lunedì 28 settembre 2015

Una sola stella.

A tutti noi capita di sperare in qualcosa. Chi di noi non ha mai alzato gli occhi verso il cielo? Credo che, per ognuno di noi, ci sia una stella, sconosciuta agli altri, solo nostra.


Una sola stella.


Se avessi un telescopio lo fisserei su di te
Piccola stella orfana di celesti genitori,
ignoto punto senza corona della scienza.
Pulsi diamante di luce nel buio, mi perfori
Col tuo esile raggio invisibile, se non a me,
se non ai miei occhi brancolanti ubriachi.
Scendi giù, afferrami nel cerchio azzurro
Innalzami alle sospirate vertigini dell’oblio
Fammi correre sulla tua scia di materno latte.
Bussano alla mia porta i volti gai dell’amore
Preziosi doni recano, preziosi ai nostri cuori
Di  spine cinti, dormono della cattiva  fata il sonno.
Nelle generose mani ti stringono, sei proprio tu
La solitaria stella orfana di celesti genitori
Cade sui nostri occhi il tuo raggio, dal sonno ci ridesta.



mercoledì 23 settembre 2015

Empireo e Malebolge.

C'è una stanchezza di penna tra gli intellettuali. Oggi, meglio, di dita, ché la tastiera del pc ha detronizzato l'antico uso del calamo e della biro. Non si sprecano troppo in parole, non si battono dalle pagine, fitte di pensieri, per una nobile causa, non si arrovellano per la salvezza dei cuori e delle menti. Tacciono. Tutt'al più, rilasciano brevi commenti, fiacchi segnali di fumo che il vento raccoglie in fretta e in fretta disperde. Sonnecchiano, apaticamente sfibrati dalla generale apatia, il male chiaro del nuovo millennio. Tacciono sulle male sorti dell'umanità, sulle guerre e sulle migrazioni; sulle vite precarie dei giovani e sulle violenze del potere che, spudoratamente, esercita nei confronti di milioni di ragazzi e ragazze spogliati del futuro, se non quello offerto dalla misericordia degli affetti.
Ma non sempre tacciono, questi stanchi cultori della bellezza e delle arti, a tutto tondo. Si ridestano dal loro sonno senza incubi, atarassico, allorquando si profila sulla linea dell'orizzonte, una qualche opportunità di sfogo, di sbocco. E sboccano, impetuosi come torrenti dalle montane sorgenti, percorrendo allegramente enfi, i tortuosi passi e le gole oscure. Cantano con garrule voci di trascorse letture, di libri ignoti a molti, di estatiche ed estetiche visioni, solo a loro apparse e solo a loro intelligibili. Che altisonanti voci si rincorrono per l'etere, che magnifiche gesta si compiono allora! Un fremito percorre chi li legge, un senso di umile e consapevole ignoranza ottenebra le menti dei tamnti seguaci. E ancora cala il silenzio, tacciono, ascoltando gli echi delle loro parole, sonanti per qualche giorno o qualche ora nei vasti cieli che li sovrastano. Fino al prossimo risveglio, fino alla prossima lettura, fino al prossimo libro o scrittore da innalzare verso l'Empireo o schiacciare giù nelle Malebolge infernali.

 Hieronymus Bosch, "Il Giardino delle Delizie"  1480 - 1490

venerdì 18 settembre 2015

Vincitori o vinti?

Una cosa è certa: non torneremo più indietro, non saremo più quelli di prima. Con le nostre certezze obsolete e sfrangiate come vecchie coperte che non danno più calore. Non saremo più quelli, con le nostre consolidate abitudini alla mediocrità di un'esistenza racchiusa in angusti confini fisici e mentali; non saremo più quelli, sballottata dalle crisi finanziarie che altri vogliono e decidono, ma sempre pervicacemente aggrappati ai forzieri dei Paperoni che  li custodiscono; non saremo più quelli, con le nostre case nido, dove covare segrete rabbie e perenni affetti, chiusi a ogni grido, a ogni richiamo che non sia il nostro.
Una massa preme, una valanga rotola precipitosa verso di noi, incontro alle nostre ordinate e quiete vite. Sono uomini e donne e bambini che fuggono per mare e per terra, vogliono la salvezza, vogliono la vita. Precipitano sopra di noi, penetrano nelle nostre case dai monitor e dagli schermi, con i loro volti affannati e affamati, con le loro grida di dolore. Il dolore, una parola che sempre cerchiamo di tenere lontana da noi, che conosciamo bene però nelle esperienze più intime e laceranti della nostra vita; il dolore, in questi tempi dissennati, è diventato universale, e ci coglie sprovveduti e sgomenti. Non basteranno muri di filo spinato, non basteranno trincee, né polizie, né nuovi lager. Non sono stati sufficienti in passato, quando altre maledette follie hanno tentato di metterlo a tacere, il dolore. Di questo dobbiamo, tutti su questa Terra macinata dai piedi scalzi di milioni di reietti, prendere coscienza. Altrimenti, il dolore e la sofferenza prevarranno e ne saremo prevaricati, tutti. Non ci saranno vincitori allora, saremo tutti vinti.

lunedì 14 settembre 2015

Le città della mente.

Che sia di pietra nera. Che sia candida come colomba. Che sia grigia come acqua sporca. Che sia vivace come una danza. Tutte le città diventano luoghi della mente, puntini lucenti che interrompono l'oscurità.




C'è la città acquattata nella pianura,
come fiera nella savana, fiera non è più
dei suoi ornamenti neri di roccia effusa
dal vulcano spinto sul mare di antiche genti.
C'è la città di pietra bianca, giardino gentile
di nobiltà e chiesa, chiusa nel caldo estivo
di ulivi e carrubi aggrappata alle radici,
il mare, sempre il mare, l'inquieta con il vento.
C'è la città fumante di nebbia e umidi fiati
verde nei parchi, parca nelle parole
smarrisce nel fiume torbido rifiuti e sogni
avvolti in bandiere, variopinti sudari.
C'è la città festosa, grida allegria abbracciata
dalla gente nel viale largo che scende al mare.
il mare sempre, gioca col drago di cartapesta
incontrato per caso, in un giorno di festa.
Sono le città sante della mia mente vagante
sul filo teso dal destino che non osserva regole
che gioca sporco sul campo del mio cuore,
avvezzo ormai a tutti i tiri in porta, che non sa parare.


Fernand Léger Animated Landscape, 1924 olio su tela cm

Fernand Léger  "Paesaggio animato" 1924
Fernand Léger Animated Landscape, 1924 olio su tela cm

mercoledì 9 settembre 2015

Le cattive ragazze.

Ho imparato, in questa lunghissima estate, un'ultima lezione. Spero che sia l'ultima perché, alla fine del percorso, i piedi sono doloranti, il respiro s'accorcia e la mente vacilla. Una lezione che conoscevo, un ripasso di studi già fatti e assorbiti dalla porosa spugna che è la coscienza. Ed è una lezione facile da apprendere, ma difficile, urticante, tossica, da digerire.
Siamo a settembre dell'anno 2015. Il mondo intero crolla sotto i machete di infinite oscenità, miserie e guerre, barbarie venute dall'inferno medievale, umanità depredata di ogni cosa. Siamo nel 2015, l'anno violento dell'uomo. Antiche città scomparse, deserti navigati da fantocci neri e folli, uomini, donne e bambini alle nostre porte, la nuova Corte dei Miracoli che non vorremmo vedere, che vorremmo rigettare nel mare dell'oblio.
E in questo agitarsi di vecchi spettri, indisturbata, invisibile ai più, prende forma, l'astuta mezzana che, si credeva, sotterrata da un pezzo. La misoginia. Niente di spettacolare, a parte qualche stupro qua e là, a parte le  tribali sofferenze inflitte da luttuosi banditi, nel nome dissacrato della religione islamica; niente di particolare, dunque, solo il lento strisciare del veleno, al quale pensavamo di esserci, noi donne, mitridatizzate. E invece, eccolo, tossico e amaro.
Sempre quello, sempre attivo nel suo principio : la donna deve comportarsi in modo adeguato; la donna deve assumere certi comportamenti che non contrastino con le regole sociali vigenti; la donna, in poche parole, deve seguire un comportamento degno!  Pena l'emarginazione, come minimo. Il severo fremito delle narici sdegnate, l'indifferenza ostentata, le labbra strette come il culo di una gallina, saranno i segnali che ti avvertiranno, donna, della tua riprovevole condotta. Quando, non saranno più espliciti i commenti, lanciati come sassi a lapidare; o il frusciare torbido delle parole da comari in trasferta nei pub. L'uomo è uomo e, per sua stessa natura e inclinazione, è portato a trasgredire. Lo può fare, gli è concesso. Magari, una reprimenda, magari una scrollatina di testa, in segno di disapprovazione, ma con il mezzo sorriso e l'occhio divertito.
In questa lunga, terribile estate, questa è la lezione che ho ripreso a studiare, voglio ripeterla e ripeterla a me stessa. Per corazzarmi, per tapparmi le orecchie dagli spifferi. per cucirmi la bocca con filo spinato. Così da non poter ascoltare e parlare perché distruggerei ponti e fortezze. Aspetterò seduta, aspetterò calma, al tavolo di un bar. Seduta a sorseggiare un caffè in compagnia delle cattive ragazze.

Antonio Tanburro (1948-)   "Ragazze al caffè"

sabato 5 settembre 2015

Le onde bussano.

Il bambino spiaggiato. Lo ha definito così, con dolente similitudine, un amico sul web. E questa parole sono ferite sanguinanti, perché gettano un fascio accecante di luce su tutti noi. Quanti di noi, in questi anni, si sono riempiti le viscere e la bocca di sdegno nel vedere le immagini di cetacei spiaggiati sulle nostre coste felici o altrove? Quanti di noi hanno aderito alle campagne delle associazioni animaliste per salvaguardare questi nobili esemplari della fauna marina dagli arpioni e dalle reti di banditi del mare? Tanti, tantissimi. Il coro delle grida di collera spingeva le navi di Greenpeace, imprimendogli la rotta. Ed era ed è un bene comune il mare, sono una riserva di tesori gli oceani e tali devono restare.
Alcuni giorni fa, su una spiaggia della Turchia, è affiorato nell'incessante moto ondoso, il corpo di un bambino.  Si chiamava Aylan e aveva tre anni. Non più un cucciolo di delfino o di balena, ma un cucciolo dell'uomo. Spiaggiato lì, nell'immensa solitudine del suo essere inerme, nella solitudine generata dall'indifferenza antica verso chi soffre.
La visione di quel piccolo corpo senza vita ha squassato il silenzio, ha provocato smarrimento e indignazione, ha costretto molti di noi a vedere, con i propri occhi, l'orrore. Perché la morte di un bambino è sempre un orrore, un atto immorale, un evento immorale.
Non voglio soffermarmi su coloro, parecchi, che hanno diffusamente scritto sulla necessità di pubblicare le immagini del bimbo. Lotte vane, discussioni fini a se stesse, pareri discordanti che nulla di sensato aggiungono al fatto, e nulla sottraggono alla tragedia. Anzi, tutto questo inutile chiacchiericcio sull"opportunità" di publicazione, non ha fatto altro che spostare l'obiettivo , il focus, quasi fosse più importante discettare di etica giornalistica, di scandaloso scoop. E intanto si perdeva di vista quel corpo, quel bambino. Io sono tra quelli che non hanno pubblicato la foto, ma umilmente non mi arrogo il diritto di giudicare chi lo ha fatto. E come molti altri, ho provato sgomento, rabbia, strazio; e soprattutto vergogna. Ho vergogna di essere qui, seduta a scriverne, protetta dagli affetti, coinvolta dai problemi quotidiani, a volte stanca e delusa. Le spiagge dove si infrangono i marosi, portando il loro carico di morte, sono lontane. Così parrebbe. Ma non è la realtà, so che quelle onde  bussano alla mia porta, alle nostre case e saremo costretti a sentirne lo scardinante fragore. Bisognerà dare loro quiete, bisognerà accoglierle. Bisognerà non abbandonare il bimbo spiaggiato a un'estrema, atroce solitudine.


Joaquín Sorolla (1863-1923) Ninos en la playa  1910

martedì 1 settembre 2015

No, di certo no.

Ho letto un breve articolo di Pino Corrias nel blog che tiene su Il Fatto.it, articolo che analizza, in parte, l'uso smodato che, sul pianeta, si fa dei social. In particolare l'autore si riferisce a Facebook. Corrias lamenta, in sintesi, il rischio, se non l'effettiva esistenza, di cadere nelle maglie pericolose dell'omologazione, della perdita di senso critico, Facebook come un calderone dentro al quale si intrecciano contatti, si discute, con il solo scopo di dialogare con se stessi. Tutti finiscono, secondo il giornalista, per parlarsi addosso guardandosi in un immenso, sconfinato specchio che riflette l'immagine di milioni e milioni di solitudini.
Denuncia anche, l'utilizzo ossessivo compulsivo, a tratti volgare, degli smartphone, smanettati in qualunque situazione, in solitaria o in compagnia, poco importa. E non nascondo di avere apprezzato queste osservazioni, noto anche io, con rammarico, un abuso del suddetto attrezzo. What's app domina incontrastato sul dialogo a quattr'occhi, sul rapporto tete à tete. spingendo tutti gli ingobbiti adolescenti, signori incravattati e signore dai capelli argentei, all'isolamento dalla realtà circostante. E la ragazza
che, fino a qualche anno fa, leggeva il suo bel libro in treno o sulla metro, 
è scomparsa, dice.
Ora, non voglio prendere le difese dei social, no. Spesso vengono utilizzati malissimo, diventano il ricettacolo di insulti, pettegolezzo, foto e video al limite del buon gusto: i selfie di virgulti in posa con muscoli vari in tensione o di fanciulle (e neanche poi tanto) con le poppe prorompenti e seminude, sono ormai una costante; come quelli di viaggi esoticissimi, di cene esclusivissime: o peggio, i resoconti di amori - parola inflazionata - perfettissimi e irripetibilissimi, anche il suffisso -issimo è una costante, ormai. Ma, a fronte di questi atteggiamenti, a dir poco stravaganti, c'è una moltitudine, molto vasta, di persone che affidano al social prescelto, momenti di solitudine, di fragilità emozionale; oppure ne fanno un alleato per parlare di un libro o di tanti libri; di cinema, di musica, di arte, di ambiente, di società, di politica. Ed è forse un male questo? Non credo. O almeno, bisogna vedere come lo si fa, come ci si accosta al tema, come si cerca il confronto con gli altri. Ed è un misfatto imperdonabile provare solitudine, in certi momenti della propria vita? Non credo, anzi. Sono una sostenitrice della solitudine, non come chiusura agli altri, ma come momento di riflessione, di analisi.
Corrias si dispiace perché il tempo non venga impiegato a leggere i libri, la cara, vecchia carta stampata che anche io tanto amo, e anche qui mi trovo d'accordo con lui. Ma l'una cosa non esclude l'altra, possono convivere, allegramente e felicemente, insieme.
Un'ultima riflessione, pepatina. Ma chi lo ha detto, chi può decidere per noi, quando, dove e come dobbiamo essere presenti? Quando ci è concessa la parola?
Mon Dieu, la concediamo, ogni giorno, a tanti, uomini e donne, che ne fanno spesso un uso improprio, grammaticalmente, sintatticamente, oltre che politicamente. Si vorrebbe toglierla ai comuni mortali, forse? No, di certo no.

Mario Sironi-Sarabanda finale-Il Montello-15 Ottobre 1918

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