domenica 28 febbraio 2016

Input.

Gli input al cervello arrivano da più parti, si affollano talmente che si fa una gran fatica a districarsi, a sciogliere la matassa e a estrarne il capo per poter ottenere un bel filo lucente di logica, teso e senza nodi: solitamente arrivano, questi led lampeggianti, da notizie di cronaca, di politica, di crisi sociali e internazionali.
Poi arrivano le domeniche di fine inverno, ancora grigiastre, di cielo opprimente, agitate da un precoce vento marzolino che scardina le imposte e i fondali marini. Domeniche annoiate, con l'aria che non è più fredda, ma non ancora tiepida; domeniche indecise, come il finire di una stagione. E sarà anche per questo clima che scuote gli alberi, incerto e dispettoso, che i pensieri si fanno nostalgici;  sarà per questo o chissà per quale altro misterioso quid, che il cuore trabocca di una tenerezza dolce e feroce nel ricordo di altre domeniche. Stamane è stata una domenica così, di quelle di cuore commosso e riflessivo. Come se ci fossimo dati un appuntamento, io e altri amici del social, a raccontare episodi lontani, di giornate festive in vacanza, di affetti scomparsi, di episodi di ordinaria vita domenicale con il pranzo a cuocere in forno. Io stessa, con gli occhi fissi allo schermo del pc a rivedere mia madre, avvolta nella vestaglia di velluto rosa, che si accinge a friggere i cannoli, i capelli biondi e ondulati, stretti da un foulard, e le ciabatte ai piedi, ma tanto a me pareva sempre una regina e magari s'improvvisava tale, tra una frittura e l'altra, accennando alcuni passi di valzer. Unduetre, undutre.
A pranzo, attorno al tavolo sbirciavo i volti dei miei ragazzi, scherzavano come spesso fanno, mi chiedevano cosa avessi, "perché  hai un'aria strana, mamma! Sembri stanca, che c'è?" Ma non c'era nulla da rispondergli, avrei dovuto estorcergli una promessa, forse. Avrei dovuto  domandargli se, tra molti anni (quanti?) avrebbero avuto memoria di questa domenica, di una domenica. Così, senza una ragione, senza un input. Magari per il vento e il cielo infinitamente basso; magari per la noia domenicale. Magari ricorderanno.


Tavola apparecchiata in giardino, di Pierre Bonnard (1908 ca.)

lunedì 22 febbraio 2016

Che bella cosa.

Detesto i coccodrilli. Che volete, non mi piacciono, né quelli veri, i bestioni che s'azzuffano e sgusciano nei fondali melmosi dei fiumi tropicali; né quelli scritti, ovvero i necrologi predefiniti, pronti all'uso, qualche personalità scompare e zac! il coccodrillo piange tutte le sue lacrime. In generale, però, non mi piacciono i necrologi, gli epitaffi e via dicendo: sono il sigillo che certifica una scomparsa, il placet all'assenza eterna.
Di coccodrilli (si fa per dire) per la morte del professore Umberto Eco si sono riempiti i quotidiani di tutto il mondo. Era prevedibile, era quello che ci si aspettava. A parte qualche vocetta maligna che ha intonato, come sempre accade, il controcanto poco benevolo, il cordoglio è stato unanime, addirittura planetario. Sicuramente giova al ricordo che tutti serberanno del professore, il suo scritto più celebre. Quel romanzo, poi trasferito sullo schermo, che ha appassionato milioni di lettori. E un pregio squisito, secondo me, lo ha avuto ed è quello di avere avvicinato le masse più disparate, dagli studenti agli impiegati comunali, alla storia, a un periodo storico ben preciso, il Medioevo, che proprio perché così lontano, nebbioso, oscuro e oscurante, si è reso reo di "fascinazione potentissima", qualora un simile sentimento fosse un reato. Certamente la fama di quel libro ha, forse, reso più fioca l'indiscutibile voracità intellettuale del professore: inutile e pleonastico stare a ricordarne e a citarne le molteplici attitudini, i grandissimi talenti che tanto lo hanno fatto stimare, da renderlo uno degli intellettuali più apprezzati dalla comunità accademica, dalla stampa, internazionali.
Per me, umile lettrice delle sue parole, spettatrice e ascoltatrice delle sue ahimè troppo rare apparizioni in TV, il professore Eco resterà un punto fermo della mia storia, non solo come lettrice appunto, ma anche come essere umano. Sentirò la mancanza della sua arguzia, mi mancherà la battuta ironica, il luccichio degli occhi, acuminato sguardo sul mondo, dietro le spesse lenti. L'assenza sarà grave, sarà greve. Volgerò lo sguardo altrove, cercherò di carpire nuove voci, ma sarà impresa ardua. Con lui è andata via una grande intelligenza, un'intelligenza difficile da sostituire: perspicace, intuitiva, critica, ironica, pungente, accogliente e ancora e ancora. E allegra. Un'intelligenza allegra, che bella cosa.

venerdì 12 febbraio 2016

Innocenti pecorelle.

E io non mi arrendo al silenzio, non sopporto questa coltre pesante, imtossicante, impolverata di scorie stantie, che incombe. Mi sento soffocare e allora parlo, o meglio scrivo. Perché, ed è una piccola chiosa a quello che ho scritto ieri, chi ama la scrittura non può astenersi dalla partecipazione alla vita, di cosa scriverebbe? Di sé, delle proprie emozioni, dei sentimenti che lo animano, certamente. Ma anche di quello che ruota attorno a lui, della vita che, e non può prescinderne a meno di segregarsi fisicamente e spiritualmente, lo afferra e lo trascina insieme a tutti gli altri. E invece sento il silenzio di molti su molte cose. Su una in particolare, quella parola schiacciata e umiliata da sempre, in molte vicende: verità. Verità sulla morte di Giulio Regeni, verità sulla morte di Luana Ricca, una giovane e brillante laureata in medicina. con tanti titoli da presentare, morta suicida per disperazione, perché non tollerava più la mortificazione del proprio merito. Il silenzio è difficile da sconfiggere, è un drappo funebre incollato alle vittime, come nelle tante, troppe, vicende italiane rimaste nell'oscurità della dimenticanza.
Il silenzio che si spezza, però, in questi giorni festivalieri. Ed è uno spettacolo comico, una pochade della belle époque in cui si assiste all'entra esci dei post - la stessa rapidità istrionica degli attori di quel genere - post nei quali, illustri signori e amabili signore, si spezzano le unghie sulla tastiera dei loro pc o si fanno venire i calli ai polpastrelli strisciando sugli smartphone, per gridare con foga la loro indignata protesta contro chi, eventuale Giuda traditore delle più eccelse Arti e del più erudito sapere, confessa candidamente di seguire lo spregevole Festival della canzone trasmesso in tv. Ho letto parole davvero "forti" quali: aborro, disprezzo, odio. Per un Festival, per una selezione di canzonette. Diceva bene Bennato "sono solo canzonette"  e come tali vanno valutate, senza spargimenti di cenere sul capo, senza strapparsi i capelli. E questi prodi fautori della sublimazione delle Lettere, questi integralisti fautori della Verità della Bellezza, questi strilloni vanagloriosi di se stessi e della Cultura, sono gli stessi, ma proprio quelli giuro, che tacciono sulle tante cose sulle quali il silenzio non dovrebbe scendere mai. Io lo chiamo il silenzio degli innocenti, ma non perché li reputi tali, innocenti non sono, ma perché, come nel famoso film ( e come nel meno famoso romanzo ), gli innocenti sono agnelli, pecore. E le pecore belano tutte insieme e camminano insieme.

Giovanni Segantini "La tosatura"  1886 - 1887

giovedì 11 febbraio 2016

Un altro modo.


Ho ritrovato questa annotazione, risale a qualche anno fa. quando ancora scrivevo con la convinzione che ce l'avrei fatta a pubblicare le mie "creature". Capitano poi tante cose nella vita, priorità d'altro genere che ti investono come un uragano; oppure capita che, improvvisamente, ti ritrovi più vecchia e stanca e molli la presa, rinunci. In fondo, pensi, c'è la vita da vivere, quella di sempre, quella che mi porta gioie d'affetti e sofferenze, anche quelle, d'affetti. E ti butti nella mischia, prendi e sferri calci e pugni, nella speranza di lasciare il ring senza troppe contusioni e ferite. Ma, anche se ho sotterrato l'ascia, continuo a scrivere e continuo a pensare che le parole qui sotto riportate, siano quelle che mi hanno spinta, e non cessano di farlo, a vivere storie, a descrivere donne e uomini. A vedere luoghi, ad ascoltare voci e suoni. In fondo mi ritengo fortunata, non è facile mandare avanti due vite, accostarle perché non prendano direzioni opposte, perché l'una non si separi, definitivamente, dall'altra. E mi piace dedicare questo mio breve scritto a qualcuno, un cuore giovane e una mente chiara, che sta iniziando questo meraviglioso, inesauribile, turbinoso, ammaliante viaggio nelle parole.


Un libro, per scriverlo, devi prima sentirlo. Anzi devi vederlo, devi camminare lungo le strade che farai percorrere al tuo protagonista o alla tua eroina, come si diceva un tempo pensando alla principale interprete del romanzo; devi guardare i paesaggi che scorrono sotto gli occhi di lui o di lei; devi entrare nelle loro case, sederti alle loro tavole e dormire nei loro letti; devi innamorarti dei loro amori o odiarli con tutte le forze che hai, se loro li odiano; devi sognare i loro sogni e aspettare il futuro, così come lo aspettano loro. Devi imparare ad ascoltare le loro voci, le parole sussurrate, le grida di dolore, i pianti, i gemiti della passione e devi imparare a riprodurli, come fossi tu a emettere quelle parole, sussurri, grida, gemiti. Non è facile, bisogna perdere se stessi, bisogna diventare altro da sé e ci sono giorni, mesi, anni anche, in cui non puoi farlo, non ci riesci. Sei talmente arroccata alla tua vita, alle tue tiranniche abitudini, ai tuoi dispotici affetti, che resti sorda al richiamo di chi ti abita dentro. Poi, con il tempo, con il benevolo allontanarsi delle esigenze più pressanti, ti rivolgi a loro, li vedi, li osservi, li ascolti, i tuoi personaggi vengono fuori da te. Ed è una maniera diversa, ma sempre dolorosa, di divenire madre.



Frida Kahlo  " Le due Frida  "  1939

domenica 7 febbraio 2016

Mi tocca il cuore.

Sono molto arrabbiata. Sono addolorata. E schifata, anche. Il fatto è che non accetto, non è possibile, che un ragazzo di ventotto anni, con gli occhi ridenti alla vita, la perda, la sua vita carica di speranze e di sogni, per mano di "ignoti" aguzzini. I boia con o senza cappuccio si aggirano ancora, in alcuni Paesi dove la democrazia non ha diritto di esistere, dove la vita delle persone è nelle mani violente di tiranni. Giulio Regeni ha pagato un prezzo terribile alla libertà di pensiero, di parola, di azione. Perché, ancora oggi, non è concesso a tutti di potere essere quello che si è scelto di essere, non è concesso a tutti di avere un ideale diverso, un'opinione differente della società, un'utopia forse. Ma le utopie di giustizia, di eguaglianza, di libertà, nel passato, hanno cambiato gli uomini. Oggi, ai tempi della memoria smemorata,  le utopie non hanno più facoltà di esistenza, sono anacronistiche, suscitano spesso la derisione, se non il disprezzo.
Mi tocca il cuore Giulio Regeni, mi angoscia l'efferatezza della sua morte. Mi riempie di collera fredda, appuntita come una lama, il pensiero che ci siano nazioni, in questo caso l'Egitto, dove è facile sparire nel nulla e dopo, se occorre, il nulla si riempie con un cadavere seviziato. Non è ammissibile, non è umano.
Provo collera e rabbia, dolore e tristezza, ma esigo la Verità, come tanti.Un diritto dovuto alla famiglia del ricercatore, un diritto dovuto al nostro Paese. Mi viene spontaneo dire, un diritto dovuto al mondo intero, anche all'Egitto. E non mi importa che ci siano ostacoli di natura politica, o peggio, economici. Tutto scompare, ogni azione diventa insignificante, ogni frase di cordoglio non ha senso senza l'acquisizione della verità. Non è più tempo di parole di condanna, di diplomazie, di strategiche attese, di scambi. Non si può barattare questa morte con niente: sarebbe l'ultima tortura inflitta.

Giuseppe Sanmartino  " Cristo velato "   -  1753

martedì 2 febbraio 2016

Eccesso d'amore. Forse.

Una giornata quasi estiva, di quelle che ti promettono poco sudore con gli sbuffi di vento fresco sulla faccia. Il sole che annega nella pietra lavica delle facciate barocche e del selciato. Dal giardino scendono frotte di ragazzini in magliette a maniche corte e i caffè sono pieni, ai tavolini si sgomita per un posto. C'è aria di festa, agli angoli i venditori di palloncini e le lunghe baracche approntate per tentare la gola con torrone, il profumo di zucchero bruno, rappreso sulle mandorle, afferra subdolo e ti fa salire l'acquolina in bocca. Ci sono poche maschere, i bambini sono a scuola e sul marciapiede restano incollati coriandoli e fili di stelle colorati, gli operatori ecologici aspetteranno per ripulire che tutto sia finito. Poi, all'improvviso, la musica, una tarantella, un samba, un concentrato di trombe e tromboni e vedo la banda e i vigili che le aprono il varco, e in mezzo, scintillante di oro fasullo, agghindata come una sposa procace e popolana, scorgo la candelora. Svetta verso il cielo, dondolandosi, enorme ballerina di legno scolpito, sempiterna vestale della Festa e della Santa. Sì, perché questi, a Catania, sono pure i giorni della merla assente ( le temperature l'hanno ricacciata nei geli di altre latitudini); sono quelli del Carnevale, ma sono anche quelli di Agata, la giovane vergine patrona della città. Alla vista della candelora provo il solito e solitario senso di sgomento e di sconforto che, ormai da molti anni, mi assale: penso al caos che per tre giorni e più affliggerà le strade, alla cera che si squaglierà dai ceri votivi offerti per strada e che sarà causa, per molti, di dolorosi capitomboli; ai venditori di salsicce e panini assiepati sotto casa, alle urla profane e ai cori angelici che si mischiano in un unico, cadenzato, boato. E, come ogni anno, mi indigno, anzi mi arrabbio e mi piglia la frenesia di fuggire via. Una turista scatta una foto alla candelora, è sorridente, le piace quello che sta vivendo. Torno indietro, verso casa, ringhio tra i denti per la salita e quello che sarà. E senza quasi rendermene conto, chiedo perdono alla mia illustre e santa omonima. Per la follia della sua gente, per l'ostentazione sfarzosa, per il culto idolatra di cui è oggetto. E mi sfiora, mentre rasento l'ombra degli alberi, il pensiero consolante che, forse, anche questo eccesso, si può chiamare amore.


 L'Ophelia (1851-1852) di John Everett Millais

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