venerdì 23 giugno 2017

Anche mia, la colpa.

Gli eventi climatici di questa estate ancora in fasce, lo spaventoso rogo delle foreste in Portogallo di cui conservo una fugace visione di verde-argento mentre sette anni fa percorrevamo in auto la strada che porta da Lisbona a Coimbra; e le gravi condizioni di siccità di alcune regioni in Italia e ancora l'infuocato alito che soffoca, anzitempo, le città da nord a sud, mi sospinge all'amarezza. All'amara presa di coscienza che abbiamo sbagliato tutti. Abbagliati e imbrigliati dal feticcio adescatore di un consumo sregolato. Non sono qui a negare la necessaria tendenza delle società a consumare, è proporzionale alla crescita economica e anche ai desideri legittimi dell'individuo.  Il consumo di cose è intrinseco alla natura umana, l'uomo ha sempre voluto e cercato di ottenere oggetti, il mondo latino esigeva la porpora per le tuniche e saccheggiò il Mediterraneo; nel Medioevo piacquero la seta e le spezie  d'Oriente e si allestirono spedizioni; e l'oro e i diamanti, sporcati di sangue; e poi l'oro nero che permetteva di affrancarsi dal giogo dell'aratro e rendeva tutto più vicino, tutto a portata di mano.  No, non è di questo che parlo e a cui penso, o meglio tutto ebbe inizio da quei desideri, da quelle opportunità meravigliosamente appaganti, meravigliosamente  ( in quanto degne di meraviglia) e qualche volta giustamente cercate e ottenute. Crescevano i consumi e si depauperava la Terra, un'equazione incontrovertibile e tragica. Ma della lenta tragedia non ci accorgevamo, presi dalla spasmodica frenesia.
E poi venne il giorno in cui ci risvegliammo, forse non tutti insieme, tramortiti dal lungo sonno delle nostre coscienze.   Ci rendemmo conto che il sole arroventava di più le nostre città; che i fiumi non gorgogliavano più alle sorgenti perché i ghiacciai andavano scomparendo; che le piogge primaverili e autunnali erano lancinanti bolle d'acqua che distruggevano i raccolti; che i deserti si mangiavano territori verdi; che gli oceani minacciavano di sommergere atolli e anche coste; che le sterminate foreste pluviali del pianeta erano state sterminate, in gran parte, dalle multinazionali per i loro traffici in piantagioni di prodotti alimentari; perché consumavamo, consumavamo sempre di più. E consumavamo la Terra, che è la madre, mi si passi la retorica, di tutti noi. Senza di lei siamo lattanti senza mammella, orfani destinati a morire.
Io che ho ricordi di molte e molte stagioni, conosco l'odore del mare che si insinua per le strade sorretto dal vento fresco in estate; conosco il profumo dei giardini che cingevano la città, limoni e aranci fioriti di zagara; conosco l'azzurro intenso del cielo, che oggi si è stinto ed è un sudario biancastro. Io conosco tutto questo e l'ho buttato via. I ragazzi e i bambini di oggi non potranno, forse, recuperarlo ed è la mia colpa.


Giuseppe Arcimboldo "Estate"  1563 ca.

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