vita quotidiana. Non voglio dire che non ci si possa incontrare per affinità elettive, succede, mi è successo ed è gradevole. Ci si sente confortati, ci si sente più forti e preparati ad affrontare le vicissitudini che, implacabilmente,  ci richiedono attenzione e cura. Nascono affetti, simpatie, afflati di empatia ed eccola qui la condivisione pronta a espletare una funzione salvifica, rigenerante, amorevole.
Ma per quanto? E soprattutto perché e per chi?
Le risposte non sono né semplici, né categoriche, né hanno una valenza universale.  Ma verosimilmente, alla prima domanda si può rispondere "per tutto l'arco di tempo in cui resterò a far parte di questa piattaforma virtuale"; e alla seconda e alla terza domanda, verosimilmente, si può rispondere "perché mi suscitano interesse e curiosità, mi stimolano le vite degli altri ( o quello che mi appare delle vite degli altri); e all'ultima, appunto la più importante, verosimilmente si può rispondere "perché provo un sentimento di comprensione, di affetto, di amicizia (di amore?) per qualcuno che ho incontrato sempre qui, su questa piattaforma che viaggia nell'etere con tutti noi appesi a fili invisibili.
Quindi, l'interesse, la curiosità per la vita degli altri. E ancora, addirittura, l'affetto, l'amicizia se non una forma d'amore.  E qui mi blocco, mi inchiodo. Perché sono parole belle, espressive, parole tenere e forti che vanno pronunciate con pudore e rispetto.
I miei ragazzi, i miei giovani favolosi, tutti più scafati di me, sorridono scuotendo la testa, sono cinici prima che l'orologio temporale glielo consenta di esserlo. Sanno meglio di me come va il mondo, questo mondo di nebulose fittizie, questo mondo di schermi lattiginosi lo frequentano da molto più tempo di me, io sono una neofita in fondo. E mi prendono anche un poco in giro, amorosamente crudeli.
Io resto interdetta, sono dubbiosa: dico e mi contraddico come ha scritto nel  suo post quel mio contatto (non amico!) e mi piace pensare a quel film di un po' di anni fa, bellissimo, tragico, struggente film: "Le vite degli altri". 

domenica 10 dicembre 2017

Mi confortano quelle pagine.

Mi è stato di grande conforto apprendere, oggi, che Amos Oz,  David Grossman, Abraham Yehoshua e molti altri esponenti della vasta galassia della cultura ebraica, hanno sottoscritto un appello per il riconoscimento universale della Palestina come Stato sovrano. Mi è è stato di conforto ma ne ero certissima, si può dire che li aspettavo al varco con ansiosa gioia. Perché li leggo, li conosco, li amo. Le loro voci dovrebbero essere ascoltate molto più che quelle dei politici di professione, molto più dei presidenti trafficanti e dei premier infingardi.
La rivendicazione della Palestina, sacrosanta, annega nella notte dei tempi ed è sempre stata causa di conflitti sanguinosi, di distruzione, di morte.  E sempre lo sarà se non si inverte la rotta, ultimamente impressa con folle accelerazione da un presidente ottuso, vanesio, incolto, rozzo che, ahinoi, ha il potere di giocare con i destini del mondo.
La Gerusalemme d'oro che mi incantò nelle pagine di Yehoshua;  la Gerusalemme dai cieli tersi e brillanti di stelle nelle fredde notti invernali che mi trascinò per vicoli sassosi e dentro locali fumosi e speziati nelle pagine di Oz, è città aperta, è città di tutti.
E non è forse bellissimo, misteriosamente bello che ci sia, in questo tempo stretto nelle corde della pazzia, avere un luogo comune a tutti noi? Un luogo che possa rappresentarci, seppure nelle diversità?
Mi ferisce sapere  - e non mi appare casuale - che a Betlemme ci siano stati gli scontri più cruenti. Sarà un lascito della mia immaginazione, sarà questo tempo dedicato alla preparazione della Natività per i cristiani; sarà perché al di là della fede e dello spirito religioso, quella lieta novella di un Bambino che rinasce mi emoziona, mi commuove.  Tra tanta morte, la vita è il segno del cambiamento, della speranza, del progetto.
La Gerusalemme Celeste, invocata nelle liturgie, è forse già qui, tra di noi. E non riusciamo a scorgerla. O non vogliamo.

lunedì 4 dicembre 2017

Au revoir les enfants!

Dovrei aggirarmi dalle parti dei buoni sentimenti, sarebbe più consono al periodo riflettere sull'amore e la generosità. Ma i tempi suggeriscono, anzi mi dettano altro. I comportamenti, le azioni, i gesti e le parole che mi arrivano mi impediscono di sciogliermi nella transitoria ricerca di quell'armonia interiore che diventa urgente impegno ogni anno, sotto Natale. Alle ansie personali, alle intime angosce e delusioni si affiancano le voci dissonanti e disarmoniche del fuori, del mondo esterno. Che non è, già di per sé, visione gratificante, niente di bello spunta sotto il sole o sotto  la pioggia da un bel po'. E ultimamente ancora meno accettabile è diventato, per me, ascoltarne il rumoroso e stridulo respiro,
"Sono ragazzi!" è l'alito emesso da un politico per giustificare l'atto di un gruppo di neonazisti. Sono ragazzi! Come se questo bastasse a renderli innocenti, forse un pochetto stupidi sì, nella loro volontà di violare la libertà degli altri; come se questo bastasse a chi se ne sente offeso. E ancora "Non hanno commesso nessun atto di violenza!" E allora, arriviamoci alla violenza, lasciamoli fare, so' ragazzi! Un pochetto stupidi, magari.
Ho ascoltato le reazioni, quasi piccate di certi esponenti politici che hanno buone probabilità di governare il nostro Paese, reazioni sul filo della sufficienza, della noia, perché "basta con quest'odio, bisogna storicizzare il fascismo" Storicizzare il fascismo? Il nazifascismo? Ma, mia cara signora Mussolini, sono già da tempo, storicizzati! Come le due più feroci dittature del ventesimo secolo. Sì, insieme al comunismo di Stalin.
Mi sento umiliata, inutile e vecchissima perché soffia un vento maligno per l'Europa e pare che non sia avvertito, non come si dovrebbe. E ci sono pure quelli che lo giustificano, l'agitarsi di questo vento maligno, dicono: "Colpa delle diseguaglianze, colpa della povertà crescente, colpa della mancanza di posti di lavoro, colpa degli immigrati che tolgono casa e lavoro." Forse è anche questo, ma non solo. No. C'è come la ricorrente voglia di affidarsi al Padre, al padre padrone che a tutto provvede, a tutto si presta. E non importa se dietro il sorriso ci sono zanne e se la mano tesa a noi cela l'uncino, si può correre il rischio, l'importante è non pensare, l'importante è avere fiducia in quelle tre parole Dio, Patria, Famiglia. I fondamentali per tornare a sentirsi operosamente sicuri.
"So' ragazzi!" direbbero a Roma.
Io porto nel cuore altri ragazzi, so' vecchia io.
Au revoir les enfants!

giovedì 30 novembre 2017

Nelle mie pagine.

Se il tempo scappa via veloce, altro c'è che, ostinato, resta. Ed è la memoria, sono i ricordi, sono i ricordi di persone amate. Di una.


Non sei laggiù, sei nelle mie pagine.


Scivolavo accanto alla pietra macchiata
Ti cercavo
come da bambina
E il gelsomino scopriva il tuo sorriso
In bianco e nero
delle attrici di allora
Ti ho strappato un ramo secco che ti attorcigliava
I capelli
E la fronte
 E i fiori non sono abbastanza belli
Per te silenziosa
Silenziosa regina
La luce era opaca senza di te
Eppure c’era il sole
E c’era caldo
Eri tu che non c’eri, eri tu
Che ti nascondevi
Non sei laggiù non tra le pietre rosicate
Non sei muschio
Non sei ruggine
Ti ho vista, sai,
danzavi ancora
e cantavi ancora
E la tua testa di regina
Era tutta bionda
Come nelle foto in bianco e nero
Che sto guardando
E so qual era il colore
Dei tuoi occhi.
Ti ho vista, sai,
In questi giorni brevi della mia vita
Sei uscita fuori con un guizzo
Un volo delicato verso me
E mi parli, sai,
Mi parli sempre e batti in testa
In questi giorni senz’alba né tramonto.
Il mio tempo veloce e trafficato
Scorre con te
E non sei laggiù, sei qui con me
Nelle mie pagine
In bianco e nero
A dilatare leggera questo mio tempo.


Jan Vermeer  "Donna che scrive una lettera"  1665 ca.





lunedì 20 novembre 2017

La ricchezza di alcune donne.

E lo sapevo, ne ero certa, ma così certa che Muzio Scevola mi fa ridere, altro che mano nel fuoco, tutto il mio braccio! E lo avrei tirato fuori senza traccia di fiamma.  Perché se si arriva a quest'età un beneficio deve pur esserci in mezzo a tanti guasti e uno è quello di conoscere le reazioni, i comportamenti di alcune persone di fronte a una prova, una prova che è una provocazione alla risposta che dovrebbe essere consequenziale alle esternazioni, più o meno plateali, nei confronti di qualcosa. E invece, il silenzio. Da me atteso con beffarda consapevolezza.
E qui entra in gioco nuovamente, mai stanca, mai sonnacchiosa, l'infingarda ipocrisia, il sorriso sdentato, il gesto ammiccante e osceno. Una trivialità dello spirito talmente palese (Freud e tutta la moderna psicanalisi sogghignerebbero e si fregherebbero le maani posti davanti a simili inezie caratteriali) che se è sconcertante e disgustosa, non mi sorprende più. L'essere umano è un impasto da rimodellare, in fondo. Il tragico risvolto della faccenda è che non ne è consapevole.
Ma non è su questo che intendo soffermarmi.
Il caso esiste, forse. O forse nasce dai nostri gesti, forse dalle nostre riposte ansie e dai nostri aneliti a qualcosa che sia altro. E ieri, sarà stato il caso o chissà quale piccolo dio che sì agita dentro di me, ho apprezzato con un poco di maggior letizia, una ingorda letizia, ho apprezzato meglio la vita e gli incontri che si possono fare. Due donne, sicuramente molto diverse tra loro, ma simili per età e chiarezza. E mi riferisco a quella chiarezza dell'anima, quella limpidezza che è dote preziosa. Due donne che raccontano - una tramite la scrittura, l'altra oralmente - episodi legati alle loro infanzie, che raccontano persone a loro care e paesaggi e mestieri antichi e stanze in vecchie case di borghi, alcuni sconosciuti e uno, Randazzo, fastosamente arroccatosul fianco sussultante dell'Etna. Narratrici attente, dalla lingua asciugata d'ogni orpello retorico, acuti occhi che si poggiano sul passato, restituendogli una luce quieta e ammaliante allo stesso tempo. Io, leggendo e ascoltando, vedevo scorrere valli ignote e monti aguzzi, volti in ombra e fruscii di lunghe vesti femminili, echi di un passaggio remoto ma che persiste caparbiamente vivo.
Ne ho tratto conforto, il mio lavoro ha un senso mi sono detta. In questo lago piatto e infinito posso trovare la mia brezza che sollevi l'onda; posso scavare nella mia stretta aiuola e ritrovare l'antico seme da cui tutto ebbe inizio.
Posso spartire con altre compagne la ricchezza di noi donne. Di alcune donne.


Jan Vermeer "Ragazza con l'orecchino di perla"  1665 - 66

mercoledì 15 novembre 2017

L'inverno del nostro scontento.

Nel bel mazzo di notizie, di fatti, nel profluvio di parole spese a commento di questi fatti, non poca parte hanno le nuove pruderie puritane degli scandali legati al sesso. E, in tutta sincerità, non mi appassionano, non mi interessa citare nomi di presunti molestatori e di presunte vittime. Dovrebbe essere compito della magistratura appurare la verità e decidere le pene.
Fin qui, però, ci stanno pensando in molti a giudicare e a comminare castighi. I social - novello tribunale mondiale - se ne sono assunti, doverosamente e gioiosamente, il compito. Schierandosi - la par condicio non è da trascurare -  in pro e contro i molestatori (presunti) e in pro e contro le vittime (presunte).  Ed è venuto fuori di tutto, un'onda gigantesca che, ritirandosi dopo aver travolto tutti, lascerà una landa piatta e fangosa. Non sono qui per schierarmi, non ne so abbastanza e, ripeto, non mi interessa. Ciò che mi disturba, che mi lascia il sapore disgustoso del cibo irrancidito è la tetra pervicacia nel reiterarsi di antichi schemi e di stantie schermaglie: tra uomini e donne. 
Ho letto commenti -  ed è tragicomico che a postarli siano state persone di non scadenti qualità culturali -  nei quali le vittime vengono, tout court, definite "troie". E mi auguro per chi lo ha scritto che sia una provocazione più che un'intima percezione della donna.  Ma a parte queste esternazioni estremizzanti, quello che mi ha fatto sbarrare gli occhi e mi ha, dato un poderoso senso di impotenza, sono alcuni post e commenti da parte di alcune gentili rappresentanti del mio sesso. Un accennare leggero, appena appena intinto nell'ipocrisia di un femminismo che pesa come le catene del forzato Valjean; un credere e non credere alle "fanciulle" seducibili dal potere e tardivamente pentitesi; un sorrisetto colloso, da beghina controvoglia, che equivale a "ti conosco, carina, a me che donna sono, non la dai a bere!" Come se il solleticante desiderio di parlare fosse sulla punta della lingua, ma l'apparente maschera di solidarietà femminile lo vietasse.
In tutto questo sconfortante scenario di balordaggini, ci saranno delle vittime, resteranno per terra dei cadaveri. E saranno quelli di noi donne. Non ce ne accorgiamo nemmeno, ed è un timore fondato, dell'aria che tira. 
Allora ci adegueremo, saremo le donne che molti uomini sognano di avere accanto. Disponibili e pronte a seguirli sempre, attente e premurose dispensatrici di lauti pasti e di letti accoglienti.  Madri e mogli. Compagne devote e silenziose. Torneremo ai fornelli e ai fiori e lasceremo tutto il resto, lasceremo la bruttezza della vita all'uomo. Perché così, in fin dei conti è sempre stato e perché così, in fin dei conti, è più facile essere amate. 
Le altre - e ce ne sono, vivaddio, ancora - continueranno a non stare zitte, guarderanno il mondo con i loro occhi, cercheranno se stesse anche da sole, vedranno gli uomini con occhi schietti. Non accetteranno l'ipocrisia dell'amore immobile. Vorranno il dialogo, l'aprirsi a  un reciproco rispetto, la consonanza dei desideri e la loro legittimazione. Senza trascuratezza alcuna, senza togliere niente all'uomo e ai figli e a se stessa. Sarà duro il cammino, ma lo è sempre stato, duro. Ci siamo avvezze, c'è una lunga storia alle nostre spalle che le ha rese larghe e forti.
Ci aspetta, e mi rivolgo a quelle che, come me, vogliono sperare nell' Altrove e nell'Altro Uomo, una solitudine fitta, ci aspetta un lungo inverno.
Sarà l'inverno del nostro scontento. Ma si muterà in splendida estate e ne verremo finalmente fuori.


Vincent Van Gogh "Donne che zappano la terra innevata" 1890

venerdì 10 novembre 2017

Io con lei.

Sarà questo mattino così spesso e grigio, che le stanze hanno l'ombra della sera. Sarà per un amico che mi ha scritto e che mi batte dentro. Sarà per una telefonata che non volevo avere.

Io con lei.


C'è la luce dei paesi ghiacciati
nelle stanze
ombre di sere, antiche sere, s'attaccano
alle pareti.
Il giardino è immobile mentre beve
tace il nido di passeri.
Mi aggiravo inquieta e storta
le mani
torcendomi e pure il labbro
senza risposte.
Quelle parole dette di scatto
il suo mare
sempre agitato dentro
il suo corpo leggero e teso
come un arco.
Sono pesanti frecce acuminate
quelle parole
si conficcano nei muri
 a fare buchi fondi
e il buio
non nasconde le crepe.
Neanche il cuore pauroso
e il cervello rotto
sfuggono all'amato
arciere.
La luce si abbassa e s'alza
lassù nel cielo chiuso
e nelle stanze
e io con lei.




Vilhelm Hammershøi (Danish, 1864-1916), Interior. “The Four Rooms”, 1914. 

domenica 5 novembre 2017

Non vi fregheranno.

Questa è una riflessione di alcuni giorni or sono, ormai quasi scaduta, nel senso che si sta votando, proprio in queste ore, per il rinnovo del governo in Sicilia. Ma la ritengo valida, per me.

Ci si prepara alle elezioni nell'isola. Sono arrivati tutti, in drappello e anche alla spicciolata. Sono all'arrembaggio, le vecchie e recenti volpi della politica, hanno il coltello tra i denti come pirati guerci. Alcuni esibiscono le zanne in untuosi sorrisi. Sono calati quaggiù per spartirsi ancora una volta la torta rancida di quest'isola, di questa terra che non ne vuole sapere di cambiare e loro lo sanno, sì che lo sanno. C'è qualcuno, qualcuno c'è che rumoreggia e mi ricorda le oche del Campidoglio, ma non c'è la certezza del prode salvatore, non c'è nessun Furio Camillo a soccorrerci. Soccomberemo, come altre volte, volontariamente e volentieri, ci consegneremo a quella sorte infame ma sempre cercata e accettata che non ammette il cambiamento. Sono questi i miei peggiori timori, sono sempre gli stessi, da decenni. Si potrebbe tentare l'eversione - e molti lo faranno - di votare quest'idea relativamente nuova, il Movimento. Si è tentati, lo sarei anche io se solo potessi dimenticare esternazioni ambigue e le cialtronerie urlate dal loro padre-padrone ( l'aspetto, per me, più inquietante è proprio questa sacralità del ruolo assunto dal leader, la sua indiscutibilità mi è disturbante); si è tentati e forse in molti lo voteranno. Ma basterà, basterebbe perché se non tutto, qualcosa inizi a cambiare? Perché si cominci a voltare le spalle a odiose, inveterate abitudini che rappresentano il tumore maligno, la Peste Nera di cui è ammalata l'isola?
Il malaffare, la corruzione, il potere mafioso si sono cronicizzati, il tumore ha fatto metastasi dappertutto. Almeno in una parte della società, quella che, anagraficamente, mi è più vicina. Quella che si è arraffata, nel silenzio consenziente di molti e dello Stato centrale, il Potere politico-economico di tutti i gangli vitali dell'isola. Uomini e donne (ci metto dentro anche le donne, anche se sono scarsamente rappresentate) che abusano dell'opportunità di una poltrona, di un titolo, di una dirigenza, per giocare sporco, per esercitare un dominio spesso feroce sulle esistenze di chi è costretto, per necessità, a soggiacervi.
Spesso sono i giovani a essere soccombenti, i più giovani sguarniti di protezioni adeguate - protezioni che uno Stato dovrebbe fornire - cadono sotto la mannaia di interessi, ripicche, ritorsioni, ricatti. E non parlo qui della Mafia, del Sistema che ha infettato e infetta le attività economiche dell'isola. Parlo della mentalità mafiosa, meno appariscente, sotterranea, strisciante, che è ugualmente infettante e infestante.
Mi rivolgo ai giovani allora.
Il voto di oggi, temo, non produrrà la svolta. Ma anche se qualcosa di nuovo dovesse accadere, non sarà sufficiente.
Il cambiamento sta dentro di voi, voi avete gli strumenti perché qualcosa si possa muovere nel limo, perché il fango si ossigeni di nuova acqua pulita. Siete fondamentali, siete necessari, ma non dovrete più lasciarvi abbindolare, non dovrete più chinare la testa: dovete riacciuffare la vostra dignità. Cambiate voi quest'isola, cambiamdo voi stessi. Scansatevi dalle false promesse degli ominicchi e dai loro ricatti foderati di sorrisi e pacche sulle spalle. Sono nani, gnomi malefici, rispetto a voi. Abbiate rispetto di voi stessi, non di loro.
Solo così non vi fregheranno più, non vi fregheremo più.

Raffaello Sanzio  "La Scuola di Atene" (particolare)  1509 - 1511 

venerdì 27 ottobre 2017

C'è qualcosa che non va.

C'è qualcosa che non va.
Se la frequentazione dei social ha un merito ( tra gli innumerevoli demeriti)  è quello dello svelamento. Non basta la segregazione volontaria dietro un piccolo o più ampio schermo, non ci protegge. Infine il velo cade e ci si mostra, siamo trasparenti e lasciamo che trapeli tutto di noi. Anche se non ce ne accorgiamo, anche se ricorriamo a sotterfugi e  a ingannevoli silhouettes delle nostre pulsioni,dei nostri istinti, dei nostri umori.

Un treno che si è bloccato in mezzo al deserto. Il Tempio vociante di mercanti e nessuno che li cacci via. La maschera greca di Ipocrita incollata sulla faccia del prossimo. Il prossimo che non c'è. Che non è l'evangelico prossimo tuo, miserevole e affamato, depredato e sofferente, ma sempre e solo il prossimo dal quale, in qualunque modo e senza alcuna certezza (ma vale sempre la pena tentare la sorte) si potrebbe trarre beneficio, materiale o no. Ci si contenta pure del beneficio floreale, dell'omaggio, della condiscendenza di essere contiguo a chi si reputa, giustamente e anche non, migliore di noi. Se non, addirittura più potente. La ricerca della raccomandazione (pratica italiana diffusissima) nasce anche da questa smania di appartenenza, di appoggiare la propria schiena, ritenuta ipocritamente fragile, a quella più salda dell'altro, del più noto, del più richiesto.
Anche la mitomania (altro vizietto italico) prende le mosse da questa bramosia di credito, un credito che si esige dalla vita, senza un vero motivo. Per noia forse, per insoddisfazione, per solitudine.
E allora non guardiamo ai politici come fossero mostri, draghi infettanti, erbe infestanti. Sono il nostro io incosciente e cosciente, ipocriti, bugiardi, mitomani, diffidenti, voltagabbana, profittatori, opportunisti.
Quando ci verrà voglia di prenderli a schiaffi (e avviene di sovente), basterà prendere a schiaffi la nostra faccia. Forse qualche vantaggio ne trarremo.

C'è qualcosa che non va.
Oggi mi è capitato di leggere in un post: sono diventato anticonformista a undici anni, quando la mia insegnante di italiano mi obbligò a leggere "Se questo è un uomo." L'anticonformismo dell'autore del post si dovrebbe evincere dalla sua presa di posizione riguardo allo squallido caso della tifoseria e presidenza della Lazio, ritenendo infatti l'autore del post che non sia stato commesso reato, né tantomeno che il presidente della squadra dovesse avvertire l'obbligo di scusarsi con la comunità ebraica.  Quindi si definisce anticonformista, ma non nazifascista, secondo le accuse di qualche "moralista" (così tacciato dalle anime belle andate in soccorso dell'anticonformista). C'è qualcosa che non va. No.

Le mie certezze rischiano di crollare in minuscoli frantumi, sono scossa da un turbamento profondo, io che sapevo chi ero, io che ero sicura di essere un'anticonformista, ebbene no! Sono solo una beghina, una bacchettona conformista e moralista per giunta! E va bene così, mi va bene, per Levi e per Anna Frank, mi va più che bene.
Alla faccia degli anticonformisti convinti di esserlo. Salute a voi, dunque (ma non con la mano tesa).


Edouard Manet Le fifre, 1866

venerdì 20 ottobre 2017

Alle mie amate donne e alle nostre ombre.

I pensieri vanno sempre verso quel punto luminoso,  luminoso solo a me e alle mie amate donne. Il resto è oscurità grigia e amorfa, ma le mie donne ne sono lontane, loro e le loro trasfigurate immagini, piccoli segni neri di grafia, silenziosi ed eterni.

A Erica e a Cristina. 
E anche a Tilde e Adele. E a Claudia e a Tamàr.
E ad Artemisia ed Esther.

Non cambierete, no. Voi resterete.
Donne bambine cresciute con larghi occhi
accoglienti.
Camminerete abbracciate alla vita vera
e i sogni saranno stipati nello zaino.
Sarete eterne anche a chi non vi conoscerà mai.
Sarete ghiacciai a chi vi dirà il falso.
Sarete roventi liane a chi vi negherà il giusto.
Sarete mari fitti di stelle a chi vi dirà il vero:
Sarete brezze d'oceano a chi vi darà il vostro. 



Ernst Ludwig Kirchner  "Femme au miroir"  1912





venerdì 13 ottobre 2017

Per avere un'attesa. Ancora.

Amarezza: proprio quel gusto che fa storcere la bocca e toglie ogni voglia di continuare a ingoiare il boccone. Così mi sento, preda di un'amarezza delusa, sconfortata.
L'amarezza di veder confermati dubbi e assilli. L'Italia è un Paese di vecchie, inveterate abitudini e non parlo della corruzione che, cavallo esuberante mai bolso, galoppa sempre per amichevoli e fiorenti praterie; non parlo delle operose consorterie, mafiose o no secondo la legge, che armeggiano indisturbate in saecula saeculorum et amen. Non parlo neanche dei politici perché non valgono lo spreco di una sola parola, sono le maschere dell'eterna commedia italica, una sorta di  guitti da pochade dove si entra e si esce di scena, sgangheratamente ridicoli.
L'amarezza ha radici salde, affondano nella vita di tutti i giorni e nella constatazione che la speranza, la bella e chiara Spes, che qualcosa cambi, si affievolisce in un rantolo triste.
I giovani, i nostri giovani, la nostra forza, il nostro futuro. Addomesticati e quieti, all'apparenza, vivono senza attese, senza la dolce banalità del sognare un futuri migliore. Si sono arresi all'evidenza: sono colpevoli di essere nati nel momento sbagliato. Oh! sì certo. La Grande Crisi, le scelte imposte dalle leggi perché non si sprofondi tutti, perché la nave non affondi. E pazienza se qualcuno dovrà annegare, bisogna correre il rischio. E così la nave va e gli annegati restano a galla. Peccato che siano proprio i nostri figli a galleggiare, muti e  quieti.
L'amarezza di non udire voci, grida perché qualcosa cambi. L'amarezza dell'accettazione.
E se no, c'è un altro sogno da inseguire, un sogno fragile e insignificante come la bolla di sapone che soffiano i più piccoli con la cannuccia. C'è l'esposizione di sé, il mostrarsi, il volere apparire, il volere essere, anche se per poche ore.  Essere che è apparire appunto. Eccoli qui, allora,  i ragazzi e le ragazze, più queste in verità, che sfilano in grottesche pose di attricette: eccole qui come se fossero sul maledetto red carpet da calpestare per un giorno, il pre-diciottesimo, un solo giorno che le vede protagoniste, dive, star assolutamente simili a migliaia di altre, fasullamente sfacciate, impacciate, ragazze poco più che bambine ammiccanti e goffe, come sempre è goffa la giovinezza. La mia amarezza, triste e divertita va ai genitori che, non è raro, s'indebitano pure per filmare e festeggiare le loro principesse senza trono.
Ma è una consuetudine ormai, mi si dice e io ne ho preso contezza solo da poco.
Ero rimasta stupidamente ancorata ad altre debuttanti, vaporose e romantiche, dei miei anni. E non facevano neanche allora per me quegli abiti di tulle e quelle pose di leggiadra verecondia,  erano inganni anche allora, era il maquillage discreto col quale si camuffava l'ingresso alla maturità.
Così in questo dualismo, in questa dicotomia senza scampo, si aggirano i miei pensieri e le mie svanite illusioni.
Da una parte ci sono i giovani quietamente assorti nei loro lavori, sovente precari e quasi sempre sottopagati. Dall'altra, una nuova generazione, figlia delle serate e dei pomeriggi domenicali trascorsi davanti alla tv, e adesso nel delirio dei social e del web, diciottenni, poco più poco meno, che hanno già affidato le loro esistenze alla mistificazione, all'irreale.
Ed è normale chiedermi, come faranno tanti, dov'è che si è sbagliato e quando e come. E le risposte le sappiamo tutti, oh! certo che le conosciamo, ma le teniamo nascoste, le teniamo sepolte, le cancelliamo assieme alle nostre sprecate giovinezze.
Amarezza. E non vorrei averne ancora e allora ragazzi gridate e ribellatevi, lasciate le vostre quiete esistenze addomesticate e urlatelo in faccia a moi il vostro scontento! Noi siamo qui e siamo pronti ad afferrarlo perché sarebbe l'ultima occasione per sognare anche noi, ancora un poco. Per allentare lo sconforto. Per avere un'attesa, ancora.

Edward Hopper  "Automat"  1927

giovedì 5 ottobre 2017

La colomba appesa.

Una breve lettura ed ecco che i ricordi cominciano a saltellare, premono, insistenti e prepotenti. E un episodio lontano si staglia nitido e mi riempie d'una gioiosa malinconia.
Quello che segue è un breve racconto al quale mi è piaciuto dare il ritmo, l'andamento di una poesia. Ma non lo è.

La colomba appesa

Intrecciavamo le mani come canestri di canne
Salendo tra le pietre smozzicate da molti piedi
E c’era la luce che finiva nel buio profumato
Della chiesa altissima e le voci erano bisbigli d’api
I colori colavano sulle pareti squarciando l’ombra.
Stavamo conficcati tra le panche e i marmi
E le nostre teste s’erano spiccate dal collo
E gli occhi portavano nell’iride le polverose ocre
E i rossi e i verdi e il turchino di quei racconti.
Uscimmo tardi e correndo quasi con le vertigini
Ancora che danzavano dentro noi, giovani eravamo.
La colomba era lì appesa per un’ala al portale
Serrato alla dolce notte umbra, serrato a tutto il resto
Non piangeva la piccola colomba, si muoveva piano
Battendo il bronzo ostile e le penne spiegate
Parevano un bianco ricamo del ferro antico.
C’erano fischi nelle orecchie e tonfi al cuore:
Ero io la colomba appesa e sghemba al portale.
Un fracasso di pugni e le nostre grida di dolore
Eravamo noi con le ali spezzate e le gole d’ubriachi
Quando s’allargò il portone e il volto allegro
Di fratello buono ci sorrise e la colomba volò.
Volò non so dove, forse verso la luna che candida era
Come lei e la scambiò per  madre,  forse.
C’era l’aria che s’era fatta nera, ma noi s’andava
Leggeri, quasi saltando e da un noce ci salutò un gufo.


Giotto - La predicazione agli uccelli - 1292/96






martedì 26 settembre 2017

Nella stanza senza luna.

Mi sorprendono di notte, più insistenti i ricordi. Una folla di volti amati e le voci e i respiri nella stanza senza luna.

Le veglie


Nelle veglie del letto
Che s’inoltrano verso la luce
Ascolto tutti i respiri assenti
Di bocche cucite per sempre
Odoro le tuberose da te tanto amate.
Dalle stanze serrate filtrano
Spifferi d’un lieve ansimare
Di risa e di pianti infantili.
Dei vostri sogni lasciati
Tra  cuscini di talco e di latte.
Nelle veglie del letto
Scomposto dalla tua presenza
La luna non schiarisce la tua ombra
Ascolto il tuo respiro cieco
Che accompagna il mio. Fine modulo


Edvard Munch "Il giorno dopo"  1894 - 95
Fine modulo





lunedì 18 settembre 2017

Sud.

E risentire la voce e il blues di Pino Daniele fa sortire anche questa mia voglia di parlare del Sud, del mio Sud. In fondo so perché amo tanto Napoli, anche lei è coricata sotto le grinfie di un drago.
Mi accade, nel vagabondaggio annoiato sul web, di leggere un signore (eccellente penna!) che, siciliano per nascita e dopo esule nel Nord per scelta, fa il pelo e il contropelo a questa mia e sua isola ormeggiata nel cuore del Mediterraneo a qualche chilometro dal continente. E mi ritrovo sperdutamente apolide a cliccare il mio dolente consenso ai molti vizi, ai mille dubbi, alle innumerevoli contraddizioni di questa terra che egli, con malcelata sofferenza, enumera.
Vizi, dubbi, contraddizioni che ben conosco perché molti li ho sperimentati sulla mia pelle; che sono di dominio pubblico, sotto gli occhi di tutti, denudata quest'isola e con lei tutto il Sud come se fossero una donna offerta agli sguardi e alle smanie degli altri, di estranei.
Riascolto Pino e non è solo Napoli, 'na carta sporca, non è solo Napoli mille culure, non solo Napoli  è addore 'e mare. Anche la mia città è così, tutto il Sud è così: un bouquet imperfetto di colori e odori, un miscuglio di fragranze e di miasmi. Il mare sempre presente, il mare che sbatte in faccia alle vecchie case di pietra, da sempre custodi dei mille porti, le tante case del Nespolo, e se non c'è il nespolo, ci sono gli ulivi e i carrubi; il mare, quello stesso mare di lagune d'un verde quasi bianco in giugno e settembre e in inverno un galoppare di cavalli schiumanti rabbia, quello stesso mare che si spezza sulle nuove villette abusive e sui plessi residenziali che, se non abusivi, sono pugni nello stomaco, gemme false incastonate nell'oro. E attorno le campagne, i vigneti e gli uliveti e gli agrumeti e odori, odori che risvegliano gli dei.
La Napoli di Pino è l'archetipo di tutte le città del Sud, baroccamente ricamate nella pietra, con i resti della Storia a ogni passo, Atene e Roma ne fecero il loro monile prediletto, di queste coste; e i mercati, sporchi di voci arrochite e di mucchi di scorie che fumigano sotto il cielo, sono il luogo dello scambio pigro, dell'aggirarsi tra le bancarelle mille culure e magari c'è chi ti porge un frutto o una fetta di formaggio per catturarti. E i mille bar con i loro tavoli all'aperto, anche d'inverno e con la pioggia,  e ci si siede e non si vorrebbe più andare via, c'è lo struscio lento dei più vecchi e il vociare allegro di qualche studente. I giovani sbucano di sera tardi a popolare il centro storico e non parrebbe che ci sia la malinconia del lavoro che non c'è.  Perché quello non c'è, quello è il vizio antico, inestirpabile del Sud. E i traffici, i maneggi, gli imbrogli, il criminale senso di uno Stato che latita e se non è latitante lo si immerge nel sangue:  la carta sporca che insozza tutta la nostra vita.
Molti amici e anche semplici viaggiatori incontrati per caso, gente del Nord e del grande Nord, calati dalle nebbie e dai vapori delle industrie, dalle loro città ordinate e più silenziose, venuti giù a osservare le nostre disordinate, caotiche città con i loro occhi educati e civili, se ne sono innamorati del mio Sud e tornano sempre e mi dicono che c'è una bellezza così grande, così intensa che non è più possibile dimenticarla dopo averla conosciuta. Io resto sconcertata e felice e mi chiedo "allora perché? Perché noi non la vediamo, questa bellezza? Noi che la respiriamo ogni giorno?"
Forse il sole troppo furioso, la luce troppo abbagliante ci ha accecati e non la vediamo più. O forse vederla sempre, ogni giorno della nostra vita, ci ha abituato alle sue rughe, ai suoi decadimenti, come fosse una bella signora che è destino che si consegni alla vecchiaia.
Vorrei che i giovani, fin da piccoli, la vedessero questa bellezza, vorrei che fossero accompagnati per mano, che gli si raccontasse la lunga, millenaria storia di questa bellezza, di questo Sud che è 'na carta sporca che potrebbe essere spazzata via. Per diventare una carta pulita, lucente, viva.


Federico Starnone " Artisti, al Blu di Prussia"

martedì 12 settembre 2017

Una normale normalità.

Tornare su queste pagine, dopo un tempo non di riflessione ma di lavoro fisico, mi fa uno strano effetto, è come rivedere un amico di cui si erano perdute le tracce. Sono mancata poco, un'estate e neanche tutta, una bollente estate di fiamme nei nostri boschi, di terra arida, di cieli ferocemente sgombri di nuvole. E molti fatti accadevano, nel torrido torpore delle vacanze, molti fatti che seguivo nei notiziari, sgomenta, arrabbiata, dolente. Il reiterarsi malvagio degli incendi dolosi e con essi la lancinante certezza che l'uomo vuole, distruggendo la natura, distruggere anche se stesso; l'uccisione del ragazzo in Catalogna, picchiato a morte davanti a un pubblico assente, inerte: la disumanità dell'atto è pari alla disumanità di chi non ha reagito, di chi non è intervenuto in soccorso del ragazzo. Poi, pochi giorni dopo, Barcellona. Un brivido gelido nelle vene, istanti di non coscienza, il terrore. Perché mia figlia vive in quella città e abita a pochi metri di distanza dal luogo del massacro. Il gelo nelle ossa, nel cervello e presto, presto, il sollievo che lo scioglie quando sento la sua voce. E dopo ancora, la vergogna per il mio sollievo. Perché molti altri genitori non lo hanno avuto.
E infine l'uragano al di là dell'oceano e il terremoto in Messico e i morti e le devastazioni.  E ancora le violenze sulle donne, quelle non mancano mai e i torrenti che, ai primi furiosi temporali, si portano via case e persone, anche questo evento si può dire, senz'ombra di cinismo, un must.
Una lunga estate calda, ma quello era un film. Una lunga estate calda di paura e di dolore. E a questi due sentimenti non dobbiamo abbandonarci, non possiamo dargliela la vittoria.
Ritorno sui social, ritorno a queste pagine.  Le apro, inizio a leggere e vengo travolta dallo tsunami dell'odio. Anche un'affezione grave ma non contagiosa come la malaria si muta in virus, un'epidemia perfetta per chi ne vuole trarre voti e vantaggi politici. I commenti ai post deliranti grondano di dubbi e di vecchie e nuove paure e la collera cresce, le parole sono il latrato isterico dei segugi dietro alla selvaggina. Mi ritraggo, sulle prime, sono tentata di fuggire, di allungare la mia latitanza. Epperò, una fiammella di speranza c'è. Il Paese si appresta alle elezioni, regionali quaggiù da me, e in seguito nazionali. E allora? Allora andrà tutto bene, o almeno sarà tutto come sempre, senza scossoni pericolosi, senza traumi destabilizzanti: verranno l'autunno e l'inverno - e ci si augurano piogge gentili - i politici riprenderanno, meglio continueranno, a litigare e a fregiarsi l'un con l'altro di graziosi epiteti, simpatici marpioni, e il popolo avrà un bel da fare a schierarsi, felicemente litigioso e incazzato come sempre. Come sempre, appunto. Alla fine è questo che conta: una normale normalità.
P.S. Ho dimenticato di citare l'ebete nordcoreano, quel grassoccio ragazzotto che ama giocare con missili e testate nucleari. Ma forse si è trattato di un lapsus voluto, è talmente incredibile, talmente impensabile che le potenze mondiali non gli diano una spuntatina a quella sua cresta di galletto scemo. Ci sarà un perché.


Renato Guttuso "Prato d'autunno"  1959 ?

martedì 11 luglio 2017

Una sola mano.

C'è un caldo infernale. Ed è solo l'inizio, il solleone ci regalerà altri giorni ardenti. Cuociono le strade, l'asfalto si squaglia e si appiccica alle suole, cuociono i tetti e i muri delle case e neanche il morire del sole li rianima, cala col buio un nero mantello afoso che odora di oggetti arroventati, le notti torride hanno un odore greve di chiuso, anche il cielo è pesante. Cuoce ogni cosa e le città bruciano. Messina brucia e altre ancora. Bruciano le colline ricoperte di pini, bruciano boschi, bruciano le colline e gli animali che vi abitano. Le solite mani omicide, i soliti criminali delle estati avvampate, mani vigliacche, mani di morte. Se c'è chi mi spinge alla vendetta è la mano che appicca il fuoco: vorrei la pena peggiore per quella mano, vorrei che le pene fossero adeguate al crimine. Che è, per me, un crimine contro l'Umanità. Non è forse di noi tutti quella pineta che arde? Non sono forse di noi tutti i boschi?. Non è forse di noi tutti questa Natura tante volte offesa e sopraffatta dalla crudeltà di alcuni, dagli interessi biechi di alcuni?
Messina e la Sicilia bruciano e se ne parla poco. Fanno più notizia i reciproci insulti, le interminabili questioni tra i politici, le dichiarazioni di un Salvini, di un Grillo, di un Renzi. Ci si può accapigliare per bene, schierandosi a favore dell'uno o dell'altro, è quello che piace, è quello che tiene all'erta un po' tutti: oggi si litiga, oggi ci si azzanna, con buona pace di tutto il resto.
Ieri una (o più mani) ha distrutto il busto di Giovanni Falcone, allo Zen di Palermo, ha anche strappato un manifesto sul Giudice. La mano carnefice che vuole toglierlo di mezzo, anche da morto. I tg, com'è giusto, hanno dato ampio risalto al fatto. Io avrei messo insieme le due notizie: quella dello scempio dell'effigie di Falcone e quella degli incendi che stanno devastando la mia isola. Li avrei messi insieme perché una sola è la mano. Sempre quella. Vile, omertosa, feroce.

venerdì 7 luglio 2017

La cucina azzurra.

I cambiamenti spaventano sempre un poco. Siamo animali domestici, solitamente e solidamente legati alle abitudini, ai luoghi, alle facce che ogni giorno, per anni, ci sono stati accanto, spettatori delle nostre esistenze.
Siamo abitudinari, ci rassicura vedere lo stesso spicchio di cielo e la stessa angolazione in cui si mostra la luna; sappiamo che, a ogni partenza, c'è il ritorno allo spazio limitato che ci accoglie, una tana, un riparo dalle temperie e dalle tempeste.
Stanotte ho guardato il mio spicchio di cielo nero sopra le cime nere degli alberi, ho salutato quella luna che non vedrò più così, sarà diversa. Stanotte ho salutato le stanze quiete ormai, già da molto deserte, sono vuote orbite, non vedono niente, sono bocche mute, non parlano più. Stanotte ho salutato la cucina azzurra avvolta nel caldo, per sempre impregnata di un odore dolce di dolci biscotti sfornati in passato. Stanotte ho salutato i ricordi, tante memorie, felici infelici, mi sono venuti incontro ridendo e piangendo. Stanotte ho salutato persone che non vedrò più.
Poi sono caduta in un sonno strano, profondo e sereno. Nel sonno c'era la voce, la mia, che diceva "Non me ne andrò del tutto, una parte di me resterà qui con te".
Siamo animali domestici, i cambiamenti ci turbano. Ma la vita è correre avanti, la vita è qui ed è altrove. Basta accettarla.

Berthe Morisot "Interno al mattino" 1873?

venerdì 30 giugno 2017

L'ultimo giardino.

Stanotte ho sognato. Sogno spesso io, non rientro nella casistica che strombetta: "Con l'avanzare dell'età si sogna sempre meno." No, io continuo ad avere notti piene di vita, cariche di suoni e di colori. I miei sogni mi sono stati spesso d'aiuto, sono stati folgoranti, il mattino dopo sapevo cosa fare, come comportarmi anche in situazioni difficili. C'è sempre una parte vigile di me che li analizza, li scompone mentre dormo. C'è sempre una voce, e non è detto che sia la mia, che mi parla. Stanotte ho sognato le mie stagioni e l'ultimo giardino.


L'ultimo giardino.



Mi si scaraventa addosso la casa dei bambini
guizzanti pesciolini nelle stanze azzurre
fuori la gatta Isotta vuole il suo Tristano
nel terrazzo fiorisce una tenda di lana
tra i vasi d'oleandro, non mangiate le foglie
vi avveleneranno, c'è un bastone rotante
ed è un cavallo al galoppo nella sfera d'estate.
Mi si schianta il cuore e voi giocate ancora
nella casa altissima trascinata dal vento
e gli alberi trascolorano nelle stagioni
entrano rami enormi nelle stanze ora mute.
Una vertigine s'arrampica fin quassù
nella notte scura posso sentire il mare
e mi risucchia in un gorgo nero,
Ecco sono sola, la porta s'è richiusa.
L'alba schiude lo spiraglio del cielo
la casa sorride nella penombra soffice
silenziosa cammino scivolo nell'ignoto
scalza i sassi bianchi accarezzo, senza mare,
attraverso il cespuglio del plumbago fitto
annuso il gelsomino con la gatta rossa
è il giardino, l'ultimo giardino.


Claude Monet  "Giverny"  1902

lunedì 26 giugno 2017

La cortigiana.

Traendo spunto da un siparietto avvenuto l'altra sera in una trasmissione tv, dove uno dei tanti guru di cui la felix Italia gode il privilegio di avvalersi, il signor D'Agostino per l'esattezza; e traendo l'amaro fiele delle ultime consultazioni elettorali, anche se circoscritte a Comuni piccoli, piccolissimi e alcuni capoluoghi di Provincia, mi ballonzolano dentro alcune idee, in effetti vecchi convincimenti assurti a tali  un po' per esperienza diretta, un po' per l'osservazione incuriosita e disincantata delle mie genti.
Il Dago(spia) recitava pomposamente nasale la squisita e stracca banalità "la coerenza è sintomo di stupidità", asserendo tra uno scintillio di occhialoni nerd e una lisciatina alla barbetta caprina come il "tradimento" (politico come anche amoroso) sia un salutare indice di cambiamento, di rinnovamento. E citava, illuminante esempio, l'abbandono dell'amico d'antica data, fidatissimo ma ormai poco interessante, per l'amico nuovo, promettente simbolo di esperienze rigeneranti e, anche perché no, possibilmente di opportunità più lucrose, spiritualmente e materialmente. Ed effettivamente, a ben pensarci, è vero. Un  miserando esempio lo offrono i social, ormai nitido specchio della società. Le "amicizie" vanno e vengono come le frotte sui marciapiedi della Fifth Avenue, sbirciano la vetrina, irrompono, si trattengono e intrattengono. Finché  non incontrano una vetrina più abbagliante, davanti alla quale la calca sgomita per entrare. E così via, in un susseguirsi di faccine ridenti di cuori di stilnovistici commenti. Tra questi viandanti spiccano i cercatori veri, o più prosaicamente, i cani da usta: quelli che disdegnano l'insignificante merciaio ( la bottega è angusta e gode di poca luce) e si dirigono, con la lingua a strascico, verso le sfolgoranti vetrine dei più rinomati negozianti. E qui si comportano com'è d'obbligo, è gradito l'abito scuro e il linguaggio forbito, insomma applausi sapientemente elargiti e omaggi e inchini da perfetti lord e lady. Una bellezza (la parola bellezza è qui la più usata, anzi abusata).
La metafora della vetrina e della bottega mi è sta utile per descrivere l'opportunista dei social. Ed essendo i social, come già detto, lo specchio in cui ci specchiamo, credo di avere detto quello che penso circa il carattere - una buona fetta - di noi italiani. E allora Dago tornando al tuo elogio del tradimento, io lo definirei elogio dell'opporunismo. Più stupido e più pedissequo.
Il secondo spunto, quello che mi viene suggerito dalle elezioni, è equipollente, paritetico al primo. Gli italiani, anche in politica come nella quotidianità, sono impegnati nella spasmodica ricerca non della felicità ( sarebbe cosa buona e giusta) ma dell'opportunità "individuale" . E qui mi riallaccio all'ispirato Dago che, discettando di azzeramento delle ideologie, ne tesse l'apologo. E io non sono d'accordo che ciò sia un bene.  Quella  che, a pare mio, ne scaturisce è una visione ristretta, asfittica, svalorizzata della società. Una visione che ha perduto il senso del bene collettivo, a vantaggio del bene individuale. Ogni cittadino si limita a osservare l'angusto spazio in cui si nuove e vive, identificandosi esclusivamente con quelli con cui condivide uguali aspirazioni, paure, aspettative. E se il referente politico di turno è capace di giocare nel ruolo del "ghe pensi mi" ben venga, la vittoria è assicurata, il rinnovamento auspicato dal barbuto santone è in atto.  E gli altri?  Quelli che avrebbero potuto e dovuto lottare per i "valori", per una società inclusiva e più giusta? Quelli non ci sono più, dissolti in mille rivoli secchi, come i ruscelli melmosi di questa torrida  estate.
Torneremo al Benefattore. Ovvero al Padre, al buon Padrone che promette di tenere a bada le paure e le ansie, che promette di dare perché è ricco e potente; il Signore alla cui corte approssimarsi con animo reverente e lamentosa voce, certi che l'untuosità dei gesti e delle parole compiano il miracolo atteso: siamo compiacenti, siamo sottomessi e confidiamo in te,  fai di noi ciò che ti pare, ma offrici riparo e protezione. E se puoi illudici di essere con te, alla tua mensa.
Figli orfani? Cortigiani per indole e storia? Non lo so, non ho né il talento, né le capacità, né il tempo e la voglia per appurarlo.
Non mi resta che ripetere tra me e me alcuni versi di Dante, mestamente.
Non mi resta altro, se non pensare a una cortigiana. Sì, l'Italia è una puttana.


Michelangelo Merisi di Caravaggio  "Ritratto di cortigiana"  1597

venerdì 23 giugno 2017

Anche mia, la colpa.

Gli eventi climatici di questa estate ancora in fasce, lo spaventoso rogo delle foreste in Portogallo di cui conservo una fugace visione di verde-argento mentre sette anni fa percorrevamo in auto la strada che porta da Lisbona a Coimbra; e le gravi condizioni di siccità di alcune regioni in Italia e ancora l'infuocato alito che soffoca, anzitempo, le città da nord a sud, mi sospinge all'amarezza. All'amara presa di coscienza che abbiamo sbagliato tutti. Abbagliati e imbrigliati dal feticcio adescatore di un consumo sregolato. Non sono qui a negare la necessaria tendenza delle società a consumare, è proporzionale alla crescita economica e anche ai desideri legittimi dell'individuo.  Il consumo di cose è intrinseco alla natura umana, l'uomo ha sempre voluto e cercato di ottenere oggetti, il mondo latino esigeva la porpora per le tuniche e saccheggiò il Mediterraneo; nel Medioevo piacquero la seta e le spezie  d'Oriente e si allestirono spedizioni; e l'oro e i diamanti, sporcati di sangue; e poi l'oro nero che permetteva di affrancarsi dal giogo dell'aratro e rendeva tutto più vicino, tutto a portata di mano.  No, non è di questo che parlo e a cui penso, o meglio tutto ebbe inizio da quei desideri, da quelle opportunità meravigliosamente appaganti, meravigliosamente  ( in quanto degne di meraviglia) e qualche volta giustamente cercate e ottenute. Crescevano i consumi e si depauperava la Terra, un'equazione incontrovertibile e tragica. Ma della lenta tragedia non ci accorgevamo, presi dalla spasmodica frenesia.
E poi venne il giorno in cui ci risvegliammo, forse non tutti insieme, tramortiti dal lungo sonno delle nostre coscienze.   Ci rendemmo conto che il sole arroventava di più le nostre città; che i fiumi non gorgogliavano più alle sorgenti perché i ghiacciai andavano scomparendo; che le piogge primaverili e autunnali erano lancinanti bolle d'acqua che distruggevano i raccolti; che i deserti si mangiavano territori verdi; che gli oceani minacciavano di sommergere atolli e anche coste; che le sterminate foreste pluviali del pianeta erano state sterminate, in gran parte, dalle multinazionali per i loro traffici in piantagioni di prodotti alimentari; perché consumavamo, consumavamo sempre di più. E consumavamo la Terra, che è la madre, mi si passi la retorica, di tutti noi. Senza di lei siamo lattanti senza mammella, orfani destinati a morire.
Io che ho ricordi di molte e molte stagioni, conosco l'odore del mare che si insinua per le strade sorretto dal vento fresco in estate; conosco il profumo dei giardini che cingevano la città, limoni e aranci fioriti di zagara; conosco l'azzurro intenso del cielo, che oggi si è stinto ed è un sudario biancastro. Io conosco tutto questo e l'ho buttato via. I ragazzi e i bambini di oggi non potranno, forse, recuperarlo ed è la mia colpa.


Giuseppe Arcimboldo "Estate"  1563 ca.

sabato 17 giugno 2017

Ancora, per qualche tempo.

Ritorno sul tema dell'amicizia spronata da un episodio di breve durata, ma per me importante.
Quando mi accostai all'uso dei social, di Facebook in particolare, ero riluttante, agitata da una timidezza inconsueta. Avevo molti dubbi (alcuni li conservo anche adesso), ero incerta circa l'utilizzo e l'utilità del mezzo. Fu un lancio senza paracadute, come per i più penso, un volo cieco, Iniziai con estrema cautela, assentandomi per periodi più o meno lunghi, lo studiavo, si potrebbe dire che, come una sarta, gli prendevo le misure, scorciavo e allargavo. Leggevo tutto e tutto mi interessava e tutto mi annoiava. Poi cominciarono gli incontri con gli altri, i primi  - alcuni si sono perduti per strada e ancora ne provo rammarico, hanno trovato il coraggio (si può chiamare così?) di allontanarsi - e tra i primi uno mi catturò presto. Una mia coetanea, milanese di adozione ma siciliana per nascita, e di lì a breve anche la sorella.  Entrambe dotate di quella dote, oggi assai rara e preziosa, che è una squisita riservatezza e che si accompagna a una profonda umanità e onesta schiettezza. Doti in via di estinzione, ormai, ancor più nell'illusorio mondo del web. Con il trascorrere degli anni, la mia amica si è defilata, stanca, come mi ha detto, della cattiveria, della ferocia che imbratta i social. Una mancanza che avevo avvertito e che mi turbava, perché, avendo imparato a conoscerla e a stimarla,  intuivo  e condividevo quelle sue ragioni di fastidio, di malessere. Ci siamo riacchiappate in occasione del suo compleanno e mi sono rituffata in quelle acque chiare, rigeneranti.  I ricordi, il mio perenne saltare all'indietro.
E non è solo per la ferocia che ha stremato la mia amica non è solo per quella che avverto, ogni giorno più schiacciante, il tedio spossante del web. Vi aggiungo anche un'ipocrisia sorridente, un'indifferenza, a tratti ostile, che mal sopporta, mal si maschera sotto le vesti lise della cortesia, del bon ton. Di una finta mitezza.
Con le mie due amiche che non ho mai visto e che mi auguro di abbracciare presto, ho spartito tanta parte di me, un recente passato di sogni e speranza, di timori e collere. E le ringrazio ancora e ancora per avermi letta, sempre, per avere letto di Tilde e Ada, e delle favole della vita che mi era di diletto raccontare; le ringrazio per avermi rincuorata e sostenuta. Sempre, con quell'elegante riserbo, con quella lealtà pulita d'ogni futile orpello che le contraddistingue.
Credo di avere spiegato uno dei motivi per i quali vale la pena, ancora per qualche tempo, di starmene qui seduta, fingendo che anche questa sia vita. E forse così, un poco lo diventa.


Henri Matisse  "Interno a Nizza"  1920

domenica 11 giugno 2017

Ghiaccio e calore.

Mi domando se sia più lancinante la gelosia oppure l'invidia. E riflettendoci credo che l'una non possa fare a meno dell'altra, sono interconnesse, si intrecciano e si strangolano vicendevolmente. Fino a soffocare ogni rapporto umano, d'amore e d'amicizia.
Mi è capitato di scorgerlo il bagliore dell'invidia (si dice che sia verde) no, non ho fatto caso se avesse un colore, era piuttosto un graffio di luce fredda negli occhi. E di solito si propagava alle corde vocali, strizzandole in tremito velato d'ira. L'invidia è spesso compagna dell'ira. Anch'essa tagliente punteruolo di ghiaccio, teso a scalfire, a lacerare l'oggetto di tanto malessere. Sì, certamente chi soggiace all'invidia, soffre e soffre le pene dell'inferno. L'invidioso vorrebbe invadere il territorio che gli si profila davanti, attraente, misterioso, sconosciuto. Vorrebbe afferrarlo e farlo suo.
La gelosia è, al contrario, calda. Se dobbiamo assegnarle un colore, pensiamo al rosso. Viscerale, pulsante. Carnale. Anche in questo sentire di fiamme, c'è la volontà del possesso, della padronanza. E, spesso, si accosta all'amore, deturpandone l'immagine, con un'ombra scura e rossastra che ne altera la forma, i contorni.
Io  che amo la concretezza anche quando la mia bella fetta di cervello visionaria prende il volo, penso a questi due irrinunciabili e antichissimi sentimenti ( homo sapiens e da allora è stata guerra per possedere e per togliere), li penso come se fossero un'entità unica, fatta di spirito gelido  (invidia) e di carne bollente (gelosia). E, ridendo e ripensando a quello che facciamo, a quello che vorremmo essere, a quello che cerchiamo di avere oppure, più banalmente, ai nostri rapporti con gli altri, mi convinco che si debba tenere sempre sott'occhio quest'intrusiva essenza, questo folletto bicolore. E che il ghiaccio non ci condanni all'ibernazione; né che il rovente calore  possa scioglierci.


Pablo Picasso "Ragazza davanti allo specchio"  1932 ca.

Lettori fissi