Una giornata quasi estiva, di quelle che ti promettono poco sudore con gli sbuffi di vento fresco sulla faccia. Il sole che annega nella pietra lavica delle facciate barocche e del selciato. Dal giardino scendono frotte di ragazzini in magliette a maniche corte e i caffè sono pieni, ai tavolini si sgomita per un posto. C'è aria di festa, agli angoli i venditori di palloncini e le lunghe baracche approntate per tentare la gola con torrone, il profumo di zucchero bruno, rappreso sulle mandorle, afferra subdolo e ti fa salire l'acquolina in bocca. Ci sono poche maschere, i bambini sono a scuola e sul marciapiede restano incollati coriandoli e fili di stelle colorati, gli operatori ecologici aspetteranno per ripulire che tutto sia finito. Poi, all'improvviso, la musica, una tarantella, un samba, un concentrato di trombe e tromboni e vedo la banda e i vigili che le aprono il varco, e in mezzo, scintillante di oro fasullo, agghindata come una sposa procace e popolana, scorgo la candelora. Svetta verso il cielo, dondolandosi, enorme ballerina di legno scolpito, sempiterna vestale della Festa e della Santa. Sì, perché questi, a Catania, sono pure i giorni della merla assente ( le temperature l'hanno ricacciata nei geli di altre latitudini); sono quelli del Carnevale, ma sono anche quelli di Agata, la giovane vergine patrona della città. Alla vista della candelora provo il solito e solitario senso di sgomento e di sconforto che, ormai da molti anni, mi assale: penso al caos che per tre giorni e più affliggerà le strade, alla cera che si squaglierà dai ceri votivi offerti per strada e che sarà causa, per molti, di dolorosi capitomboli; ai venditori di salsicce e panini assiepati sotto casa, alle urla profane e ai cori angelici che si mischiano in un unico, cadenzato, boato. E, come ogni anno, mi indigno, anzi mi arrabbio e mi piglia la frenesia di fuggire via. Una turista scatta una foto alla candelora, è sorridente, le piace quello che sta vivendo. Torno indietro, verso casa, ringhio tra i denti per la salita e quello che sarà. E senza quasi rendermene conto, chiedo perdono alla mia illustre e santa omonima. Per la follia della sua gente, per l'ostentazione sfarzosa, per il culto idolatra di cui è oggetto. E mi sfiora, mentre rasento l'ombra degli alberi, il pensiero consolante che, forse, anche questo eccesso, si può chiamare amore.
L'Ophelia (1851-1852) di John Everett Millais
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