sabato 29 giugno 2013

Domani, il mare.

Domani andrò al mare. Se non farà troppo caldo, se non tirerà troppo vento - intendo quello della mia isola, sabbioso e dritto dritto dall'inferno alle sue coste - se non ci sarà troppa fila sulla strada che porta a lui, strombazzare di clacson e bambini urlanti che sporgono dai finestrini e temo sempre che capitombolino fuori, e i semafori che restano fissi al rosso per interminabili minuti, quelli che bastano per maledire l'idea di prendere una boccata di aria salmastra. Da me, il mare è a portata di voce, di orecchie e di occhi, basta scendere lungo il largo viale che taglia la città e lo trovo, ribollente di schiuma in inverno, piatto e affollato in estate. Il mio mare ha scogliere di lava colata dal vulcano ai tempi dei Ciclopi, sulle quali nella bella stagione si improvvisano terrazze di legno che puntualmente la prima mareggiata spazza via; oppure ampi, surriscaldati spiazzi di cemento, versato come latte rappreso sulle rocce per favorire il rituale della tintarella e i giochi dei bambini. Poco più lontano, spingendosi verso sud (c'è chi è più a sud), il rettilineo intasato, brulicante di multicolori scarafaggi rombanti, costeggia l'arenile più imponente che abbia visto, per chilometri e chilometri. Il mare qui è di colore verdolino, tiepido e ricco di alghe brillanti: tra la rena, scavando sul fondo inginocchiata con la risacca che spinge verso la battigia, trovo ancora qualche tellina, piccolo tesoro da cuocere con un sughetto stretto e gustoso. I bambini sono sempre quelli della mia infanzia, i miei compagni di un tempo, e costruiscono fossati e castelli e sirene adagiate che l'onda dispettosa sgretola e poi ricopre. Niente è cambiato in fondo, c'è ancora il venditore di cocco immerso nel ghiaccio, ci sono papà e mamme, ragazze e ragazzi che rincorrendosi schizzano mare e sabbia, mentre i venditori di collanine e occhiali girano tra gli ombrelloni, stancamente, sono solo loro la diversità, da allora. Allora ero felice nella mia nuova pelle estiva, d'un bel bruno dorato, levigata come un ciottolo di fiume, i capelli del colore della stoppa per il sale e i raggi roventi.   Domani andrò al mare per ritrovare ancora quella bambina che lo amava, quel mare. Forse è con quegli occhi  che dovremmo guardarlo e con quelle orecchie e con quel cuore di bambini che dovremmo sentirlo, per amarlo ancora, il mare.


(Nell'immagine: Mare di Piero Guccione)

mercoledì 26 giugno 2013

E non c'è niente da capire.

Ascoltando De Gregori, la sua canzone "E non c'è niente da capire", mi è passato per la mente, come una saetta incendiaria o anche una molotov scagliata contro il cervello, un pensiero straordinariamente abbagliante.  Folgorata come Paolo sulla via di Damasco mi sono detta che è vero, è così, non c'è nulla da capire perché è tutto così come appare, senza nebbie, senza sfumature. Evidente e rassicurante in un certo senso. Gli affetti più cari a portata di orecchie e di occhi, le amicizie un poco trascurate e un poco cercate, la gente che mi circonda senza volto nella città, rimane quella che voglio che sia, circonfusa da un alone indeciso che ne altera i tratti e me la rende, di volta in volta, simpatica o antipatica. Poi c'è la politica, il chiodo infisso da tanti anni e non c'è verso di togliermelo, non c'è tenaglia per strapparlo; ma anche quella, la politica, è diventata un cerimoniale vecchio al quale ho fatto il callo, anche qui non c'è niente da capire, è un vestito frusto buono da indossare a ogni stagione. Però, ogni tanto continuo a cadere nel tranello, l'insidia sotto il manto vellutato di frasi e di gesti: continuo ostinatamente, mula ignorante, a ripetermi che un fatto o una persona abbiano una verità peculiarissima che io  riesco a cogliere ed ecco mi fingo (ah! indimenticabile Leopardi) a scorgerne pregi, anche difetti certo, ma in massima parte pregi che in realtà non esistono. Sono io che costruisco con la mia fantasiosa voglia di adeguare ai  miei umori, quell'essere umano affabile, buono, comprensivo, generoso; o, parimenti, antipatico, cattivo, inaffidabile, egoista. Mi ritraggo dalla mia creazione e da me stessa provando uno smarrimento triste, avverto il tradimento di quella mia immagine con delusione e rimpianto, poi d'improvviso una canzone mi distoglie da foschi presagi di mesti soliloqui. De Gregori irrompe suadente e malinconico e sommando la mia malinconia alla sua, ritorno a sorridere. E non c'è niente da capire, va tutto bene così.

lunedì 24 giugno 2013

Dal passato, nel vento.

Il passato mi sorprende  disarmata, mi afferra per la mano e mi trascina con sé, mi strappa dalla sedia in cui, con la schiena dolorante, sono seduta ad aspettare un segno dal presente. E invece arriva squarciando il cuore. Un sussulto, un senso di stupore mi allarga gli occhi che si riempiono di un'immagine rimossa, chissà dove ti avevo nascosta, chissà in quale buco dell'anima in tutti questi anni convulsi e spesso ciechi. Una campagna di fine novembre (o forse era già inverno?), con l'erba di stoppa gialla, i monti senza neve e spelacchiati della Sicilia dopo una luciferina estate, i casolari di gente solitaria, dimenticata da tutti. Ricordo il vento di quella giornata senza sole, un vento freddo che le arrossava le guance e le arricciava i capelli, mentre  mia figlia galoppava instancabile puledro su e giù per la strada sterrata, su e giù per i campi secchi, alla ricerca di una coccinella o di una farfalla, senza sapere che erano ormai svanite assieme al calore estivo. Ricordo le canzoni cantate e la chitarra e un amico medico alla batteria e noi che ridevamo, un po' maliziosi e divertiti perché il baccano della città riempiva le strette strade e le case del paese. Lui se ne stava là con noi, gli occhi neri ironici e brillanti, il sorriso che mi appariva ora timido ora spavaldo e forse era tutte e due le cose, i gesti teneri verso i bambini che lo rendevano simile a loro e lo amavano, i bambini, come un compagno di giochi, il migliore. Immagini si affollano e si sovrappongono e molte sono come io voglio che siano, perfette ed eterne; altre mi sfiorano appena, lambiscono la mente e non si lasciano afferrare. Ma questa è qui, viva davanti ai miei occhi, questa niente può toglierla, né tempo, né destino. Li  vedo, li vedo con i il mio sguardo incerto e umido e sono qui per sempre. Una bambina ridente abbracciata a un giovane bruno, nel vento di un lontano novembre.

giovedì 20 giugno 2013

Nonostante tutto, l'allegria.

Nonostante tutto quello che accade intorno a me, nonostante i miei affanni che si consumano in volute di fumo; nonostante quest'estate incombente e i meteorologi saggi che con pervicace insistenza affibbiano all'anticiclone di torride tempeste, nomi evocatori di oltretomba arcaica o di dantesca memoria; nonostante le notizie di apocalittiche catastrofi seminate qua e là sul web da scienziati altrettanto saggi, nonostante tutto questo apparire e scomparire di funesti segni e di ansiosi sogni, mi accorgo di essere viva, a volte anche allegra. Allegria è una di quelle parole che amo d'un amore viscerale, quasi materno, non so a voi che leggerete, ma per me  "allegria"  è di colore azzurro intenso, profuma di spezie e anche di lavanda, e ha il volto e le forme di una donna incinta. "Allegria" è un grande contenitore, come un ventre materno appunto,  come un mare materno in cui posso sguazzare senza essere costretta a guardare l'orizzonte o il limite dell'isola verso cui dovrò nuotare. Non dura molto, ma mi basta per andare avanti, mi è sufficiente per affrontare la notte che cala, massiccia e ingombrante e la caccia via, senza pietà.    Ascolto la distanza che mi parla al cuore, provo a capire la solitudine, nelle lunghe ore di silenzio notturno, tra un tarlo che rosicchia un mobile e il volo di una zanzara prima che atterri sul mio corpo; fuori c'è una sfacciata luna e qualche stella, striminzita dalle luci della città,  il mio chiù grida dal giardino di sotto, è un richiamo al sonno, non è lugubre come si crede. Nel buio scopro molte cose di me, mentre la mente precipita in un torpore che non è quieto dormire, è veglia incerta, coscienza in apparente ozio.
Faccio progetti con gli occhi serrati dalla stanchezza, progetti che al mattino la luce spezzerà e lo so mentre li faccio. Ma continuo a farli, instancabile tesso una tela di cose da fare e da non dire, di parole da non pronunciare e di altre da gridare. Poi anche il mio chiù tace, si è addormentato. Lentamente lo seguo.

lunedì 17 giugno 2013

Sedotta dall'imbecille.

Vorrei scrivere un saggio sull’imbecillità dell’uomo – non ne ho le competenze e non lo farò-  è un tema affascinante, seducente direi. L’imbecille mi attrae con irresistibile forza, mi stupisce, mi disarma. L’uomo o la donna imbecille è sicuro di sé sempre e ovunque, ha il potere dell’ubiquità e dell’eternità, non teme l’inesorabile scorrere del tempo, né lo smarrimento in luoghi impervi, quelli del linguaggio e delle cose a lui sconosciuti (adora i luoghi comuni, ne fa indigestione); si avventura ciecamente fiducioso di se stesso e scorrazza nella vita sua e degli altri brandendo le parole come una clava –l’imbecille viene prima dell’homo sapiens- e colpendo tutto ciò che gli capita sotto tiro. Ha un solo maestro e un’unica bussola a indicargli il cammino, se stesso e l’esperienze che si porta a zavorrarlo. In base a questi due dogmi, l’imbecille giudica il prossimo, commenta l’operato dei suoi compagni di viaggio, combatte l’eterodossia con ferrea saldezza. L’imbecille, se ci si pensa, usa spesso toni apodittici, è plateale nei gesti e preferisce il sorriso compiaciuto alla franca risata. Non ha mai dubbi, guai, il dubbio è il suo peggior nemico, non cambia mai opinione, se ne fa scudo per procedere pancia in dentro petto in fuori. Tutt’al più evita, scivola sapientemente sugli argomenti a lui sgraditi, mostra scarso interesse, sbadiglia e finisce per andarsene sempre più impettito nella sua imbecillità. Ma, se costretto con le spalle al muro, urla a squarciagola, si infuria paonazzo in volto e lascia che sia l’interlocutore a deporre le armi perché spaventato non dalle sue parole, ma da un’apoplessia fulminante. Così l’imbecille vince e il soccombente è colui che ama la logica del dialogo. Io ho imparato, con gli anni, a starne lontana se posso. La vita però è variegata e anche ingiusta e a volte capita di dover sopportare per  motivi contingenti, anche affettivi, l’imbecillità e allora indosso la mia corazza di pazienza e chiudo le orecchie, faccio una serie di respiri profondi e a chi mi chiede se sto bene, rispondo: sì grazie, tutto bene, è solo che oggi mi sento un poco imbecille. Solo un poco però.


venerdì 14 giugno 2013

Senza Follia, senza Espiazione.

Sto leggendo un libro di Javier Marìas, ambientato a Oxford e non ho ancora capito se mi piaccia o meno. Per adesso, l'unico sentimento che mi suscita è di blanda curiosità, le descrizioni di personaggi e luoghi sono talmente riconoscibili negli stereotipi dell'immaginario comune per quanto concerne la società anglosassone da risultare appena appena ironici. Leggo, interrompo la lettura e ricordo altri libri, quelli dei miei autori inglesi preferiti, moderni se non contemporanei, penso alla Woolf, a McEwan, anche a McGrath se pure in misura minore, scrittori che hanno eretto nella mia mente fantasiosa, un edificio magnifico dedicato al Regno Unito e alle sue virtù e ai suoi vizi, perenni le une e gli altri. La terribile, coloratissima, verdissima, musicalissima, umidissima, (quante -issime da appiopparle) Londra avrà sempre per me un senso tutto suo e tutto mio: di ferite laceranti e di speranze fitte come i suoi parchi; di notti ansiogene e di giorni caoticamente vivi; di umane, oscure brutalità e di caprioli e volpi e scoiattoli che passeggiano accanto a te. Di solitudini infinite e di folle altrettanto infinite. Follia (McGrath appunto) ed Espiazione (McEwan appunto) e niente più o forse una o due Mrs.Dalloway (l'amata Virginia!).
Dalla tv, dai siti web intanto rimbalzano le notizie che riguardano noi, senza follia e senza espiazione, volgarmente banali, i quotidiani battibecchi delle menti eccelse della politica, l'insulto di una donna indegna a una signora solo perché ha la pelle di colore differente dal suo, il Vaticano e gli scandali dei suoi adepti; un breve flash sulla Turchia e i ragazzi che, loro sì follemente innamorati di un'idea, scuotono il Palazzo; un altro, anche più breve sull'eterna ormai Siria, un bambino poco più alto di un metro corre con un fucile tra le mani e a chi vuoi che importi, non a noi, non qui da noi, siamo troppo impegnati a ridere amaramente delle nostre sorti, a vomitare epiteti, ad aspettare che si facciano le leggi in un Parlamento semivuoto. Esausta, come morta, stacco tutto. Riprendo in mano il libro di Marìas, lo apro alla pagina segnata e ricomincio a leggere. Mi piacerà, sono sicura che mi piacerà.

foto di Steve McCurry

martedì 11 giugno 2013

Le passioni sono dure a morire.

L'Italia pende a sinistra, così parrebbe. Ma io che appartengo alla folta schiera dei veri vincitori, gli astenuti, sto a guardare  un poco scettica e un poco, solo un filino però, speranzosa. Ancora non mi fido, che volete, mi sento una vecchia volpe spelacchiata che annusa l'aria per sentire l'odore dei cani che la inseguono e preferisce la tana. Direte: comodo, non partecipare ai giochi, all'eterno correre di qua e di là alla ricerca di un luogo  dove poter sbeffeggiare il nemico. Io direi piuttosto che si tratta di sopravvivenza, egoistica quanto si vuole, ma certamente mi preservo, tolgo la carica al mio cervello, lo lascio riposare: i meccanismi, di per sé già arrugginiti, rischiano di spezzarsi di fronte allo spettacolo di incoerente follia. E non mi vengono in aiuto le analisi dottissime degli addetti ai lavori, giornalisti, politologi, sociologi e variologi vari, anzi aumentano la mia spropositata confusione. Poco più di tre mesi fa, gli italiani riscoprivano la bontà e la affidabilità di un allegro signore, dedito ai piaceri della vita (sua, non degli italiani), e oggi gli voltano le spalle; nel contempo, fuggivano inorriditi dai signorotti, anch'essi in là con gli anni, di una sinistra che ormai ritiene che sinistra voglia dire infausta, avversa, bieca o al massimo voglia indicare la mano mancina, e oggi li riabbracciano pentiti e commossi. Per non parlare degli italiani che poco più di tre mesi fa, avevano trovato la luce nel buio delle loro vite in un firmamento di 5stelle che oggi temo, e me ne dispiaccio per loro, siano prossime a scomparire nel buco nero di questo nostro suggestivo, straordinario universo politico.  Ragion per cui, aspetto e osservo i giovani della Turchia, i giovani della Siria, i giovani disoccupati e precari (sono diventati solo dei numeri da citare con seriosa preoccupazione) e ancora aspetto. Ecco non ho resistito, non volevo parlare di politica, ma l'ho fatto.  Le passioni sono dure a morire, porcaccia miseria.

venerdì 7 giugno 2013

Il toro per le corna.

Le cose succedono e non ti chiedono il permesso per sconvolgerti la vita, in meglio o in peggio: accadono e basta. Così capita che un gruppo di teste di rapa esaltati, fascistacci dei nostri giorni, squallidi giovani alla deriva dalla vita, immersi e sommersi da un odio del quale non sanno neppure spiegare le ragioni, aggrediscano un gruppo musicale, forse solo perché sono diversi da loro, forse perché amati da altri ragazzi come loro, forse perché credono in qualcosa che sta talmente al di sopra delle loro piccole teste senza cervello, puri involucri di ossa e pelle, da sentirsene schiacciati. O forse non sentono neppure questo peso, non sentono nulla, Sono il nulla.
Le cose capitano, capitano e non puoi prevederle. Ma una volta accadute, non puoi fingere che non siano accadute, vanno affrontate, si dice che il tori va preso per le corna, anche se questa immagine mi riporta a visioni truculente da corrida. Allora chi si è assunto l'onere di governarci deve affrontare quello che accade e prendere una decisione, l'unica possibile, combattere a muso duro contro chi pensa che l'altro, quello che non piace per un motivo qualunque, di pelle, di religione, di razza, di sesso, di appartenenza politica, possa essere attaccato con la violenza fisica e con quella verbale anche, quando questa diventa minaccia all'integrità. Mi chiedo se è fattibile, mi chiedo se è ancora credibile in un Paese che non sa più chi sia, dove è diventata normale l'anomalia della corruttela e della illegalità, un Paese smemorato e vecchio, dove i vecchi non vogliono avere saggezza, eccetto alcuni, e i giovani, la nostra ricchezza, non sanno di esserlo perché nessuno glielo ricorda con il giusto amore.

lunedì 3 giugno 2013

Giugno, le vacanze e i senza appello.

Ed ecco giugno, mese di passaggio, mese del solstizio d'estate, mese di progetti per le ferie sacrosante che per molti saranno da santificare nel santuario delle proprie case, se va bene si potrà sperare in una gita fuori porta, al mare, e chissà se anche il mare non si metta in ferie, gli toccherebbe pure un po' di pace, meno gente, meno oli e creme galleggianti a renderlo simile a un vecchio leopardo; meno code sulle arterie e il vento che spira dal mare penetrerebbe nelle strade e nelle piazze, ristorando con fresca salsedine le nostre stanze. Mi vengono in mente le vacanze da bambina, erano così, senza grilli per la testa, di grilli c'erano quelli che saltavano e cantavano in campagna, quando si poteva andare; per il resto c'erano mattinate sulla sabbia che ti levigava come un ciottolo e il sole che ti abbrustoliva come un chicco di caffè. I pomeriggi al chiuso, solleone ruggiva anche allora, e il silenzio di quelle ore me lo porto dentro, denso e sensuale come una donna nuda. La sera, il massimo era il cono che si squagliava fino ai gomiti, mentre passeggiavo con il naso per aria, seguendo i genitori e le stelle: brillavano allora, erano vive sulla città. Ricordi che giugno ha incollati addosso. Come allora E rappresenta il mese della fine della scuola, anche questa è ed era una gioia, quando va bene. I ragazzi aspettano l'esito e ci saranno, come sempre pianti e recriminazioni, ma anche, se Dio vuole, allegria e cori di esultanza. Respinti o promossi o in attesa di giudizio. E a tal proposito, un pensiero balzano mi sovviene: dico, se è vero che i cittadini sono tutti uguali, perché non applicare a tutti questo criterio? Un esempio lampante, si dice che ci sia nel nostro amato Parlamento, una scarsa presenza di addetti ai lavori, pagati da noi è ovvio, i signori e le signore eletti e strapagati, da noi, spesso sono assenti e latitano, vuoi per motivi validi, vuoi, e qui casca l'asino, per motivi che di valido non hanno un bel niente. E allora? Perché non sanzionarli severamente, come si usa fare con allievi indisciplinati e reticenti al dovere?  Sarebbe un atto democratico davvero, onorevoli, gli esiti degli scrutini sono affissi:promossi o respinti. Senza appello.

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