martedì 2 febbraio 2016

Eccesso d'amore. Forse.

Una giornata quasi estiva, di quelle che ti promettono poco sudore con gli sbuffi di vento fresco sulla faccia. Il sole che annega nella pietra lavica delle facciate barocche e del selciato. Dal giardino scendono frotte di ragazzini in magliette a maniche corte e i caffè sono pieni, ai tavolini si sgomita per un posto. C'è aria di festa, agli angoli i venditori di palloncini e le lunghe baracche approntate per tentare la gola con torrone, il profumo di zucchero bruno, rappreso sulle mandorle, afferra subdolo e ti fa salire l'acquolina in bocca. Ci sono poche maschere, i bambini sono a scuola e sul marciapiede restano incollati coriandoli e fili di stelle colorati, gli operatori ecologici aspetteranno per ripulire che tutto sia finito. Poi, all'improvviso, la musica, una tarantella, un samba, un concentrato di trombe e tromboni e vedo la banda e i vigili che le aprono il varco, e in mezzo, scintillante di oro fasullo, agghindata come una sposa procace e popolana, scorgo la candelora. Svetta verso il cielo, dondolandosi, enorme ballerina di legno scolpito, sempiterna vestale della Festa e della Santa. Sì, perché questi, a Catania, sono pure i giorni della merla assente ( le temperature l'hanno ricacciata nei geli di altre latitudini); sono quelli del Carnevale, ma sono anche quelli di Agata, la giovane vergine patrona della città. Alla vista della candelora provo il solito e solitario senso di sgomento e di sconforto che, ormai da molti anni, mi assale: penso al caos che per tre giorni e più affliggerà le strade, alla cera che si squaglierà dai ceri votivi offerti per strada e che sarà causa, per molti, di dolorosi capitomboli; ai venditori di salsicce e panini assiepati sotto casa, alle urla profane e ai cori angelici che si mischiano in un unico, cadenzato, boato. E, come ogni anno, mi indigno, anzi mi arrabbio e mi piglia la frenesia di fuggire via. Una turista scatta una foto alla candelora, è sorridente, le piace quello che sta vivendo. Torno indietro, verso casa, ringhio tra i denti per la salita e quello che sarà. E senza quasi rendermene conto, chiedo perdono alla mia illustre e santa omonima. Per la follia della sua gente, per l'ostentazione sfarzosa, per il culto idolatra di cui è oggetto. E mi sfiora, mentre rasento l'ombra degli alberi, il pensiero consolante che, forse, anche questo eccesso, si può chiamare amore.


 L'Ophelia (1851-1852) di John Everett Millais

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