lunedì 29 giugno 2015

"Protos in Europa!"

Quando ero una ragazza con la testa più verso il cielo che verso la terra, quando ancora credevo nell'umanità e in un suo parziale riscatto, quando amavo i garofani sui cannoni e sui mitra, allora credevo anche nelle stelle sulla bandiera. Ogni stella, una nazione; ogni stella, un'opportunità di conoscenza; ogni stella, una ricchezza in più, ogni nazione avrebbe condiviso con le altre il proprio scrigno dei tesori, cultura, arte, scienza, letteratura e anche i commerci e l'economia, ma questi due venivano per ultimi, avevo la testa rivolta al cielo, l'ho detto.
Quando sono andata in Grecia, c'era la dracma e da noi la lira. I greci incontrati durante quel viaggio di mare e di isole, erano gentili e spacconi, sornioni e, soprattutto, orgogliosi di essere lì, tra quelle case bianche e azzurre profumate di basilico e di mirto, col mare antico a segnare le loro vite. Mi parevano contenti, nei dehors dei bar a bere ouzo, con le facce segnate dal sole e dal vento che sempre soffia tra i capelli bruni delle donne. Ed ero felice anche io, come loro ho ballato il sirtaki sotto le stelle. Mi pareva di essere tornata a casa. Poi Atene, convulsa e caotica, la grandezza degli dei arroccati sull'Acropoli, ancora vento e suoni e parole alle mie orecchie, li sentivo accanto erano con me, gli eroi e le vestali, i filosofi e i tiranni, gli artisti e i tragici. E, di colpo, calò il silenzio nel vento tra le colonne e arrivò il tramonto.
La Grecia è da sempre la mia patria, perché mi ha insegnato a capire e ad amare la bellezza. Sono stata tutto, da ragazza, sono stata Penelope e Nausicaa, e Andromaca e Medea e Ifigenia ed Elettra e la dolente Antigone. Non posso e non voglio essere altro, anche oggi. Oggi che l'Europa, ma no, non l'Europa; oggi che alcuni burocrati piccini e ottusi dall'odore del denaro, la respingono, vogliono confinarla a un insignificante e molesto stato balcanico. Il dio dei commerci Hermes non li proteggerà, questi piccoli uomini, non avranno scampo perché non conoscono altro se non i forzieri delle banche.
Una frase mi è rimasta impressa, in particolare, di quel viaggio e oggi mi sembra profetica. Il caicco aveva gettato l'ancora a Eubea, in particolare a Edipsos, un grosso paese dell'isola. Rientravamo dal lungo giro, e sciamavamo pigramente per le strade dell'isola, allorché ci accorgemmo di essere capitati nel paradiso o, forse, nelll'inferno dei vecchi. Erano tutti, o quasi, vecchi, gli abitanti; affacciati ai balconi, per strada, nei negozi, nelle piazze a gustare l'ultimo sole. Allora, incuriosita e, lo confesso, delusa, entrai in una bottega e chiesi al proprietario, anziano anche lui, il motivo di tutte quelle persone in età avanzata. La risposta fu (mi sentii una stupida!) che sull'isola c'era la più importante colonia per vecchi della Grecia. Poi, con un sorriso carico di orgoglio, aggiunse: "Protos in Europa!" Proprio così, in un compiaciuto miscuglio di lingue.
In questi giorni ho pensato spesso a quell'incontro e a quelle parole pronunciate con allegro vanto. Ho pensato a quel vecchio bottegaio che, allora, credeva di essere in Europa.

martedì 23 giugno 2015

Con passi lenti.

In questi giorni affollati, in questi giorni pullulanti e pulsanti di fatti e di sensazioni, di attese e di sciocche speranze. In questi giorni di sole ancora tollerabile, di notti fresche e ventose che portano il mare nelle stanze. In questi giorni di silenzi e di sguardi timorosi, io sono ancora viva. Rifletto sulla vita, sulla trascorsa vita e su quella dell'oggi. E se un tempo la consideravo solo mia, un fertile terreno da coltivare, gelosamente custodito, ora nell'avanzare impietoso degli anni, mi appare come una sterminata landa, una brughiera sconvolta dalle tempeste, aperta a tutti i viandanti. Ma la brughiera nasconde tra la torbiere e i rovi e gli sterpi, piccoli grappoli di fiori rosa che le conferiscono una gentile bellezza. Rifletto e la vita non mi sembra più solo mia, è soprattutto di altri. Forse è questo il senso della maturità, d'altronde anche il frutto maturo si apre, donando la sua succosa polpa a chi ha sete. E così, credo, avviene nella vita, o così dovrebbe avvenire. Il tempo rende il corpo meno scattante, meno muscoli, meno tendini, tutto diviene morbido e fluttuante, sbiadito nei colori e soffice nella materia. E accogliente e generoso di sé. Così dovrebbe essere. Ci si allontana dalla vita giovane, senza più fughe, senza più scalate alle vette ignote. Ci si allontana dal raggio torrido che trafigge. E prendiamo il passo più lento verso pacati luoghi, ombrosi rifugi da spartire con tutti. Sì, mi piace pensare alla vita, non più come a un mio privilegio, ma come a una spartizione consapevole di me.

giovedì 18 giugno 2015

E la speranza tra i tuoi capelli.

Ogni giorno , al risveglio dai sogni, non ci accorgiamo nemmeno di avere accanto una preziosa amica, piccola quasi invisibile. La speranza che qualcosa cambi nella nostra vita, quell'impercettibile segno, solo a noi svelato, di ricominciare a vivere.
Ma spesso la dimentichiamo, la lasciamo là, tra le lenzuola umide della notte.


E la speranza tra i tuoi capelli.


E la speranza ancora c’era tra i tuoi capelli
inanellata ad essi, come una vera nuziale
ti cingeva il volto chiaro e austero di donna
chiusa dalle brume sfuggenti della straniera vita.
Solo gli occhi brillavano di verde incerto, di luce
strappata ai secolari alberi dei parchi che tanto amavi,
seduta a leggere il tuo libro segreto, lo portavi stretto
e i corvi neri e le scattanti volpi ballavano a te intorno.
E nell’opaco riflesso ne parlavamo, suoni e carezze avevamo
allora e i silenzi lunghi aspettavano che venisse il tempo.
Il tempo è arrivato, l’avrei bloccato con un pugno su
quel muso arcigno, l’avrei ucciso annegandolo nel tuo fiume.


Gustav Klimt  "La Speranza"  1907



domenica 14 giugno 2015

Accade così

Nelle nostre vite c'è poco spazio, sono diventate stretti corridoi ove, a malapena, stentiamo a districarci tra le masserizie accumulate, tantissime inutili, roba di scarto che non ci servirà più, ma che non abbiamo il coraggio di portare al macero. In quello spazio fragile e costretto, poco possiamo ancora ammucchiare e releghiamo nell'incertezza troppe cose ritenute poco fruibili. Non sono oggetti, però, sono umanità e affetti, pezzi di noi stessi, di quelli che eravamo un tempo e che abbiamo scelto di non essere più. Accade così di non accorgersi degli altri; diventano, giorno dopo giorno, invisibili. Le loro pene non varcano la soglia della porta, non sentiamo il loro passo stanco e le parole taciute per pudore, per paura di non compiacerti. Accade così di sbarrare l'accesso a un fratello o a una sorella, a un amico, a quell'altro che non siamo noi e verso cui proviamo, non più empatia, ma tedio e indifferenza. E spesso non lo sappiamo neppure che il germe dell'apatia ci si è insinuato dentro, silenzioso e asintomatico.
Accade così che, sotto casa, nel verde smagliante di giugno, nel parco garrulo di rondini al mattino e di flebili chiù al tramonto, un uomo qualunque, in una notte di giugno, muoia. Arrostito da un fuoco senza nome, proprio come lui. Un barbone, uno dei tanti che dormono per strada, abbrancati alla bottiglia vuota, nel fetore del loro piscio che schivi di fretta, voltando la testa. E magari quell'uomo ti è stato vicino per un attimo, ti è passato rasente e tu lo hai fissato e lui pure, per un attimo vi siete incrociati. E dopo? Il dopo non c'è, non ha un nome quell'uomo, è insignificante, un altro pezzo d'umanità spazzato dalla ramazza impietosa.
Accade così e il dopo non c'è. Soltanto un guizzo, una fiammata improvvisa, come in quella notte di giugno, che ti avvampa, ti brucia dentro e tu sai che questo fuoco un nome ce l'ha ma lo dimentichi presto,  lo riponi via.

Foto di  Mario Dondero

giovedì 11 giugno 2015

Un giganteco Risiko.

Non ce la faccio a tacere e così torno a parlare di web (che poi è la casa che mi ospita, anzi che ci ospita), e della parola "odio". Oggi l'ho letta per ben due volte ed è stata una frustata, seguita da un'altra. L'ho letta nei commenti a due post, non importa l'argomento, non ha nessuna valenza a chi fosse indirizzato questo sentimento, è la parola in sé che mi suscita paura. Quando non è scoperta, manifesta nella sua brutale pregnanza, essa è sottesa, ambiguamente dissimulata in immagini e frasi che solleticano, titillano i nostri più reconditi e viscerali moti dell'anima. Infatti, la pancia ha un'anima.  Un martellamento strategico e continuo, un bombardamento  contro il quale non esistono bunker a protezione. L'odio serpeggia, si spande vischioso e intrappola. Facendo emergere tutte le contraddizioni dell'essere umano. Lo stesso essere umano che si commuove e commenta, cuoricini a profusione, davanti al cane abbandonato dal vigliacco padrone; oppure, sorride lacrimoso, alla storia del bambino cinese, ormai uomo, che non dimentica il bene ricevuto; e moltissimo altro ancora, una pletora di post, link e di relativi commenti, grondanti amore e carità. E, spesso, sono gli stessi utenti che plaudono, protervamente, agli incitamenti, più o meno velati, all'indifferenza, quando non al disprezzo, verso chi professa culture e religioni diverse. Il disprezzo è parente stretto dell'odio, una forma più raffinata, meno becera. Ma gli inesausti cultori dell'odio - hanno ottimi motivi per continuare a instillarlo, solitamente legati ad appartenenze "politiche" - imperversano e non danno tregua e arrendersi all'odio non è poi così difficile, insensato. Anzi. Sensato e ragionevole, perché è una coperta grande sotto cui nascondere le proprie irrisolte necessità, le proprie ambizioni inespresse, le frustrazioni perpetue a cui si soggiace. E l'odio per gli altri è un efficace antidoto al dolore provocato dal vivere la disumanità di una società escludente ed esclusiva. Così l'odio prende vigore e si propaga, un virus letale che fa soccombere tutti. Il diverso diventa il nemico da abbattere; colui che si ritiene ingiustamente fortunato e immeritevole, diventa l'oggetto della rabbia che si annida dentro. E tutto si svolge come un gigantesco gioco bellico, un risiko feroce, senza averne consapevolezza. Gli unici, consapevoli strateghi, si fregano soddisfatti le mani e assistono, condottieri senza gloria, al massacro.




Peter Paul Rubens - Copia della Battaglia di Anghiari  (dall'affresco di Leonardo da Vinci)
anno:1603

domenica 7 giugno 2015

Umori sotterranei.

Frequentando il web, con una discreta assiduità (troppa?) mi rendo conto, ogni giorno sempre più, degli umori sotterranei che, attraverso i social, si rovesciano tumultuosi su di noi. Proprio come i fiumi ipogei che scorrono sotto alcune città -  a Catania, c'è l'Amenano che passa sotto casa mia e poi irrompe nella Piazza del Duomo, festosamente scrosciando in una antica vasca, detta "Acqua 'o linzolu" - questi umori scrosciano, zampillano, spesso erodono. Almeno, ci provano. E si intersecano pure, si ritrovano e si comprendono perché emanano lo stesso odore. Che non sempre è gradevole, mi capita di avvertire una scia di muffa, di acque stagnanti e la voglia di allontanarmi è forte, fortissima. Ma la curiosità è una bestiolina capricciosa e, si dice, che sia anche appannaggio privilegiato delle donne, e io donna sono, sì. Allora mi appropinquo, felpatamente, e resto a osservare e ad annusare. Ed è uno spettacolo, se non di raffinata eleganza, alcune volte divertente e pure istruttivo. Ci sono molteplici varietà di umori, quelli colorati, ad esempio, di verde bilioso, di rosso collera, di grigio cervello che fuma, di rosa confetto tutto è perfetto, di bianco neutro io non mi espongo, di nero tutto il mondo è uno schifo. A quest'ultimo colore, confesso di intingere, ultimamente sovente, il mio umore.  Ma oltre alla cartella colori, vastissima, c'è anche la sezione degli umori di gruppo (no, non amori!, anche se, a pensarci bene, mah) che sono quelli che mi intrigano di più. L'effetto che mi suscitano questi umori è quello di una catena o di un cerchio o di una bolla di sapone iridescente, anche sì. Se ne stanno tutti lì attaccati, collegati o reclusi, a scambiarsi opinioni, più o meno identiche, a fiondare il dito sul like, a condividere le medesime condivisioni. Sempre tra loro, che possono essere tanti, per carità; e se decidono di dare la croce addosso a un umore che non riconoscono, Ponzio Pilato dovrebbe arrendersi come allora. Bene, questa è la mia riflessione per oggi. Adesso vi saluto e vado a far scorrere il mio umore sotterraneo. Anche io ne ho uno.

Tito Angelini 1867 Fontana dell'Amenano Catania

mercoledì 3 giugno 2015

L'esperienza tace.

L'esperienza dovrebbe essere un oggetto fisico, un campanello, ad esempio, come quelli in uso, un tempo, negli alberghi. Un campanello da far trillare o strillare quando occorre, quando i recettori degli istinti sono all'erta. Quando ci si ritrova in una situazione che pare un déjà vu, con noi al centro di un gruppo di persone e siamo lì lì, per dire la nostra. Per sputare la nostra sentenza, unica e perfetta, sinteticamente acuta. E, più che altro, acuminata come un bisturi, pronta a fendere colpi bassi e alti. Ma l'esperienza non è un campanello da far trillare e così non avverte, spesso se ne sta nascosta in qualche andito oscuro della memoria, e forse sghignazza pure, godendosi lo spettacolo delle nostre azioni e delle nostre parole, nude, indifese, perché lei non ci soccorre.
E nudi come vermi, inermi come bambini, ma senza la loro innocenza, ci precipitiamo, a capofitto, nell'errore. E le frasi urlate dall'uomo forte, deciso, contagiano con la loro virulenza e dimentichiamo tutti gli altri uomini, forti e decisi, che l'hanno preceduto. Dimentichiamo il rozzo linguaggio della pancia che borbotta, dimentichiamo il fiele velenoso che instillano quelle parole e la gramigna che infetta tutte le altre buone piante. Dimentichiamo di essere liberi, dimentichiamo di avere ucciso il padre-padrone e di avere scelto di camminare da soli. Come nella favola, siamo agnelli, "superior stabat lupus" e, senza volerlo, ne diventiamo il nutrimento.
La memoria è sorella dell'esperienza, dovremmo averne più cura.


Il lupo e l'agnello  -   incisione di Gustave Doré

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