lunedì 28 dicembre 2015

Che sia vita.

 Allora, mancano pochi giorni e anche questo anno andrà al macero. Gli anni brutti, planetariamente orribili, dovrebbero finire così, nell’acido a liquefarsi. E invece finirà nelle pagine dei testi di storia, verrà reso immortale proprio dalla Morte che lo ha contrassegnato, mese dopo mese. Nessuno di noi, anche volendo, potrà riporlo assieme al calendario vecchio, nessuno di noi potrà dimenticare le stragi in mare di uomini, donne e bambini; nessuno di noi potrà dimenticare il crudele snocciolare dei notiziari che ci hanno tenuti incollati davanti alle tv, ai pc, per aggiornarci sui numeri, sui cadaveri di innocenti negli attentati, di innocenti nell’infinita guerra mediorientale. Uno stillicidio al quale ci siamo, alla fine, assuefatti, forse è questo sentimento di apatica assuefazione, il reale orrore delle guerre e delle stragi. Alla fine stai lì ad aspettare l’entità del danno, a confrontarla con quelle precedenti, a catalogarla, Un lavoro da becchini, in un certo senso o da epidemiologi, ai tempi delle pestilenze antiche e moderne. Il 2015 scompare e, ci scommetto, anche in questa prossima notte, si dileguerà accompagnato da botti, petardi, razzi colorati, grida di speranza e di benvenuto per quello che ne prenderà il posto. Dalla mia terrazza vedrò, come tutti gli anni, incendiarsi la città e mi sembrerà di essere a Beirut o a Damasco, sapendo che è solo un inganno fortunato, perché non ci saranno cecchini appostati né missili, né intelligenti bombe. Ci saranno solo i soliti cretini, i casalinghi guerrieri, a sfogare la loro rabbiosa speranza di ucciderlo l’anno e omaggiare l’altro.

Io, come sempre, come ogni 31 dicembre, non mi aspetterò alcunché, il tempo gioca con la vita come vuole. Mi metterò a guardare il cielo e lascerò salire i miei pensieri e tornerò indietro e rivedrò volti e riascolterò parole. Poi brinderò con chi mi sarà accanto, ma non all’anno nuovo, brinderò con vino rosso alla vita perché sia lei ad allacciare il tempo. Che sia buona vita per tutti, che sia vita, in questo 2016.

Sandro Botticelli "Nascita di Venere"  1482 - 1485 ca.

lunedì 21 dicembre 2015

Corriamo, corriamo!

Ci siamo. L’orologio ha accelerato le lancette, scattano frenetiche sul quadrante e ci dicono che il traguardo è vicino. Il Natale, come un esattore pignolo, si ripresenta alla nostra porta, vuole incassare il dovuto. Vuole incassare il debito che abbiamo accumulato lungo tutto l’anno e così ci presenta il conto, Una lunga lista di omissioni, telefonate non fatte a chi, magari, se l’aspettava; una scappatina da chi sapevamo essere solo; un abbraccio frettoloso a un altro, bisognoso d’un gesto fraterno; e poi i pensieri negati per chi sta peggio di noi; e le parole d’affetto, non dette, le nostre bocche cucite per pigrizia, per apatica rassegnazione. E in cambio, il Natale, ci sottopone un cesto colmo di ricordi, e non sempre è un dono indolore. Affiorano volti e suoni che credevamo svaniti, che avevamo occultati sotto una spessa coperta di indifferenza o di salutare oblio.
In questo caos d’emozioni, di tempeste interiori (che vorremmo si quietassero, che vorremmo disperdere), si profilano,, invincibili alfieri, suonatori di trombe, sventolatori di sacri vessilli, le impellenze obbligate della Festa. E nonostante tutto, nonostante che la Terra tremi in preda a sofferenze e atrocità, nonostante lo sgomento, nonostante le innumerevoli immagini di delirio planetario, nonostante tutto ciò, noi corriamo, corriamo verso la Festa. Tra alberi che non profumano di resina, tra cumuli di carta e plastica, tra montagne di cibo che faticheremo a smaltire, corriamo, formiche impazzite a riempire la tana. Ma la tana è casa, l’ultimo approdo certo e lo stridore del mondo vi s’infrange contro. Non penetra le stanze, non scardina le porte, non spezza la quiete di un giorno. Resta sospeso al di fuori, per una notte e per un giorno, sconfitto dall’illusoria bellezza di sentirsi al riparo.

Non ci saranno convulse resse d’abbracci
né banchetti assiepati di volti
i volti amati sono in cornici appese
al cuore dell’albero sprizzano  luce
Non ci saranno canzoni e campane
le renne sono nella stalla ormai
con le zampe spezzate del carillon
di voi figli bambini con i piedi scalzi
e gli occhi d’innocui felini sonnacchiosi,
 incollati al vetro della porta, antro della magia
tra i guizzanti ceppi nel camino,
a scrutare le rosse ombre della vigilia.
Non ci saranno giochi al tavolo unto di dolci
né bellicose tenzoni e caroselli saettanti
nel turbinare di augurali promesse.
Sarà il Natale quieto della nostra vita
sarà il Natale delle mani aperte, aperte a noi
come colombe di pace sulla capanna antica
sarà il Natale gentile delle parole,
faville crepitanti a sciogliere il silenzio.
Dal cielo cadranno forse le stelle sopra  noi.



Foto di Meyer Liebowitz  N.Y. Times 1959


martedì 15 dicembre 2015

Chapeau!

Si torna sempre sul luogo del proprio misfatto, così recita la vulgata della cronaca nera. E io sono tornata, ancora una volta, sui luoghi del mio delitto, che è un romanzo rimasto, come altri, nello scaffale fisico della mia libreria e in quello immateriale del mio cuore.
La storia è lineare, tutta in verticale però. Molti anni or sono, per una casualità di cui non ho memoria, mi ritrovai con alcuni amici in un borgo arroccato sui monti Iblei: Buscemi. Si era in estate ed eravamo venuti su dal mare, probabilmente accaldati e stanchi, con poca voglia di girare per le stradine sconnesse che scendevano e salivano, costeggiando le case malmesse, in evidente stato di abbandono. Eppure, c’era un silenzio profumato di erbe selvatiche, una quiete remota che mi turbarono. Forse l’emozione fu dovuta all’improvvisa estraneità dall’esacerbante frenesia della spiaggia e della folla chiassosa che vi si rotola, beatamente disinibita, non lo so. Ma provavo un benessere accogliente, come un reduce che ritorna alla pace del proprio nucleo d’affetti. Parecchi anni dopo, tornai di proposito e decisa a conoscerlo meglio, quell’eremo silenzioso. E ne fui ancora più incantata: era un giorno di novembre con tutti i requisiti di questo mese, nebbiolina, pioggia sottile e intermittente, cielo cinerino, a tratti squarciato da una sottile lama di sole. La chiesa barocca dominava la piccola piazza con le sue volute in pietra color ocra chiara, le case all’intorno recavano i segni di una vetusta e trascurata bellezza. Visitammo le case museo, case quasi scavate nella pietra, dove avevano vissuto contadini e pastori, in dignitosa e operosa povertà. Anche in quella domenica di novembre il silenzio del borgo mi afferrò, un giovane che si era prestato, gentilmente, a farci da guida, ci disse che ormai gli abitanti erano non più di settecento. Il selciato a lastre  scomposte, tra le pietre l’erba ingialliva sotto le sferzate delle prime gelate, ci portava su e poi giù, e noi inerpicandoci  verso l’alto e dopo slittando verso la valle, ci guardavamo intorno senza fiatare.
Alcuni anni dopo trasposi l’immagine di Buscemi nel mio libro, trasfigurandolo con la fantasia e divenne Geodoro.
Ci sono tornata ancora, pochissimi giorni fa e non ho trovato più Buscemi, Geodoro è scomparso per sempre. Al suo posto, i miei occhi stupefatti e tristi, hanno visto palazzi dalle facciate dipinte d’un verde squillante o di un rosa maitresse; le antiche case hanno perduto la dignità dei loro infissi scardinati, per acquisire la volgarità degli inesorabili infissi in alluminio; la bella chiesa barocca c'è sempre, almeno quella è intatta, ma dietro occhieggia, come un fungo maligno, un caseggiato verdognolo. Il silenzio resiste, interrotto dal ronzare di qualche veicolo; ma non profuma di erbe selvatiche, ha l’odore  che si riversa da due o tre bar con le insegne al neon  blu viola e rosso, che snocciolano le specialità in inglese, ovviamente. Come se ci trovassimo a Soho.

Ho deciso di scrivere al Sindaco, mi sono procurata tutto l’occorrente. Voglio complimentarmi con lui per avere distrutto una mia visionaria e delirante fantasia. Sì, gli dirò che Buscemi – Geodoro non esiste più. Al suo posto resta, però, qualcosa: l’oro (sono stata Cassandra?) degli infissi, dei portoni, dei cancelli, in alluminio anodizzato, che si riverbererà, in eterno sulle vallate circostanti. Chapeau, signor sindaco!

Gustave Courbet  "Il disperato" autoritratto  -  1844

giovedì 10 dicembre 2015

Giorni di misericordia.

Certo, i giorni sono contrassegnati dall’euforia delle feste. Così pareva che fosse negli anni passati, un’ascesa verticale verso la stella puntata sulla cima dell’albero e di sotto, alle radici finte se ne stavano accatastati i pacchi strenna. Si viveva con la testa nascosta tra i peli candidi della barba di un Babbo Natale tanto fasullo quanto osannato e chiassosamente cercato. Poi sono arrivati scoppi che non sono di petardi e sono proprio accanto a noi, ci sfiorano quasi, perché anche se già c’erano, erano distanti e non riuscivano a scalfire le barriere di ghirlande e festoni luccicanti, c’eravamo trincerati, con zelante affanno a tenere fuori tutto il resto. Poi è arrivato il mare carico di morti, di bambini morti e non erano bambole e pupazzi rotti dai giochi violenti dei nostri bambini. Poi sono venuti allo scoperto i ragazzi, a migliaia, ogni sera puntualmente, a raccontarci i numeri della loro disperante solitudine e indegnità, i ragazzi che ciondolano in ciabatte per casa aspettando una mail, una telefonata che ritarderà, forse all’infinito. I ragazzi che escono, di sera, con i pochi soldi in tasca frutto di lavoretti precari o di striminzite e dolenti elargizioni dei genitori, e se ne stanno a raccontarsi le loro vite, gli occhi accesi di vino e di sogni che non vogliono evaporare nell’alcol. I ragazzi che rientrano a casa e si ficcano a letto, stremati dalla fatica di un’altra notte che annuncia un altro giorno da vivere.
E succede che qualcuno di questi ragazzi si perde per strada, camminando verso casa guarda   al cielo ed è talmente buio che gli cade addosso e sembra un macigno e, allora, c’è una piccola luce nel nero velluto della notte e ha proprio l’aspetto di una stella e le corre dietro. Ma è una stella sbagliata, è solo il crudele miraggio dei suoi occhi offuscati, della sua anima fragile. Se ne va, così, scompare lieve nella notte, lasciando una traccia lucente, come di brina sull’erba, in questi giorni di dicembre.
Questi sono anche i giorni dell’inizio dell’Anno Santo, del Giubileo della Misericordia, così ha scelto di chiamarlo il Papa. E ci crede sicuramente, lui è un uomo di fede, un uomo pio e deve credere nella bontà di disegni divini per l’uomo e nella bontà ritrovata da parte dell’uomo. Io no, non vedo misericordia in questo mondo. Non vedo l’avvento di un’era di misericordia. E non parlo di quella di Dio, non mi compete, appartiene alle cose trascendenti e io non ho in me niente di trascendente, sono immersa nella terra, ne assaporo il gusto friabile e aspro. Io non credo nella misericordia degli uomini, i loro cuori hanno la consistenza e la forma delle banconote, non sono cuori che pompano vita. La misericordia divina, se ci sarà, se vorrà avventurarsi tra noi, avrà un bel da fare, dovrà combattere a muso duro contro gli esseri umani. E questa sì che sarebbe una guerra bella: sarebbe la guerra dei miracoli

Pieter Brueghel il Giovane,Le sette opere di misericordia, 1616 ca,

giovedì 3 dicembre 2015

Ancora Dicembre.

Ancora Dicembre, mese degli obblighi, mese di vecchi rituali che si perpetuano a dispetto delle mie convinzioni. Ci sono stati molti mesi di dicembre nell’arco della mia vita e molti di questi sono stati contrassegnati dalla gioia, dall’attesa della notte più lunga e più santa, accompagnati dallo sfrigolare del cibo sui fornelli e dal tepore profumato dei biscotti nel forno;e la vigilia arrivava sempre troppo presto, non mi sentivo mai davvero pronta, c’era sempre qualcosa d’incompiuto che mi metteva addosso un disagio di cui mi era ignota l’origine.  Però eravamo tutti insieme, nel vociare turbinoso, negli abbracci frettolosi e ansimanti, perché eravamo tutti un poco stanchi di correre e di prepararci per l’appuntamento annuale; il mattino, freddo di solito, che la seguiva, con il corredo di squilli e scalpiccii per casa, avvoltolati ancora nelle vestaglie, bambini dagli occhi brillanti di sonno e d’eccitazione e gli adulti assonnati e confusi, tra pile di carte argentate e nastri rossi e oro.
Eravamo tanti, non mancavamo mai di esserci tutti. Poi, lentamente come una tignola testarda che rode l’ordito della lana, iniziammo a mancare. Ci furono le prime dolorose assenze, le sedie vuote che non si sarebbero più riempite attorno al grande tavolo: e dopo ci furono le nostre assenze. Volute, forse per noia, forse per stanchezza, forse per inerzia.
Ancora Dicembre e si discute di laicità o religiosità del Natale. Si litiga ferocemente - oddio il fondamentalismo delle ideologie! - se il presepe e i canti tradizionali possano turbare lo spirito religioso - oddio ancora! - dei bambini non cristiani (cattolici) presenti nelle scuole del territorio nazionale. Come se i bambini potessero inorridire di fronte a una capanna di cartapesta con la stella cometa sopra e turarsi, altrettanto inorriditi, le orecchie per non dovere ascoltare una canzoncina.  I bambini sono bambini dappertutto e, probabilmente, sarebbero curiosissimi di vedere un presepe e di cantare in coro un ritornello; per loro, se non ci si mettono di mezzo gli adulti sciocchi, non fa nessuna differenza, per loro è semplicemente una nuova esperienza, qualcosa da imparare di questo folle, ma anche, divertente  e differente mondo. Lasciamoli stare allora, i bambini, soffrono già troppo per le nostre scelte dissennate, lasciamoli scegliere, per una volta, quello che gli pare.
Che poi, tanto rumore per nulla, perché c’è poco di religioso nel Natale del 2015. E anche in quelli degli anni passati, da quando tutti insieme abbiamo optato per festeggiarlo, questo Bambino, con lustrini e paté, con brindisi e deschi opulenti, con montagne di regali sfolgoranti sotto alberi di plastica a loro volta sfolgoranti di palle e di luci.
Se c’è uno spirito religioso , sacro,  del Natale è, forse, quello legato alla religiosità dei ricordi, degli altri Natali, quando eravamo tutti un poco più innocenti. Il Presepe, l’abete, i canti, assumono, allora, un significato prezioso, mentre  li togliamo dalle scatole dove hanno riposato per un anno: ogni addobbo, ogni pastore, ogni stella, ci riporta indietro qualcosa, un momento di luce nel cuore, ci riporta indietro qualcuno che se n’è andato. E ci ritroviamo, senza rendercene conto a canticchiare, con un filo di voce, i canti di Natale, sempre quelli, ancora quelli. E magari ci tremano le parole e ci si appanna la vista. Ma questo non si deve dire.
Ancora Dicembre e per me non ha un gran significato, non sono in attesa del miracolo che muterà il male in bene, non saremo tutti più buoni in quella notte. Saremo quelli di sempre, saremo sempre meno attorno al grande tavolo, ognuno chiuso e perduto dietro alla sua stella cometa, in  un viaggio ognuno di noi, attorno all’albero scintillante, uomini e donne, alla ricerca di tutti quei Natali trascorsi che se ne stanno impilati nella nostra memoria, tutti magici, tutti migliori.


Henri Matisse  "Icarus"    1946


mercoledì 25 novembre 2015

Diverse da Lucy

Non mi piace usare la parole ‘celebrazione’, non si dovrebbe celebrare, nel 2015, la giornata contro la violenza sulle donne, non dovremmo sentirne la necessità. Ieri cadeva l’anniversario, il quarantunesimo credo, da quando fu dissepolto lo scheletro di Lucy l’australopitecus etiope che ha permesso agli scienziati di progredire nella ricerca dell’evoluzione umana. E la coincidenza  temporale ha assunto, ai miei occhi, un significato quasi esoterico, magico. Non casuale. L’australopitecuse Lucy era una femmina e non sappiamo, ma possiamo immaginare, soggetta al maschio dominante per motivi prioritari. I ruoli, insomma, erano ben definiti, Lucy partoriva e portava avanti la specie umana e il maschio, anonimo in questo frangente, cacciava, sfamava e proteggeva dai pericoli i piccoli. E forse, come nei fumetti, qualche colpo di clava, Lucy se l’è beccato. Ma tutto questo appartiene alla notte dei tempi, al buio dei primordi e gli esseri umani o gli ominidi sconoscevano ancora l’uso della parola, esprimevano i sentimenti con gesti,  giacché sono certa che provavano emozioni e sentimenti, magari embrionali, magari senza la compiutezza della ragione, ma li provavano. E Lucy avrà pianto o si sarà arrabbiata molto per quel colpo di clava.
E oggi? Oggi siamo qui a ricordare le donne vittime della violenza maschile. Come a dire che molte donne vivono la loro vita con un nemico accanto, l’usurpatore dei loro diritti alla speranza, all’amore, alla libertà di essere, dopo milioni di anni, diverse da Lucy.
Provo un senso di disagio e non per le mie sorelle  di sesso, ma per gli uomini. Che il loro sesso, le loro stesse peculiarità di genere, ne facciano potenziali aggressori, stupratori, assassini. Orribile. Ma certificato, con cadenza ossessiva, dai fatti di cronaca, dalle testimonianze di volti tumefatti, se non dai corpi straziati di molte donne; orribile, ma reso tangibile  dalle confessioni’  ( perché spesso le violenze subite vengono percepite come una colpa!), anche, di chi conosciamo. Orribile, ancora una volta, uno spettacolo di ripugnante disumanità a cui, purtroppo, si guarda (e non solo da parte degli uomini!) con volgare, nauseante, sospettosa superficialità: quante volte ci è capitato di leggere, di ascoltare. in calce agli articoli inerenti a stupri o violenze, quante volte abbiamo letto o ascoltato commenti simili “E va bene, se l’è cercata, con quella mini” o “e perché si è vestita così? Che cosa voleva? L’uomo si sente provocato?”  oppure “e allora? Era ubriaca fradicia proprio come un uomo!”o ancora “Però lo tradiva!” come se l’ abbigliamento , la sbronza, l’emancipazione sessuale  possano giustificare, sminuire la gravità  della violenza, possano  giustificare la clava sulle odierne Lucy.  Il fatto è che serpeggia, subdola, un’ignoranza  dura come un guscio di noce che va schiacciata,  questa sì con determinazione e forza. Una subcultura trasversale che riesce a imbrigliare nelle sua trama tutto il mondo, forse è una delle rare condivisioni che accomunano, almeno in parte, gli uomini e le donne di ogni nazione: queste nella reiterata menzogna di  dover accettare il ruolo sacrificale di vittime designate; quelli nella comoda, accogliente menzogna di una supremazia fisica e intellettuale, retaggio di un ancestrale richiamo della foresta e dei millenni passati.

Un’ultima riflessione la dedico a Valeria, la ricercatrice italiana uccisa a Parigi; e con lei, a tutte le donne sacrificate dalla guerra a subire la violenza dello stupro, del terrore, della morte. E alle spose bambine che non hanno diritto all’innocenza delle bambine. Le donne pagano sempre un prezzo altissimo, in molti Paesi, solo perché sono donne. Ma abbiamo un cervello, oltre che cuore e utero, diamo ascolto al nostro cervello. Facciamone, sempre più, un uso migliore. Uomini e donne insieme. Perché Lucy e il suo compagno con la clava sono solo scheletri.



Artemisia Gentileschi   "Susanna e i vecchioni  (1610 - 1622?)

martedì 17 novembre 2015

Né a Dio, né a un'idea, né alla vita.

Lo scoramento che abbiamo provato in questi giorni è stato il necessario obolo alla superficialità con cui, spesso, siamo indotti dalle circostanze e da un larvato cinismo a vivere le nostre piccole esigenze e le nostre stesse vite. I tragici fatti di Parigi - perché quelli dell’aereo russo nel Sinai e la strage a Beirut e tutte le altre non avevano provocato una simile partecipazione emotiva, tutt’al più un vago sentore d’inquietudine subito rimossa -  ci hanno scaraventato violentemente in una realtà disumana e crudele. Per tre giorni, da quel maledetto venerdì sera, ci siamo rimpiccioliti, siamo ritornati a essere entità inermi, piccoli nei disegnati nel corpo inintelligibile della Storia, punti che la mano devastatrice della violenza cieca e addestrata può cancellare quando le pare. E credo che sia questo il principale obiettivo, la vittoria da conseguire per i portatori di morte, per i negatori di Dio, farci inghiottire dalle tenebre del terrore, strapparci alle nostre esistenze e alle nostre abitudini.
In tutto questo orrore, nel brivido che scuote tutti noi, restano come macchie infamanti e indelebili, i corpi spezzati degli innocenti, giovani donne e giovani uomini, qualunque sia l’appartenenza religiosa; resta l’urlo osceno “Allah akbar”  perché è una oscena bestemmia invocare Dio e spargere il sangue dell’uomo; restano i giochi luridi di chi finanzia questa violenza, le sotterranee complicità di chi ha un solo dio, il denaro, davanti al quale inginocchiarsi; restano le manipolazioni,  le maschere lugubri di alcuni politici sedicenti giornalisti che scendono in campo armati per il loro personale Risiko; restano, e questo è l’indice della nostra cialtroneria bassa e sciocca, le chiacchiere, i distinguo, le prese di posizione “nette e chiare”, senza che ci si renda conto di camminare nel buio, senza capire che la chiarità è lungi da venire.
Sarà la guerra? Non lo so, spero di no, spero che ci si fermi in tempo. Ma, se dovesse accadere, che nessuno la chiami Santa, che nessuno dica all’altro,  infedele. Perché le guerre non sono mai sante, non lo sono mai state, e coloro che le scatenano non hanno il diritto di proclamarsi fedeli.  Né a un Dio, né a un’idea, né alla vita.


James Ensor   “L’intrigo”

venerdì 13 novembre 2015

La Bellezza non fa paura.

Allora, oggi, voglio parlare di un fatto accaduto a Firenze, città gloriosa per l'arte in tutto il pianeta, e si tratta di un fatto che mi ha suscitato uno scoppio di amarissima ilarità, a causa della grottesca deriva che la mente umana ha imboccato.
A Firenze, dunque, dentro Palazzo Strozzi, è stata aperta al godimento del pubblico, la mostra pittorica 'Bellezza divina', che, come si deduce dal titolo, mette in rassegna dipinti di Maestri dell'arte, quali Van Gogh, Picasso, Munch, Chagall e altri, e che hanno come tema il sacro, in particolare, in alcune tele, la Crocifissione del Cristo.Come spesso accade, e giustamente, gli istituti scolastici sono stati tra i primi a essere invitati per fruire della Bellezza dell'Arte. E veniamo al punto. Il consiglio scolastico di una scuola elementare della città toscana, ha creduto opportuno declinare l'invito, adducendo a movente la necessità di "venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche verso il tema religioso della mostra." Com'era prevedibile è detonato lo scoppio, il caso  è finito su tutti i media, tutti ne hanno parlato, i politici schierati in prima fila. Un bocconcino offerto sul fatidico piatto d'argento a Lega e Fratelli d'Italia che hanno gridato, se non al golpe laicocomunistafilomusulmano, se non allo scardinamento totale degli italici costumi, quasi. E ne è venuto fuori un coacervo di frasi, anatemi, indignatissime proteste, tutto sotto l'egida millenaria della Religione di Stato. Sia ben chiaro che io nutro il massimo rispetto nei confronti di tutte le sensibilità individuali verso la religione. Tutte. Se io mi trovo in un Paese musulmano e mi si vieta di entrare in Moschea, se non ho un abbigliamento adeguato, io mi adeguo. Lo stesso in Cina o in India. O in una sinagoga. E lo stesso in un paese cristiano, nel mio caso cattolico, se è tradizione antica apporre nelle scuole il Crocifisso, chi è di religione diversa, è tenuto al rispetto di quella tradizione. Anche se, personalmente, auspicherei per il futuro, una scuola laica, dove le religioni siano esclusivamente oggetto di studio, magari durante le ore di filosofia o di storia o, per gli studi primari, semplicemente dei racconti, raccontare le religioni non sarebbe una cattiva idea.
In tutto questo trambusto, dunque,  due sono le cose che mi lasciano sbigottita e voglio dirle.
Dovrebbe essere ovvio che i ragazzi, in questo caso i bambini, imparassero, al più presto possibile, a rispettare le diversità che incontreranno lungo l'arco della vita, diversità culturali, etniche, religiose. E questo percorso formativo, ai miei tempi, si chiamava "conoscenza", "cultura". Imparerebbero a confrontarsi, a scegliere, ad apprezzare tutto ciò che non fa parte del loro vissuto quotidiano. Ne sarebbero arricchiti e si stimolerebbe in loro la nascita del "senso critico", ovvero del pensiero, della ragione.
Altro punto, sul quale non ci si è soffermati, è che ci si trova di fronte a "opere d'arte" di indiscutibile grandezza e valore! Ma come si fa a giudicare sulla liceità o meno, sull'opportunità di far vedere o meno a dei bambini, i capolavori dell'Arte? L'Arte non merita questi tribunali, l'Arte è Arte sempre, negli occhi degli adulti come in quelli dei bambini. E un Crocifisso dipinto da Chagall non può spaventare o turbare un bambino, se dietro non c'è un adulto che, sciagurato lui,  ne abbia timore o  provi turbamento nel vederlo.
Siamo noi adulti che abbiamo il cervello in fiamme e non siamo più capaci di vedere la Bellezza. Sono certa che quando i bambini, di qualunque credo religioso essi siano, potranno vedere la mostra, non avranno paura, non saranno turbati dalla visione di un altro Dio: resteranno con gli occhi spalancati, colmi di colori, di grazia, di linee di luce abbagliante.  
Saranno colmi di Bellezza.


Vincent Van Gogh  "La Pietà"  1889




domenica 8 novembre 2015

Sfacciata giovinezza!

No, mi sono detta, non può essere, lui non è vecchio! Lui, il mio sogno erotico e non solo, il cavaliere ardente che mi portava via dalla fatica del vivere, lui con quegli occhi azzurri e ghiacciati come un lago alpino, che non riuscivano a celare le ombre di fragilità e solitudini.
Oggi compie ottant'anni lui, Alain Delon e non ci volevo credere. Ma poi mi sono messa davanti allo specchio e ho capito che il tempo è così, distratto, indifferente e scorretto, se ne va senza guardarsi dietro, senza vedere i guasti che arreca. Se ne va il tempo allegramente e porta via con sé colori e luci, lasciando tonalità incerte e segni incisi. Tutto scolora, tutto si fa opaco, il tempo stende un lenzuolo liso su ogni cosa. Ma non ha potere sui ricordi, quelli no,  restano e sembrano prendersi gioco del tempo. Perché lo eludono, gli scappano dalle mani avide. E Alai Delon resta l'uomo più bello che io abbia mai visto, e l'attore magnetico, fortemente carnale e, nella stessa misura, intenso, con un'interiorità selvatica che trasudava dai gesti e dagli occhi, sempre quegli occhi che perforavano i cuori e le fantasie di noi donne, impegnate eppure sognanti.
Rocco e i suoi fratelli, Il Gattopardo, L'eclisse, e poi ancora La prima notte di quiete, Borsalino e tenti altri,  ed era un appuntamento al quale non si poteva mancare. Come non mancammo, io e alcune amiche tutte deliranti come me, di recarci a Taormina (non ricordo l'anno, ma saranno circa quaranta) per scalare i gradoni del Teatro Greco - allora il David di Donatello veniva conferito in quella meravigliosa sede (oggi, si direbbe location, ma io sono d'antan) -  inerpicandoci senza badare agli abiti che si sgualcivano, forse avevamo tutte le minigonne e chi se ne fregava, allora, di mettere in mostra qualcosa in più, eravamo scatenate. E il cielo era nero e gli accendini brillavano come migliaia di lucciole in amore e Alain ci passò accanto, bellissimo e sorridente, con quel suo sorridere sempre un po' imbronciato che ci faceva venire subito sciami di farfalle nella pancia. Eravamo prossime allo svenimento, urlavamo e agitavamo gli accendini e poi lui raggiunse il palco. Ne parlammo per giorni, dimenticammo per qualche tempo tutto il resto.
Il tempo corre, tempo crudele sì. Ma la giovinezza, ah la deplorevole, sfacciata giovinezza non la può acchiappare!
Auguri mio sogno giovane, auguri Alain.


Michelangelo Antonioni  "L'eclisse"   1962

lunedì 2 novembre 2015

Non assenza, presenze.

Qui da noi, in Italia, oggi si commemorano i defunti. Che alle mie orecchie ha un suono orribile, lugubre, di carne e ossa sfatte sotto un metro di terra. E si commemora, oggi, anche la morte di un Poeta, Pier Paolo Pasolini. E ne parlano tutti, ognuno con i propri ricordi, alcuni con toni di sincera commozione, altri con l'enfasi che vuole l'elogio e l'approvazione. Si citano i suoi scritti, le sue poesie, i suoi film; il web è inondato di foto e citazioni, è una maniera per dire che è ancora tra noi, con i morti si fa così, anche nell'intimità dolorosa di chi resta, si fa così: un padre, una madre, un figlio, un amico, ci accompagnano con i gesti e le parole che li distinguevano, da noi stessi e dagli altri. Sono questi gesti e queste parole, la testimonianza che sono stati fra noi, affiancati a noi per un pezzo di strada. Le assenze non si colmano, però, con le memorie di un giorno di novembre, sarebbe un'ulteriore rinuncia, una ripulsa ingrata per chi ci ha amato e che abbiamo amato.  Io, e spero come me molti altri, tengo in serbo, serrate dentro la mia effimera carcassa, le assenze, mi vivono dentro, sono presenze sempre, ogni giorno dell'anno, ogni mese dell'anno. E così non voglio ricordare Pasolini, né per i libri, né per le parole, queste e quelli li posso ritrovare quando voglio. Lo inserisco, invece, tra i miei assenti, tutti quelli che mi sono stati vicini per un periodo della mia esistenza. Anche lui, pur se non mi è stata concessa la gioia di conoscerlo di persona, mi è stato compagno, in una lontana, luminosa e, al contempo, irresoluta giovinezza.

lunedì 26 ottobre 2015

Le parole non saranno cenere.

Qualcuno,  una volta, mi disse che solo un breve lembo d'acqua separa l'Isola dal resto del mondo. E non dovrebbe essere difficile superarlo questo tratto d'azzurro, ma non è così. Ci sono onde alte e Sirene che incantano e la Fata Morgana che illude. Il viaggio è lungo e periglioso e, alla fine, si rinuncia e si vuole tornare indietro. No, bisogna resistere, Ulisse lo ha fatto ed è approdato dove voleva approdare. Ma quella è una lunga, bellissima storia incantata.




Le parole non saranno cenere. 



 Strapperò le parole, cancellerò la polvere.
Cenere ne farò, 
nell’urna rossa le serberò,
cenere di farfalle prive d’ali, 
crisalidi vuote
non hanno foglie né petali da afferrare, 
dormono.
Ho sognato il giardino dell’Eden, 
ricco di cantid’uccelli 
sul melograno, 
un fitto tappeto fiorito
calpestano i miei piedi schizzati d’argento,
seduta presso la fonte 
mi disseto e mi sazio
Ma il giardino è infetto, 
il rivolo d’acqua è fiele,
bruna m’appare l’ombra del melograno,
m’oscuragli occhi. 
Tacciono gli usignoli, sibilano come il serpente
e mi negano il frutto 
dai denti d’opale ridenti.
Ritorno al mio mare che separa dal sogno, 
fluttuante
Utero di madre egoista, 
che non lascia scampo
ai suoi figli.  
Madre  sussurri  favole antiche
di vita e di morte, 
corifea della tragedia  incessante.
Non mi arrendo, 
continuo a liberarmi, 
scardino porte,
tolgo catene, taglio funi e legacci, 
salpo, mi salvo.
Stringo sul petto quell’urna, 
scaldo le ceneri e bruciano
non le disperdo. 
Non le disperdere, salpa anche tu,
vieni con me, salvati. 
Abbracciale al petto, serrale con pugni
d' acciaio, 
costruisci un letto per loro e cullale, 
come i tuoi figli.
Diventeranno parole, 
avranno il respiro del mondo.

Aldo Pecoraino - Barca




giovedì 22 ottobre 2015

Tutta colpa di una consonante.

La parola sulla quale appunto le mie riflessioni, oggi, è "pesantezza" o il più rapido participio - aggettivo "pesante". Superfluo darne la definizione, è ovviamente di pubblico dominio. Quello che mi interessa, piuttosto, è l'uso, quando non l'abuso, che se ne fa, in misura smisurata, tra i più giovani (ma neanche poi tanto).
Mi sono posta seriamente le domande: quando si è pesanti? in che modo si è pesanti? la pesantezza è un valore o, al contrario, un disvalore? E ho cercato di darmi delle risposte, appena appena plausibili.
La cultura condivisa dalla maggioranza delle persone appartiene ancora, nonostante le reiterate crisi e il decadimento di alcuni pilastri portanti, a una cultura fondamentalmente capitalistica ed edonistica, cultura egemone soprattutto nella seconda metà del secolo scorso che spronava all'individualismo e a una visione quanto più ottimistica del presente e del futuro. Da qui, il contraltare ad essa non poteva che essere rappresentato da una visione allargata, solidale e filantropica della società. Dall'osservazione delle reali condizioni di subalternità e di degrado, di povertà e di ingiustizia, era consequenziale una visione pessimistica del presente e del futuro, in specie comparando le "mancanze" dei più (povertà, degrado, ingiustizia, subalternità) alle "mancanze " di altri (corruzione diffusa, malversazioni, illegalità, clientelismo e non c'è fine a queste mancanze). Quindi, ancora oggi, vista l'escalation di siffatte manchevolezze, chi ne prende atto e, testardo come un mulo, rifiuta di assuefarsi a ruminare nella stessa greppia e non vede un presente e un immediato futuro ingentiliti da fasci di rose e di fiori, è catalogato e archiviato come "pesante" Cioè il tuo pessimismo è un onere per me, per noi che vogliamo vivere svolazzanti e felici, anche se ciechi. E la pesantezza presunta viene schivata come la peste - ricordate gli abitanti di Orano nel romanzo di Camus? - eludendo i problemi, continuando i traffici, le attività consolidate, gli svaghi che tanto roseo colorito regalano ai giorni. Chi, perciò, distoglie con un distinguo, con una puntualizzazione, anche con un fioretto intinto nell'ironia da quest'orgia di benessere fittizio , ma necessario, è "pesante".
E, per finire, è palese quanto venga giudicata un disvalore, la pesantezza. Addirittura viene, spesso, considerata una iettatura da cui guardarsi con gesti scaramantici più o meno triviali, quando non con oggetti (cornetti, ferri di cavallo, scarabei egizi, coccinelle ), quindi fornitevi del necessario se appartenete alla ponderosa cerchia dei "leggeri."
Se, invece, avete voglia di vedere le cose da un punto di vista un po' meno categorico, allora provate ad aggiungere una consonante alla parola pesante. Sì, avete fatto centro, viene fuori proprio questa qui: pensante.

Fernando Botero  "Danzatori"  2000

sabato 17 ottobre 2015

La paglia dal frumento.

Non è difficile, per me che li ho vissuti, ritrovarmi in altri luoghi, in altri periodi e starci bene. Accucciarmi nei ricordi di fumanti sogni che parevano sempre prossimi a realizzarsi, ma poi evaporavano, appunto, diventavano fumo; non è difficile, per me, avere gli occhi umidi se mi capita di sentire una canzone o di rivedere un film di quegli anni in cui certe canzoni cantate a squarciagola o sospirate di notte, certi film visti nelle sale nebbiose e brulicanti erano il riflesso delle nostre vite, affidate alle mani, alle parole, alle musiche di sapienti registi e menestrelli: ci accompagnavano sempre, erano i nostri cani da pastore, capaci di radunare il gregge con le note e con i fotogrammi. Non è difficile, per me, avvertire lo scalpitare del cuore nel riascoltare vecchi discorsi di uomini e donne, politici e poeti non importa,  che ci indicavano il passaggio, quella strettoia angusta da superare per arrivare all'infinito possibile. E mi rallegro quando, anche spesso, mi accade di scorgere sui volti di giovani donne e di giovani uomini di oggi, l'identico stupore carico di attese che avevamo noi. Mi rallegra, mi sorprende e mi rattrista anche.  Perché non è facile per loro che sono costretti a camminare tra le sozzure che gli abbiamo eretto intorno, mucchi di spazzatura, ciarpame, macerie, guerre e morti, foreste divelte, cicloni dei tropici e tempeste della finanza, non è facile per loro trovare lo stretto passaggio che li porti allo scoperto, incontro alla vita che vorrebbero conoscere e amare. Ma è questo l'ingrato compito che hanno, di provare e riprovare, di brancolare e tastare fin quando troveranno. E  io e quelli come me staremo a guardarli con affetto, con partecipazione. Magari gli offriremo un segno, una breve traccia, con una canzone, con un film, con le parole di un poeta morto.
Non possiamo fare altro, lo abbiamo negato a noi quell'infinito possibile, doniamo a loro la bellezza della nostra esperienza. Saranno loro a dividere la paglia dal frumento.

Vincent Van Gogh  " La mietitura "

martedì 13 ottobre 2015

Il profumo non è nella polvere.

La memoria inganna, porta a galla immagini fluttuanti, profumi scomposti, tramestii e sibili. Pochi giorni fa, ho ripensato al Teatro, reietto da me con la furia della giovinezza, negato come una colpa. Ma è bastata una parola e mi sono perduta, di nuovo annegata in quell'amore. No, non è l'odore della polvere che s'accumula nelle fessure del legno. E non è quello del sipario di velluto rosso, pizzicava il naso un miscuglio di tabacco impolverato e di mani sudate. L'eccitazione trasuda, s'incunea nelle pieghe flosce dei tessuti, svolazza tra i fari ardenti, cammina nelle strettoie tra le file, prende per mano il passante spettatore alla ricerca del suo posto caldo, nel conforto morbido del sedile di porpora. E tu vedi dalla feritoia tra i lembi accostati, l'immobile rosseggiare che prende vita, rinasce ogni sera, il taumaturgo lo riempie di vita.
E d'un tratto è buio fondo, annaspi col respiro corto, un'onda ti scaglia sull'impiantito che scrocchia come avessi chicchi di granturco sotto i piedi. C'è il silenzio frusciante della gente in attesa, quel silenzio ronzante e curioso d'ascoltarti. Sei sola, sei tu, sei la voce sei il corpo. Allora ti spogli, getti via la pelle e scopri i nervi e il sangue che corre veloce nelle arterie e pompa il cuore e bagna di rugiada il cervello. O memoria non tradirmi, non mancarmi mia anima, vieni su dalle viscere, pervadimi, sboccia.
Il buio si fa luce, sul volto cala la maschera, la voce erompe, gli occhi bistrati fissano altri volti e paiono di cera, dapprima. Un filo tenace si srotola da te e tocca i pallidi volti insù e li avvolge piano, li tiene avvinti.
La parola corre nello spazio addensato di ombre: che lo spettacolo abbia inizio!

venerdì 9 ottobre 2015

Oggi è una favola.

I Maestri  Cantori in cattedra. I Topi del Pifferaio Magico. I Tre Maiali(ni) fuori dalla porcilaia. Il Gatto che strizza l'occhio alla Volpe. Lucignolo e Pinocchio nel Paese dei Balocchi. Il Grillo saggio (quello vero però) che si sgola e nessuno lo ascolta. I Pollicino che non hanno più briciole per tracciare il sentiero verso un lavoro. E gli Orchi della guerra. E le innumerevoli Piccole Fiammiferaie, pronte a morire assiderate. Gli Hansel e le Gretel dagli occhi neri che errano per boschi stranieri e inospitali. Gli eterni Barbablu, quelli non mancheranno mai. E ancora i Lupi, ma non quelli quasi estinti dei nostri monti, che aspettano i Cappuccetto Rosso per divorarle in un sol boccone. E poi il Cacciatore che è stranamente vestito di bianco e non ha un fucile, solo parole. E gli Imperatori con i loro vestiti pomposi e inutili perché il Re ormai è nudo. Le Fate Cattive costruiscono arcolai e fabbricano insidiosi tranelli; mentre le Buone si slogano i polsi a furia di agitare la bacchetta magica, perché di magico non accade niente e il loro Bibidibobidibù è un canto delle sirene. Illude e attrae, ma presto svanisce sotto i colpi di scopa delle streghe. In ogni caso si contendono i nostri destini.
Alice è ancora in viaggio nel suo Paese delle Meraviglie, beata lei.
Peter Pan se ne sta nell'Isola che Non C'è, dove vorrei essere anche io, a dire il vero.
Oggi non avevo voglia di dire altro, ma forse qualcosa ho detto, chi vuol capire, intenderà.
 Che sbadata, non ho citato "Il Gigante egoista" di Oscar Wilde. Ma quella è una favola. 

domenica 4 ottobre 2015

Spleen d'ottobre

Si sa che l'autunno è stagione di malinconie. E di ricordi, la memoria scalpita, corre veloce, fa capriole all'indietro. Questo spleen autunnale si riflette nei colori e negli odori, la luce blanda, affettuosa delle giornate corte, il verde degli alberi che s'attenua, striandosi di giallo e di ruggine, il cielo che s'impolvera di una grigia schiera di nuvole; e gli odori, odori antichi, di terra molle d'acqua, un sentore scuro spezzato, qua e là, da altri odori, di frutti chiusi, noci e castagne, di melagrane ridenti, di uva. L'odore del mosto è un pizzicore impigliato nelle cellule olfattive, rimane lì da molti lustri. Da quando, bambina, entravo nel buio del palmento, e la capretta attaccata con una cordicella al chiodo davanti a quel luogo che mi pareva, allora, l'antro della Sibilla. C'era una vecchia su una seggiola impagliata, col fazzoletto nero, accanto alla capretta e stava muta, sorridendomi sdentata. Non ne ho mai saputo il nome, o forse l'ho dimenticato. Dentro brancolavo, a tentoni camminavo afferrandomi alla mano dei fratelli maggiori ed ero uno scricciolo, presso gli enormi tini. Alcuni giorni prima avevamo vendemmiato e dopo avevamo guardato gli uomini ballare sui raspi carichi di chicchi, pestavano e pestavano e io stavo con la testa insù, mi parevano un poco spaventosi i loro polpacci schizzati del sangue dei grappoli schiacciati. Uscivo all'aperto ed era una vertigine, credo di aver preso la mia prima ubriacatura allora, in quell'oscuro palmento.
In quegli stessi anni, o poco dopo, conobbi le sorelle Bronte e i loro libri. E iniziai il mio percorso di donna. Jane e Catherine mi resero complice della loro selvatica grazia, della loro bramosia di spezzare le catene.
Oggi, un amico mi ha ricordato, scrivendo un bellissimo pezzo su Jane Eyre, quel tempo. Mi ha ricordato quella che sono stata e che ancora, nonostante tutto, sono.

Pablo Picasso  "Margot la bevitrice d'assenzio"  1901

lunedì 28 settembre 2015

Una sola stella.

A tutti noi capita di sperare in qualcosa. Chi di noi non ha mai alzato gli occhi verso il cielo? Credo che, per ognuno di noi, ci sia una stella, sconosciuta agli altri, solo nostra.


Una sola stella.


Se avessi un telescopio lo fisserei su di te
Piccola stella orfana di celesti genitori,
ignoto punto senza corona della scienza.
Pulsi diamante di luce nel buio, mi perfori
Col tuo esile raggio invisibile, se non a me,
se non ai miei occhi brancolanti ubriachi.
Scendi giù, afferrami nel cerchio azzurro
Innalzami alle sospirate vertigini dell’oblio
Fammi correre sulla tua scia di materno latte.
Bussano alla mia porta i volti gai dell’amore
Preziosi doni recano, preziosi ai nostri cuori
Di  spine cinti, dormono della cattiva  fata il sonno.
Nelle generose mani ti stringono, sei proprio tu
La solitaria stella orfana di celesti genitori
Cade sui nostri occhi il tuo raggio, dal sonno ci ridesta.



mercoledì 23 settembre 2015

Empireo e Malebolge.

C'è una stanchezza di penna tra gli intellettuali. Oggi, meglio, di dita, ché la tastiera del pc ha detronizzato l'antico uso del calamo e della biro. Non si sprecano troppo in parole, non si battono dalle pagine, fitte di pensieri, per una nobile causa, non si arrovellano per la salvezza dei cuori e delle menti. Tacciono. Tutt'al più, rilasciano brevi commenti, fiacchi segnali di fumo che il vento raccoglie in fretta e in fretta disperde. Sonnecchiano, apaticamente sfibrati dalla generale apatia, il male chiaro del nuovo millennio. Tacciono sulle male sorti dell'umanità, sulle guerre e sulle migrazioni; sulle vite precarie dei giovani e sulle violenze del potere che, spudoratamente, esercita nei confronti di milioni di ragazzi e ragazze spogliati del futuro, se non quello offerto dalla misericordia degli affetti.
Ma non sempre tacciono, questi stanchi cultori della bellezza e delle arti, a tutto tondo. Si ridestano dal loro sonno senza incubi, atarassico, allorquando si profila sulla linea dell'orizzonte, una qualche opportunità di sfogo, di sbocco. E sboccano, impetuosi come torrenti dalle montane sorgenti, percorrendo allegramente enfi, i tortuosi passi e le gole oscure. Cantano con garrule voci di trascorse letture, di libri ignoti a molti, di estatiche ed estetiche visioni, solo a loro apparse e solo a loro intelligibili. Che altisonanti voci si rincorrono per l'etere, che magnifiche gesta si compiono allora! Un fremito percorre chi li legge, un senso di umile e consapevole ignoranza ottenebra le menti dei tamnti seguaci. E ancora cala il silenzio, tacciono, ascoltando gli echi delle loro parole, sonanti per qualche giorno o qualche ora nei vasti cieli che li sovrastano. Fino al prossimo risveglio, fino alla prossima lettura, fino al prossimo libro o scrittore da innalzare verso l'Empireo o schiacciare giù nelle Malebolge infernali.

 Hieronymus Bosch, "Il Giardino delle Delizie"  1480 - 1490

venerdì 18 settembre 2015

Vincitori o vinti?

Una cosa è certa: non torneremo più indietro, non saremo più quelli di prima. Con le nostre certezze obsolete e sfrangiate come vecchie coperte che non danno più calore. Non saremo più quelli, con le nostre consolidate abitudini alla mediocrità di un'esistenza racchiusa in angusti confini fisici e mentali; non saremo più quelli, sballottata dalle crisi finanziarie che altri vogliono e decidono, ma sempre pervicacemente aggrappati ai forzieri dei Paperoni che  li custodiscono; non saremo più quelli, con le nostre case nido, dove covare segrete rabbie e perenni affetti, chiusi a ogni grido, a ogni richiamo che non sia il nostro.
Una massa preme, una valanga rotola precipitosa verso di noi, incontro alle nostre ordinate e quiete vite. Sono uomini e donne e bambini che fuggono per mare e per terra, vogliono la salvezza, vogliono la vita. Precipitano sopra di noi, penetrano nelle nostre case dai monitor e dagli schermi, con i loro volti affannati e affamati, con le loro grida di dolore. Il dolore, una parola che sempre cerchiamo di tenere lontana da noi, che conosciamo bene però nelle esperienze più intime e laceranti della nostra vita; il dolore, in questi tempi dissennati, è diventato universale, e ci coglie sprovveduti e sgomenti. Non basteranno muri di filo spinato, non basteranno trincee, né polizie, né nuovi lager. Non sono stati sufficienti in passato, quando altre maledette follie hanno tentato di metterlo a tacere, il dolore. Di questo dobbiamo, tutti su questa Terra macinata dai piedi scalzi di milioni di reietti, prendere coscienza. Altrimenti, il dolore e la sofferenza prevarranno e ne saremo prevaricati, tutti. Non ci saranno vincitori allora, saremo tutti vinti.

lunedì 14 settembre 2015

Le città della mente.

Che sia di pietra nera. Che sia candida come colomba. Che sia grigia come acqua sporca. Che sia vivace come una danza. Tutte le città diventano luoghi della mente, puntini lucenti che interrompono l'oscurità.




C'è la città acquattata nella pianura,
come fiera nella savana, fiera non è più
dei suoi ornamenti neri di roccia effusa
dal vulcano spinto sul mare di antiche genti.
C'è la città di pietra bianca, giardino gentile
di nobiltà e chiesa, chiusa nel caldo estivo
di ulivi e carrubi aggrappata alle radici,
il mare, sempre il mare, l'inquieta con il vento.
C'è la città fumante di nebbia e umidi fiati
verde nei parchi, parca nelle parole
smarrisce nel fiume torbido rifiuti e sogni
avvolti in bandiere, variopinti sudari.
C'è la città festosa, grida allegria abbracciata
dalla gente nel viale largo che scende al mare.
il mare sempre, gioca col drago di cartapesta
incontrato per caso, in un giorno di festa.
Sono le città sante della mia mente vagante
sul filo teso dal destino che non osserva regole
che gioca sporco sul campo del mio cuore,
avvezzo ormai a tutti i tiri in porta, che non sa parare.


Fernand Léger Animated Landscape, 1924 olio su tela cm

Fernand Léger  "Paesaggio animato" 1924
Fernand Léger Animated Landscape, 1924 olio su tela cm

mercoledì 9 settembre 2015

Le cattive ragazze.

Ho imparato, in questa lunghissima estate, un'ultima lezione. Spero che sia l'ultima perché, alla fine del percorso, i piedi sono doloranti, il respiro s'accorcia e la mente vacilla. Una lezione che conoscevo, un ripasso di studi già fatti e assorbiti dalla porosa spugna che è la coscienza. Ed è una lezione facile da apprendere, ma difficile, urticante, tossica, da digerire.
Siamo a settembre dell'anno 2015. Il mondo intero crolla sotto i machete di infinite oscenità, miserie e guerre, barbarie venute dall'inferno medievale, umanità depredata di ogni cosa. Siamo nel 2015, l'anno violento dell'uomo. Antiche città scomparse, deserti navigati da fantocci neri e folli, uomini, donne e bambini alle nostre porte, la nuova Corte dei Miracoli che non vorremmo vedere, che vorremmo rigettare nel mare dell'oblio.
E in questo agitarsi di vecchi spettri, indisturbata, invisibile ai più, prende forma, l'astuta mezzana che, si credeva, sotterrata da un pezzo. La misoginia. Niente di spettacolare, a parte qualche stupro qua e là, a parte le  tribali sofferenze inflitte da luttuosi banditi, nel nome dissacrato della religione islamica; niente di particolare, dunque, solo il lento strisciare del veleno, al quale pensavamo di esserci, noi donne, mitridatizzate. E invece, eccolo, tossico e amaro.
Sempre quello, sempre attivo nel suo principio : la donna deve comportarsi in modo adeguato; la donna deve assumere certi comportamenti che non contrastino con le regole sociali vigenti; la donna, in poche parole, deve seguire un comportamento degno!  Pena l'emarginazione, come minimo. Il severo fremito delle narici sdegnate, l'indifferenza ostentata, le labbra strette come il culo di una gallina, saranno i segnali che ti avvertiranno, donna, della tua riprovevole condotta. Quando, non saranno più espliciti i commenti, lanciati come sassi a lapidare; o il frusciare torbido delle parole da comari in trasferta nei pub. L'uomo è uomo e, per sua stessa natura e inclinazione, è portato a trasgredire. Lo può fare, gli è concesso. Magari, una reprimenda, magari una scrollatina di testa, in segno di disapprovazione, ma con il mezzo sorriso e l'occhio divertito.
In questa lunga, terribile estate, questa è la lezione che ho ripreso a studiare, voglio ripeterla e ripeterla a me stessa. Per corazzarmi, per tapparmi le orecchie dagli spifferi. per cucirmi la bocca con filo spinato. Così da non poter ascoltare e parlare perché distruggerei ponti e fortezze. Aspetterò seduta, aspetterò calma, al tavolo di un bar. Seduta a sorseggiare un caffè in compagnia delle cattive ragazze.

Antonio Tanburro (1948-)   "Ragazze al caffè"

sabato 5 settembre 2015

Le onde bussano.

Il bambino spiaggiato. Lo ha definito così, con dolente similitudine, un amico sul web. E questa parole sono ferite sanguinanti, perché gettano un fascio accecante di luce su tutti noi. Quanti di noi, in questi anni, si sono riempiti le viscere e la bocca di sdegno nel vedere le immagini di cetacei spiaggiati sulle nostre coste felici o altrove? Quanti di noi hanno aderito alle campagne delle associazioni animaliste per salvaguardare questi nobili esemplari della fauna marina dagli arpioni e dalle reti di banditi del mare? Tanti, tantissimi. Il coro delle grida di collera spingeva le navi di Greenpeace, imprimendogli la rotta. Ed era ed è un bene comune il mare, sono una riserva di tesori gli oceani e tali devono restare.
Alcuni giorni fa, su una spiaggia della Turchia, è affiorato nell'incessante moto ondoso, il corpo di un bambino.  Si chiamava Aylan e aveva tre anni. Non più un cucciolo di delfino o di balena, ma un cucciolo dell'uomo. Spiaggiato lì, nell'immensa solitudine del suo essere inerme, nella solitudine generata dall'indifferenza antica verso chi soffre.
La visione di quel piccolo corpo senza vita ha squassato il silenzio, ha provocato smarrimento e indignazione, ha costretto molti di noi a vedere, con i propri occhi, l'orrore. Perché la morte di un bambino è sempre un orrore, un atto immorale, un evento immorale.
Non voglio soffermarmi su coloro, parecchi, che hanno diffusamente scritto sulla necessità di pubblicare le immagini del bimbo. Lotte vane, discussioni fini a se stesse, pareri discordanti che nulla di sensato aggiungono al fatto, e nulla sottraggono alla tragedia. Anzi, tutto questo inutile chiacchiericcio sull"opportunità" di publicazione, non ha fatto altro che spostare l'obiettivo , il focus, quasi fosse più importante discettare di etica giornalistica, di scandaloso scoop. E intanto si perdeva di vista quel corpo, quel bambino. Io sono tra quelli che non hanno pubblicato la foto, ma umilmente non mi arrogo il diritto di giudicare chi lo ha fatto. E come molti altri, ho provato sgomento, rabbia, strazio; e soprattutto vergogna. Ho vergogna di essere qui, seduta a scriverne, protetta dagli affetti, coinvolta dai problemi quotidiani, a volte stanca e delusa. Le spiagge dove si infrangono i marosi, portando il loro carico di morte, sono lontane. Così parrebbe. Ma non è la realtà, so che quelle onde  bussano alla mia porta, alle nostre case e saremo costretti a sentirne lo scardinante fragore. Bisognerà dare loro quiete, bisognerà accoglierle. Bisognerà non abbandonare il bimbo spiaggiato a un'estrema, atroce solitudine.


Joaquín Sorolla (1863-1923) Ninos en la playa  1910

martedì 1 settembre 2015

No, di certo no.

Ho letto un breve articolo di Pino Corrias nel blog che tiene su Il Fatto.it, articolo che analizza, in parte, l'uso smodato che, sul pianeta, si fa dei social. In particolare l'autore si riferisce a Facebook. Corrias lamenta, in sintesi, il rischio, se non l'effettiva esistenza, di cadere nelle maglie pericolose dell'omologazione, della perdita di senso critico, Facebook come un calderone dentro al quale si intrecciano contatti, si discute, con il solo scopo di dialogare con se stessi. Tutti finiscono, secondo il giornalista, per parlarsi addosso guardandosi in un immenso, sconfinato specchio che riflette l'immagine di milioni e milioni di solitudini.
Denuncia anche, l'utilizzo ossessivo compulsivo, a tratti volgare, degli smartphone, smanettati in qualunque situazione, in solitaria o in compagnia, poco importa. E non nascondo di avere apprezzato queste osservazioni, noto anche io, con rammarico, un abuso del suddetto attrezzo. What's app domina incontrastato sul dialogo a quattr'occhi, sul rapporto tete à tete. spingendo tutti gli ingobbiti adolescenti, signori incravattati e signore dai capelli argentei, all'isolamento dalla realtà circostante. E la ragazza
che, fino a qualche anno fa, leggeva il suo bel libro in treno o sulla metro, 
è scomparsa, dice.
Ora, non voglio prendere le difese dei social, no. Spesso vengono utilizzati malissimo, diventano il ricettacolo di insulti, pettegolezzo, foto e video al limite del buon gusto: i selfie di virgulti in posa con muscoli vari in tensione o di fanciulle (e neanche poi tanto) con le poppe prorompenti e seminude, sono ormai una costante; come quelli di viaggi esoticissimi, di cene esclusivissime: o peggio, i resoconti di amori - parola inflazionata - perfettissimi e irripetibilissimi, anche il suffisso -issimo è una costante, ormai. Ma, a fronte di questi atteggiamenti, a dir poco stravaganti, c'è una moltitudine, molto vasta, di persone che affidano al social prescelto, momenti di solitudine, di fragilità emozionale; oppure ne fanno un alleato per parlare di un libro o di tanti libri; di cinema, di musica, di arte, di ambiente, di società, di politica. Ed è forse un male questo? Non credo. O almeno, bisogna vedere come lo si fa, come ci si accosta al tema, come si cerca il confronto con gli altri. Ed è un misfatto imperdonabile provare solitudine, in certi momenti della propria vita? Non credo, anzi. Sono una sostenitrice della solitudine, non come chiusura agli altri, ma come momento di riflessione, di analisi.
Corrias si dispiace perché il tempo non venga impiegato a leggere i libri, la cara, vecchia carta stampata che anche io tanto amo, e anche qui mi trovo d'accordo con lui. Ma l'una cosa non esclude l'altra, possono convivere, allegramente e felicemente, insieme.
Un'ultima riflessione, pepatina. Ma chi lo ha detto, chi può decidere per noi, quando, dove e come dobbiamo essere presenti? Quando ci è concessa la parola?
Mon Dieu, la concediamo, ogni giorno, a tanti, uomini e donne, che ne fanno spesso un uso improprio, grammaticalmente, sintatticamente, oltre che politicamente. Si vorrebbe toglierla ai comuni mortali, forse? No, di certo no.

Mario Sironi-Sarabanda finale-Il Montello-15 Ottobre 1918

venerdì 28 agosto 2015

I tuoi occhi.

Le persone che hai incontrato nella vita, spesso spariscono, si dissolvono per altri sentieri che non puoi percorrere. Di loro rimane una frase, un gesto, una sera al mare, forse uno sguardo. Ci sono occhi che non si dimenticano, occhi che hanno evitato i tuoi e ti si sono conficcati dentro, ugualmente.

I tuoi occhi.

Ridevano confusi nella notte
i tuoi occhi e non ricordo il loro colore
di tonde nocciole screziate d'oro
brillavano al tavolo con i calici vuoti
di futuri brindisi all'autunno crudele.
L'estate ardeva nel soffio estremo
dello scirocco e i tuoi occhi ridevano
celando ai miei ogni dolore, ogni speranza,
tu non mi guardavi, eri già in cammino
dietro a quella stella appesa al cielo,
infinito tetto sul nostro sgomento.
Eri tra noi a sfidare il destino chiuso
dalle sue braccia dolci e temerarie,
con gli occhi che ridevano e già sapevano
già si arrendevano al nuovo viaggio,
i tuoi occhi adesso infissi nei miei.

martedì 25 agosto 2015

Cul de sac.

E' così, c'è poco da fare, la percezione che si ha, a fronte di accadimenti, è variabile. Proprio come il tempo. Temporalesco, perturbato, nuvoloso, variabile, sereno. Ognuno assume una posizione di personale critica; o sceglie l'acritica acquiescenza, senza scomporsi: o, ancora, appunta lo sguardo alla teatralità fenomenica, alla forma estetica. I fatti accadono, sembrano dire alcuni, con o senza la nostra approvazione o disapprovazione, accadono e continueranno ad accadere. Meglio stare ad assistere, seraficamente intangibili.
In un certo senso, questo è quanto è successo, qui in Italia, dopo che le immagini del funerale di Roma -inutile ricordarne i particolari, credo siano ben noti planetariamente- hanno fatto, appunto, il giro del mondo. Ora, non voglio soffermarmi sull'indignazione che in moltissimi ha scatenato (me compresa); non voglio stare a dibattere oltre sulle responsabilità politiche e istituzionali (che sono reali e gravissime); non voglio accendere i riflettori sulle peculiarità del fenomeno mafioso nella capitale del mio Paese; se ne discute già tanto e chi lo fa, ha certamente più qualifiche autorevoli di me. Ciò che mi turba è l'atteggiamento svicolante di alcuni. Esattamente. Svicolante, come chi si trova a dover affrontare una strada intasata dal traffico e si guarda intorno e al primo pertugio, alla prima stradella che incontra, la imbocca, sospirando di sollievo. Come a dire, io non m'intruppo, io uso la mia bella testolina sveglia e via! a tutto gas. Questi tipi, con le parabole particolarmente funzionanti, hanno capito che, per vivere oggi, sgomitando nella quotidiana ricerca di un ruolo qualsiasi nella società, devono, imparare ad accettare tutto. Anche l'inaccettabile, anche la volgarità, anche il ricatto di chi pensa di poter agire impunemente. E la cosa peggiore è che sono davvero convinti di non prestare il fianco a chi del crimine organizzato si nutre. Sono fiancheggiatori inconsapevoli, sono spettatori asettici. Alcuni dicono: "Lo Stato c'era, eh! se c'era a quel funerale!" E il loro disincanto è greve, i loro sospetti pesanti e duri come rocce. Ma per me, no, lo Stato non era lì. Non lo Stato che, secondo me, è Stato, di diritto, di libertà, di giustizia, di rettitudine. C'era l'assenza, il vuoto, il nulla perché a quello Stato che vorremmo in tanti, se ne sovrappone un altro, intricato, contorto e avvinghiato nelle spire dei compromessi, delle riluttanti scelte, del pusillanime gioco delle tre scimmiette. Che è il gioco che più è gradito alle mafie. E ci sono ancora quelli che si sono attaccati, come remore alla balena, all'aspetto formale (e tra questi, i roboanti ciarlatani del piccolo schermo in salsa di esperti mafiologi), incollandosi "alla tradizione" "alle usanze incallite" di certi ceti sociali o di certe etnie! Paillettes negli occhi, come suggerisce un'amica, ironicamente. E però un po' di sdegno lo provano, in verità, tutt'al più hanno brevi sussulti di collera nei confronti dei media, nazionali e internazionali, che partoriscono echi malevoli contro l'Italia, mettendone in luce il lato più oscuro (per me e per tantissimi, per fortuna), mettemdo alla berlina il sentimento patriottico! L'indignazione si trasferisce, lo zoom dell'obiettivo si fissa sulla stampa, colpevole di avere dato tanto e tale risalto a un fatto, tutto sommato, "folcloristico e kitsch". E non si rendono conto che, sempre inconsapevolmente, piano piano il loro modo di pensare, la loro passività, li renderà spugne che tutto assorbono e trattengono. O fogli di carta assorbente, un tempo usata nella scrittura a inchiostro, oggi usata nelle cucine per raccogliere il grasso che cola.
Svicolano, come ho detto, trovano la strada laterale e la imboccano, a tutto gas. Senza sapere che potrebbero entrare, furbescamente strombazzanti, in un vicolo cieco. In un cul de sac.

Roman Polanski   "Cul de sac"  1966

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