domenica 28 dicembre 2014

Proiettile di Natale.

Anche questo Natale è trascorso, diverso e sempre uguale, con i rituali d'obbligo a cui, ogni dicembre, promettiamo solennemente di sottrarci. E invece, puntualmente, le promesse si infrangono come le palle di vetro soffiato che adornano l'abete, non vogliamo che sia diverso. Scaramanticamente, forse, per paura che mutando abitudini anche la nostra vita possa mutare. In fondo è questo il Natale, un'epifania di buoni sentimenti avvolti nella carta dorata, infiocchettati e posti sotto l'abete; la conferma che ci siamo ancora e che ci sono glia altri. In un turbinare di finto nevischio, di jingle bells e whithe christmas sparati nei negozi e negli ipermercati,  di addobbi e gingilli trascinati dalle renne non più lapponi ma cinesi e taiwanesi, di panettoni e dolci e spumanti sbriciolati, addentati, stappati e ingurgitati e tracannati nel vociare delle tavolate di plastica rossa. Tutto come l'anno prima, tutto accettato e anche accolto, come si accoglie un vecchio amico che, sappiamo, ci riporterà indietro, al tempo incantato della nostra infanzia.
Fuori, è fuori da noi, non ci appartiene. Le notizie tristi e sconvolgenti di sofferenze e dolore si impastano con il sapore dolciastro dell'uvetta e dei canditi.
Va bene anche questo, per una volta. Per una volta si può dimenticare, solo il tempo di assaporare il calore degli abbracci e delle risate di chi ci ama e di chi amiamo.

Proiettile 2012


Arriva diritto al cuore
un proiettile di luci,
di carta crepitante,
di sacri canti alcolici.
Il panettone tronfio
raccoglie le bocche
attorno all’agrifoglio
sul tavolo ora spoglio.
Spoglio di te, mischiata
alle assenze lontane
Assenza preziosa
mi tremi nel petto
mi scorri negli occhi.

Aspetterò ancora.

mercoledì 17 dicembre 2014

Un'omelia? No, uno sberleffo.

Oddio, non è poi tutto tempo gettato alle ortiche, quello impiegato a beccare qua e là nell'aia sovraffollata dei social. Si possono apprendere tante cose degli umori vaganti, tante manie e piccole e grandi fobie degli sconosciuti nomadi che ci accompagnano, accostandosi precariamente a noi nello spazio di un commento. Non è necessario avere grande familiarità con la psicologia per capirne le motivazioni e, spesso, le frustrazioni.
Da ieri, come recentissimo esempio, dilaga una querelle sullo spettacolo offerto dalla Rai in cui Roberto Benigni ha fatto da mattatore, esibendosi in una personalissima interpretazione dei Dieci Comandamenti. Apriti Cielo! è proprio il caso di dirlo, le critiche negative, accanto agli elogi entusuastici, si sono sprecati. Delle lodi sperticate non sto a parlarne, le lodi verso altri, annoiano i più. Mi soffermerò invece sulle critiche. Gli si è attribuito di tutto e di più, dalla reità per avere ottenuto un compenso stratosferico, all'atteggiamento compiaciuto, quasi mellifluo, dei toni e delle parole allorquando il tema di uno dei comandamenti gli permetteva di trovare analogie con la società contemporanea, in particolare con la vita politica in Italia e con tutto quello che ne consegue e che ben conosciamo, purtroppo. Lo si è tacciato di cinismo, opportunismo, superficialità. Concordo con chi ha scritto che i temi dell'attualità che oggi ci affliggono così funestamente, non sono da riderci sopra. Ma ecco dove, secondo il mio umilissimo parere, consiste la svista, ecco dove l'obiettivo non ha messo a fuoco l'immagine: Roberto Benigni non voleva la risata facile, a bocca spalancata, no. Voleva, invece, il sorriso triste e disincantato, ma anche ferocemente irriverente, quel sorriso che è un'unghiata alla faccia corrotta del potere. Come a dire, badate bene, voi della politica, voi sbruffoni e maneggioni, badate bene che sappiamo chi siete e non vi permetteremo di prenderci ancora a lungo per i fondelli. Ecco, secondo me, il tono di Roberto Benigni, era quello di uno sberleffo, del pernacchio di Eduardo e di Totò. L'unica arma che il popolo minuto è in grado di sguainare sotto il naso arrogante del potere.
Concludo questa mia riflessione con una breve notazione che, in verità, è una richiesta di chiarimento: ma perché, in molti utenti di Fb ( anche in insospettabili signori e signore dal piglio autorevolmente intellettuale) è diffusissimo il ricorso alla scrittura in caratteri maiuscoli, quando vogliono esprimere un concetto particolarmente a loro congeniale e caro? Che io sappia, Fb non ha un sistema audio e quindi è inutile fare la voce grossa; che io sappia chi è affetto da sordità, non  sentirebbe neanche a pochi centimetri e chi invece non lo è, non gradirebbe il vostro urlare; gli unici a beneficiarne potrebbero essere quelli, come me, affetti da gravi problemi alla vista. Grazie, ne facciamo volentieri a meno.

venerdì 12 dicembre 2014

I silenzi trasparenti.

Ci sono segreti vissuti con una sofferenza silenziosa, che non si vuole mostrare, traspare dai gesti e dagli sguardi. Traspare dai silenzi, silenzi improvvisi, che lacerano il drappo e svelano.

Parlami
Non restare in piedi
con le mani affondate
nei pugni chiusi, non ti vedo.
Non restare col capo basso
non c’è niente per terra
solo polvere caduta dalla tua bocca
Non vedo i tuoi occhi sono nebbia nella stanza, 
non riflettono la lampada
che ti accende i capelli di grigio.
Parlami, dimmi cosa è stato
Di te e di me, della stagione
Vecchia attaccata al mio petto
Come un bambino affamato.
Parlami dei tuoi passi incerti,
delle tue visioni di libero eremita,
Parlami ed esci dal gorgo informe,
accostati a me, senza paura di mentire.
Parlami e, se vuoi, raccontami ancora menzogne,
 io le riconosco nella ruga
scura della tua fronte, nella piega molle della tua maglia,
nel buco dei tuoi occhi morti io non mi perdo più.
Ma tu, parlami, parlami anche se sei stanco.


René Magritte - L'invention de la vie   1928


 

domenica 7 dicembre 2014

Lettera d'amore

Molti anni or sono ho trascorso alcuni mesi della mia vita a Roma. Ero una ragazza con la testa piena di sogni e gli occhi assetati di bellezza. E la bellezza la scoprivo ogni giorno nel mio girovagare, quando ero libera dagli impegni di lavoro, per le strade della città, nei Musei e nelle Basiliche, nelle scalinate; la scoprivo affacciandomi a piccole piazze nascoste da palazzi imponenti, quasi delle corti che custodivano,a guisa di scrigni, un gioiello al centro; la scoprivo passeggiando nei pressi di S. Pietro in Vincoli, in un silenzio autunnale con la sola compagnia del frusciare delle foglie; la scoprivo, recandomi di sovente a ristorare cuore e cervello con la perfezione della Piazza del Campidoglio che mi estasiava per l'armonia delle proporzioni, lasciandomi smarrita nel tramonto; e ancora, addentrandomi nel ghetto ebraico che conservava, allora, botteghe e signori dall'aria seria seduti sulle sedie davanti all'uscio dei negozi. Camminavo senza una meta precisa, non avevo mappe, non ce n'era bisogno, Roma era pronta ad accogliermi, era là protesa incontro a me, generosa nel mostrarmi l'incanto delle sue pietre. Io intanto accaparravo , mettevo da parte, per il futuro distacco, tutta quella ineguagliabile grazia. La sentivo talmente mia la città che non riuscivo a scorgerne altro. Sì, era anche la Roma caciarona, era la Roma spocchiosa che, spesso, debordava dalle voci dei suoi cittadini, era anche questo. Ma non mi importava, non ascoltavo, i miei sensi erano assopiti, esisteva solo quello della vista e mi abbagliava. Sono tornata altre volte a Roma, non più sola, ed è stato diverso. La spartivo con altri e godevo poi dello stupore negli occhi dei miei bambini e di chi ne conosceva gli aspetti più noti. Mi è rimasta nel cuore, non è la mia città natale, ma è come se lo fosse.
Oggi, leggendo quello che le si è rovesciato addosso, tutto il putridume accumulato da uomini sudici della politica e da criminali protetti in un intreccio puteolente di affari e di pecunia, provo un dolore sordo, una collera fredda che mi bruciano e raggelano. Mi chiedo come sia potuto accadere, mi chiedo quanti silenzi colpevoli ci sono stati e tuttora ci sono. Poi ecco, rifletto e allora tutto si fa chiaro, si illumina di una luce sordida: Roma è la capitale, Roma è il serbatoio, Roma è la custode dei tesori d'arte; ma è anche la custode delle turpitudini, delle oscenità taciute. Roma è un enorme specchio che rimanda a tutti la visione di quello che siamo diventati, un unico smisurato immondezzaio.
Addio, mia bella, addio. Un tempo eri caput mundi, oggi sei caput immundi.
Spero, con amore, che la tua bellezza possa ancora salvare te e tutti noi.

lunedì 1 dicembre 2014

Dicembre!

Dicembre. Sinonimo, per i cristiani, del Natale. Con tutto quello che ne consegue in termini di festeggiamenti, addobbi, corse affannate per negozi alla ricerca della strenna utile-inutile e poco costosa - c'è la crisi e c'è che morde l'anima a spendere con tanta gente a spasso in giro - ; propositi per l'anno che si accinge a emettere il primo vagito, e sono di solito, buoni propositi. Non soltanto ci si ripromette, infatti, di cambiare tutto della propria vita, ad esempio casa, stile di vita, partner anche e perché no? Ma  si aggiunge alla catasta di ripensamenti, la suprema aspirazione, quella più vecchia ( sempre per noi cristiani) e ahimè la più disattesa, di essere migliori, nel senso dell'umana bontà. Si è colti dall'afflato universale del caritatevole amore per l'altro e per le necessità dell'altro. Ci costringiamo, per un mese o anche per un giorno (meglio non esagerare, si corre il rischio della scarsa credibilità), al perdono e alla compassione, appendendoli accanto alle palle di vetro, ai rami dell'abete; mescolandoli al muschio che ricopre il presepe, qualora dovessimo prepararlo ad accogliere la Lieta Novella.
Sì, vogliamo stare bene con noi stessi, per una volta, saperci buoni. Ma le lucine dell'albero scintillano nelle nostre case e fuori c'è l'oscurità dove è così facile perdersi: è sufficiente una parola, della quale si disperdono il suono e il significato nell'aria resinosa di dicembre; è sufficiente un gesto che non arriva o che arriva e ha il peso di una sberla; è sufficiente una delusione, la risposta mancata alla letterina spedita a Babbo Natale perché "quella" scatola piena di sogni arrivi a destinazione, trasportata dalle renne, col suo bel fiocco rosso natalizio, ed ecco che il buio può inghiottire noi e le nostre pie predisposizioni.
Dicembre. Sinonimo del Natale e della bontà del panettone e del torrone; della frutta secca e di qualche bicchiere di vino in più; della famiglia riunita e dei bambini più piccoli che si esaltano, timorosi anche, aspettando il papà o il nonno vestiti come il vecchio calato dal Grande Nord; e della speranza di essere buoni, per una notte almeno, con noi stessi e con gli altri. Come ogni anno, come ogni notte di ogni Santo Natale, che possa durare, almeno, fino all'alba del giorno dopo. E poi le lucine si spegneranno, in attesa di brillare nuovamente, in un'altra magica notte di Natale.

Marc Chagall: Solitude - 1933

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