venerdì 29 novembre 2013

Ogni persona è un uovo con sorpresa.

Nella vita non si finisce mai di imparare, aveva ragione Eduardo, gli esami non finiscono mai e bisogna stare sempre sui libri. E non si finisce mai, aggiungo io, di conoscere le persone. C'è sempre di che stupirsi, c'è sempre un coniglio che salta fuori dal cilindro, un asso nella manica, sorprendenti involucri da scartare. Ed è tutta una sequela di caimani che lacrimano, mentre affilano i denti pronti ad azzannare la prossima vittima; di canuti o elegantemente brizzolati signori che insidiano, bavosi come lumache, ragazzine stupide e trascurate; di impeccabili algide donne, sempre sull'orlo di un estatico stupore nei confronti del maschio dominante, virago scagliate come bombe incendiarie nella strenua difesa del loro totem.
Ma tutto questo altrui dimenarsi nelle passioni scomposte appare talmente distante dal nostro quieto vivere, da ritenerci intoccabili, dei paria benedetti dalla buona sorte. E invece ecco che la sorpresa, anzi l'uovo contenente la sorpresa per noi ci sta a fianco, con il suo guscio liscio, d'un candore abbagliante, innocente. Ma il guscio è fragile cosa, basta un piccolo urto e l'uovo si spezza in mille schegge trasparenti e la sorpresa emerge, vischiosamente.
E niente è più come prima, il materiale si appiccica addosso sporcando tutto quello con cui viene a contatto. Le persone che credevamo di conoscere sono impiastricciate e non riconoscibili, bisognerà ripulirle. O dimenticarle. O imparare a conoscerle meglio, scrostando ogni patina, ogni mano di vernice brillante che, negli anni, gli abbiamo dato noi e che loro hanno, di buon grado, accettato. Perché non sono loro, le uova con sorpresa o meglio le persone, ad avercela nascosta, siamo noi che non abbiamo avuto né la voglia, né il coraggio, né la curiosità di scartarla, di vederla quella sorpresa. Le persone sono sempre state quelle che sono, nella nostra e nella loro vita, ferme ad aspettare che noi imparassimo a capire, a conoscerle.
Immobili e  bugiarde con noi , ma sempre uguali e sincere con se stesse.


Salvador Dalì:  Metamorfosi di Narciso  1936 - 1937

lunedì 25 novembre 2013

Non con le mie parole.

Non con parole mie, ma con quelle di un poeta voglio ricordare questa giornata.
Alle donne, alle mie amate figlie, alle mie care sorelle, amiche e compagne di viaggio.

Perch'i' no spero di tornar giammai

Perch'i' no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va' tu, leggera e piana,
dritt'a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli' e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m'abbandona;
e senti come 'l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch'i' non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l'anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu' amistate
quest'anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu' ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se' presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d'Amore».

Tu, voce sbigottita e deboletta
ch'esci piangendo de lo cor dolente
coll'anima e con questa ballatetta
va' ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim', e tu l'adora
sempre, nel su' valore.
Guido Cavalcanti  1258 - 1300








domenica 24 novembre 2013

Il tempo ha un corpo.

Ma quanto corre il tempo? Ma che accelerazione dà alle nostre vite? Mi guardo dietro e le immagini sono nebulose visioni di paradisi perduti per sempre, di miraggi sepolti, di risate senza più allegra eco. Mi stupisco ancora e ancora del susseguirsi di cicli lunari e di stagioni, fulminei battiti di orologi a pendolo; a volte mi balena l’idea bislacca che gli scienziati si siano persi nel labirinto delle loro teorie, che l’entità astratta che definiamo tempo si prenda gioco di noi: il tempo ha deciso di imprimere uno scatto da Ferrari al suo rally e nessuno se ne è accorto. Ma è solo l’inganno della mente che rifiuta che il presente diventi passato; o meglio che il futuro possa diventare un incubo peggiore del presente. Rovelli, elucubrazioni notturne, sterili assilli del quotidiano vivere. Può darsi che  il tempo sia semplicemente una coincidenza delle nostre azioni; un dispiegarsi della volontà perché accada un evento; oppure un piegarsi della nostra volontà  alle azioni  di altri. Non so neanche io perché senta la necessità di prendermene cura, la necessità di parlarne: timore forse? L’angoscia della resa? Potrebbe essere. E in me, irrefrenabile, monta una noia sconfinata verso il mormorio che si leva dalla platea di cui anche io faccio parte; assieme al desiderio di porvi rimedio e, non avendo altre armi, di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi,  di imbavagliare la bocca. Come le famose tre scimmie. Orribili a vedersi, detestabili simboli dell’umana bestialità. Mi resta un tempo mio, quello sì sconfinato. Il tempo che racchiude i sacri affetti, non è retorico definirli sacri, oggi che di sacro non vi è più niente. 
Osservo, con discrezione, le persone che amo, ne guardo i volti e ne ascolto le parole, mi abbandono alla loro cauta allegria e partecipo delle loro ansie e delle loro timide speranze. Li scorgo sorridere incerti e vorrei tramutarmi in un clown perché la loro risata diventi un’esplosione di gioia; li scorgo vacillare nella tristezza di un giorno buio e vorrei tramutarmi in un bastone perché possano appoggiarsi ad esso per non cadere. D’improvviso, il tempo ha un corpo, anzi tanti corpi quanti sono le persone amate. D’improvviso posso accarezzare il tempo.



René Magritte :  La condizione umana II   1935 



Il tempo ha un corpo.

Ma quanto corre il tempo? Ma che accelerata dà alle nostre vite? Mi guardo dietro e le immagini sono nebulose visioni di paradisi perduti per sempre, di sorrisi sepolti, di risate senza più allegra eco. Mi stupisco ancora e ancora del susseguirsi di cicli lunari e di stagioni, fulminei battiti di orologi a pendolo, a volte mi balena l’idea bislacca che gli scienziati si siano persi qualcosa, che l’entità astratta che definiamo tempo si prenda gioco di noi, ha deciso di imprimere uno scatto da Ferrari al suo rally e nessuno se ne è accorto. Ma è solo l’inganno della mente che rifiuta che il presente diventi passato; o meglio che il futuro possa diventare un incubo peggiore del presente. Rovelli, elucubrazioni notturne, sterili assilli del quotidiano vivere. Può darsi che  il tempo sia semplicemente una coincidenza delle nostre azioni; un dispiegarsi della volontà perché accada un evento; oppure un piegarsi alle azioni di altri. Non so neanche io perché senta la necessità di prendermene cura, la necessità di parlarne: timore forse? L’angoscia della resa? Potrebbe essere. E in me, irrefrenabile, monta una noia sconfinata verso il mormorio che si leva dalla platea di cui anche io faccio parte; assieme al desiderio di porvi rimedio e, non avendo altre armi, di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi, imbavagliare la bocca. Come le famose tre scimmie. Orribili a vedersi, detestabili simboli dell’umana bestialità. Mi resta un tempo mio, quello sì sconfinato. Il tempo che racchiude i sacri affetti, non è retorico definirli sacri, oggi che non vi è più niente di sacro. Osservo, con discrezione, le persone che amo, ne guardo i volti e ne ascolto le parole, mi abbandono alla loro cauta allegria e partecipo delle loro ansie e delle loro timide speranze: Li scorgo sorridere incerti e vorrei tramutarmi in un clown perché la loro risata diventi un’esplosione di gioia; li scorgo vacillare nella tristezza di un giorno storto e vorrei tramutarmi in un bastone perché possano appoggiarsi ad esso per non cadere. D’improvviso, il tempo ha un corpo, anzi tanti corpi quanti sono le persone amate. D’improvviso posso toccarlo il tempo.




giovedì 21 novembre 2013

Il coraggio di dire NO

In questi giorni di fine novembre, un ciclone vero si è abbattuto sul nostro Paese, sulla Sardegna, isola di gente rocciosa e taciturna. Isola diffidente, appartata dalle convulsioni del continente, decentrata, un po' come lo sono tutte le isole e i loro abitanti. Isola ancora più isola forse della Sicilia, perché più largo è il tratto di mare che la separa dalla terraferma. Se non fosse per le incursioni del ricco turismo estivo. Un ciclone vero, dunque, dal nome altisonante e vagamente lussurioso, Cleopatra, chissà poi perché. Un ciclone vero che ha soppiantato, per alcuni giorni, i cicloni fasulli e sfibrati e sfibranti che, con ciclicità quotidiana, la politica partorisce. E al posto delle ciance, delle beghe elettorali, delle manfrine imbelli, al posto delle aule parlamentari e dei volti scialbi dei soliti arcinoti mestatori, inciuciatori, sgangherati paladini di se stessi, i nostri occhi e le nostre orecchie si sono riempiti delle immagini e delle voci di uno strazio, di un dolore che troppo spesso rimuoviamo dalla mente. E dire che pochi giorni prima era toccato alle Filippine quello strazio, quell'identico dolore decuplicato però, e lo avevamo osservato con costernata partecipazione, chi poteva un bonifico, un sns solidale e la distanza faceva il resto, consentendo di catalogarlo quell'evento nell'archivio dei cataclismi mondiali. Ma questo no, non può essere archiviato. Questo è un disastro nostro, di noi tutti. Come gli altri che, da anni, puntualmente si susseguono alla prima "bomba" d'acqua che il cielo ci scarica addosso. Certo, i cambiamenti climatici, certo l'effetto serra, certo facile addossare la colpa alla pioggia torrenziale e ai venti anomali. Meno facile dare un'occhiata in giro, lungo le nostre coste, lungo gli argini dei fiumi, attraversare le pianure fino alle pendici delle montagne, sempre più spelacchiate, sempre più erose, sempre più spolpate della loro naturale ricchezza, i boschi, le foreste di betulle e castagni e di faggi e larici e abeti. Giganti buoni con le radici salde nella terra, dighe remote piantate a contrastare torrenti in piena, della terra e del cielo. E tolto il verde (con la complicità degli incendi dolosi), si deviano fiumi, si rimpiccioliscono arenili e si gettano colate di cemento, si crea il deserto di cemento. Sorgono come cattedrali nel deserto, mostruose escrescenze di cemento e ferro, case, ipermercati, sopraelevate, ponti. Nel silenzio di tutti. Nell'assenso si tutti, perché il cemento dà lavoro, il cemento è stata la nuova frontiera, il nostro Klondyke. Poi capita il Vajont, la più terribile delle "calamità", se ne aggiungono altre via via, si contano i morti, i feriti, i dispersi; si piange, ci si indigna. Fino alla prossima volta. E fino al prossimo condono edilizio.
Non c'è pace, non c'è scampo in questa mia Italia. E dire che basterebbe poco per cambiare le cose, senza che i cantieri chiudano, senza togliere posti di lavoro, forse dandone di lavoro. Basterebbe guardarla bene quest'Italia, lunga e stretta, così vulnerabile per via della sua stessa struttura, così sismica. Basterebbe guardare con occhio innamorato le sue città e dire basta, niente più cemento. C'è già tanto intorno a noi, ci sono scuole, ospedali, piazze, musei, castelli, cattedrali, caserme, edifici civili e non, di nobile storia e di più umile nascita. Basterebbe guardare questo nostro panorama e mettersi di buona lena a ripristinarlo, a renderlo sicuro: Non diciamoci delle menzogne: il lavoro da fare ci sarebbe e sarebbe tanto e per tanti. Manca la volontà. E, ammesso che ci sia, manca il coraggio di dire no. No.


Aligi Sassu     Cavalli al sole.

sabato 16 novembre 2013

Decorazioni natalizie.

Ho deciso: sono un'apolide. Non ho una patria, non appartengo più a una nazione, non ho un'identità. Sono libera. Solo un essere umano casualmente stabile in questa Terra inospitale. Ingenerosa. La parola generosità mi frulla parecchio nel cervello, in questi giorni; forse perché siamo sotto Natale e il Natale, da sempre, è il periodo della bontà, almeno così da bambina mi si raccontava. Faceva parte delle favole anche quel racconto di gesti semplici, di atti amorevoli, di caritatevole empatia verso il prossimo, se non altro verso un parente, un amico, un conoscente (con qualche distinguo anche allora, ovviamente). Almeno, così mi era stato detto, quello era il senso del Natale. E vai, allora, a cercare di essere migliore, a tentare le impervie vie del perdono, a scavare dentro di me alla ricerca di un pezzo di cuore o d'anima da spartire con qualcuno. Anche se per poco, anche se per un solo giorno, meglio che niente, ci si campava di rendita per tutto l'anno, fino al prossimo Natale. La favola della bontà, con gli anni, si tramutò in altra favola, più luccicante, più allegra, zuccherosa di gospel e ghirlande di agrifoglio finto. Soprattutto più lucrosa, un compra compra sfrenato, un'ubriacatura consumata nei negozi al suono di Jingle bells e mentre le monete rotolavano via seguendone gioiosamente il ritmo, noi straripanti di autentico, spirito natalizio, impilavamo in fruscianti e orripilanti sacchetti di plastica d'oro e d'argento, ogni possibile e anche impossibile cazzata. Oggi, siamo un po' tutti degli alcolisti in disintossicazione, forzata in qualche caso, ma necessaria.
E così mi frulla la parola generosità e anche la parola onestà e la parola solidarietà. Parole comprensibili per tutti, non astruserie filosofiche, bensì concetti, se vogliamo, elementari nel senso scolastico del termine. Eppure non vengono pronunciate da nessuno; o, all'evenienza, da qualche politico e non sono credibili, non più: c'è sempre un nuovo scandalo, una mezza bugia o una mezza verità a inquinarne il sapore. E poi, stranamente per me che sono una inossidabile laica, che non ho una particolare affezione per la Chiesa e i suoi Ministri, queste parole esplodono, mi piombano addosso come colpi di artiglieria sparati da un uomo vestito di bianco, dal volto aperto, dai gesti quasi ordinari, non ieratici, non pontificali. Le parole di Francesco, il Papa dei cattolici,  hanno un sapore buono, un sapore di cibo genuino, le uniche parole pronunciate da chi detiene un potere, con un marchio di umanità, di generosità. E di severo monito per chi generoso e umano e onesto non lo è. Sono contenta, mi ritrovo a sorridere e penso a tutti i baciapile, i devotissimi della funzione domenicale, penso alle loro facce compunte e ai loro sbadigli sotterranei, penso alle loro bocche che recitano le rituali orazioni, alle mani giunte sul petto in segno di contrizione. E penso al loro Natale, se sarà anche quest'anno sfolgorante ed ebbro e avido. O se anche a loro giungeranno quelle parole e sarà un Natale generoso, buono, solidale, onesto. Il mio  so come sarà: il Natale di un'apolide laica, una senza più patria, casualmente stabile in questa Terra ingenerosa. Avrò però con me, dono prezioso, le parole di un vecchio uomo saggio vestito di bianco. E non è forse un bell'addobbo da porre in casa?

lunedì 11 novembre 2013

Oggi, l'amore.

Quanto difficile è amare, oggi. Quante scale a piedi si devono salire e quanti gradini sarebbero da sostituire. Quanti muri tirati su da maldestri operai, muri scalcinati e senza intonaco, con i mattoni bene in vista, contro cui è facile ferirsi.
I rapporti tra persone dal comune passato sono diventati cavi sottili entro cui fluisce un’elettricità che niente ha a che vedere con l’affetto e la generosità.
I ricordi sono colori diluiti fino a diventare smorte tinte; oppure sono fiammelle esitanti che si accendono a intermittenza, come le lucine del Natale. Non mi piacciono le luci intermittenti, quell’accendersi e spegnersi che stordiscono gli occhi, creando inganni nella mente e nello spazio circostante; preferisco la luce tremula di una sola candela, ma viva perché dà fuoco e un leggero calore a cui avvicinare le mani. E l’amore, oggi, mi appare innaturale come quelle lucine appese a decoro di case e cuori. Cerca, l’amore, gli artifizi della forma, del contatto freddo di parole e gesti superficiali, che non implichino, mai, l’abbandono di se stesi all’altro, il donarsi con tenerezza senza richieste, senza pretese. L’umile fatica del sapere ascoltare i bisogni degli altri, di chi si è smarrito, di chi non trova più la strada, o di chi, percorrendola, incontra tronchi e tagliole a sbarrargliela. Basterebbe una mano tesa, basterebbe una parola, basterebbe solo uno sguardo. Ma, quello che oggi è l’amore, tira via diritto, forse un'occhiata appannata dalla distrazione e dalla noia, nient’altro. Lasciami andare, dice l’amore smemorato, ho altro da fare, ho da occuparmi di me stesso, io sono il sole e la luna e tutti i pianeti che orbitano. Io sono l’universo, il cosmo intero. E va via quest’amore, quello che si ostina a voler essere ritenuto tale, per i suoi cieli di plastica, fra le stelle e le luci intermittenti. Il mio amore è una candela di cera, una sola candela di cera, si è accesa e mi ha dato luce e calore. Si spegnerà alla fine, con il soffio che spegnerà anche me.


Marc Chagall   Blu Panorama  1949





giovedì 7 novembre 2013

Via con il grande albatro

Ogni tanto, no spesso in verità, m'acchiappa una mattana, una frenetica voglia di pigliare il primo aereo e andare via, lasciando tutto dietro di me, senza avere una meta precisa in mente, solo lo spazio ristretto dell'aereo, solo le nuvole sotto di me e il rombo dei motori a cullare il mio irrefrenabile panico. Sì, perché ho paura di volare (non quella del famoso romanzo degli anni '70), ho paura della enorme scatola di sardine che mi sostiene sospesa nell'aria, ho paura di non poterne uscire più: insomma, soffro di claustrofobia. Però, allo stesso tempo l'aereo mi affascina, è il grande albatro che sorregge i miei sogni e li conduce in giro per il mondo e così, quando occorre, ci salgo su con  la gola strozzata, i sudori freddi. lo stomaco che batte al posto del cuore o il cuore che batte nello stonaco. E poi passa, uno, due, inspiro, espiro, uno due e poi passa. E così, ogni tanto, spesso ormai,  sento l'urgenza pressante di scappare. Via, via da questo Paese, via dalla stupidità, dall'inefficienza, dalla non vita, tutto sommato. Sono ancora a chiedermi (e mi sono stancata) quale sia il senso di questi giorni, mesi, anni che si srotolano sempre uguali, sempre monotonamente identici. Ascolto un notiziario in TV e alla prima notizia, mi dico che è quella del giorno prima, l'identico snocciolare di dati Istat, di bagarre nei partiti, di dichiarazioni servite sul vassoio buono o su quello ammaccato di ogni giorno. Punteggiano, qua e là, a guisa di radiose stelle, l'eloquio del conduttore, le perle di saggezza che, alternandosi con generosa disponibilità, i nostri politici regalano al popolo inebetito. Un giorno c'è la telefonata da parte di una Ministra dal cuore materno a sollecitare attenzione per una signora detenuta e in precarie condizioni di salute: ben fatto umanamente parlando, se lo si facesse per tutti quelli che versano nelle medesime condizioni e se la Ministra non avesse avuto rapporti di amicizia con la famiglia della detenuta e se questa famiglia non fosse, da tempo, nel mirino di inchieste giudiziarie e non è bene che un "servitore dello Stato" intrattenga rapporti con chi non si comporta da bravo e onesto cittadino, non dovrebbe forse essere così? Ma no, da noi, no. Da noi, va bene tutto, perché dimettersi, ma smettiamola, non ci sono gli estremi del reato. Vero. Ma io, da cittadina e non da "servitrice dello Stato", non so perché, mi vergognerei a dare la mia amicizia a chi froda e corrompe. Chissà perché. E ancora, altra perla di saggezza, un candidato premier che paragona i suoi figli, ricchissimi e privilegiatissimi, ai ragazzi ebrei deportati, rinchiusi nei lager e sottoposti alle "docce" nelle camere a gas. Perle di saggezza, lezioni di civiltà, educazione per le future generazioni.
Guardo i miei figli che faticano, e con una forza e un coraggio che io non gli conoscevo, per sbarcare il lunario. Dopo avere studiato e dopo avere sperato e dopo avere capito che i sogni se ne erano tornati nel mondo dei sogni, e uno è ancora qui e l'altra è già volata via. Li guardo e vorrei chiedere loro scusa. Chiudo gli occhi e sono nuovamente bambini e li tengo per mano, mentre corriamo verso un aereo, il grande albatro che ci porterà via. Non so dove, ma finalmente liberi, liberi da una non vita.  

domenica 3 novembre 2013

Un autunno senza qualità.

La luce si è arresa, è già novembre. Non è un autunno da libro illustrato per bambini, di quelli che mostrano gli alberi spogli e le foglie rosse e gialle ai piedi dei tronchi possenti; non è l'autunno delle poesie di nebbia e maestrale; di castagne cotte nella brace e di raccolta di funghi nei boschi. Almeno non è così da me, quaggiù. C'è solo un brivido lieve, quando il sole tramonta in un cielo di un celeste sfacciato, senza una nuvola, senza l'annuncio atteso, sulla cima della montagna, della pioggia. Scorre così, come fosse un'appendice molesta dell'estate appena conclusa e non porta con sé il cambiamento sperato da me, pazza e temeraria, di cieli oscurati da vaporose nubi.  Questo sconosciuto autunno  senza qualità, scorre nelle notizie sempre uguali, di stupida, inetta politica nazionale; di gaffes e di spioni; di debiti che crescono a ritmi da fare invidia alle vecchie catene di montaggio; di posti di lavoro che spariscono o che non si sono mai presentati all'appello. Queste stracche notizie aleggiano nelle case e nelle vite autunnali. Nella mia, c'è  il sentore di una distanza, come di una perdita in occhi malinconici che hanno perso la luce di altri tempi; un'assenza che riempie di sé tutto lo spazio circostante; un messaggio da un amico di gioventù (il mare, le sere in spiaggia, le canzoni) che mi dice parole di dolore e di sconforto. La luce scende ancora più, si fa nero. Poi, una foto. La famiglia, i ragazzi sorridenti all'obiettivo, ancora talmente innocenti da provare una contrazione allo stomaco, lancinante. La osservo bene, mi imprimo quei volti nelle pupille, sono le mie pupille le lastre fotografiche che il mio cervello svilupperà. Per conservare quei volti nell'album della memoria.

Vincent Van Gogh - Paesaggio d'autunno   1885

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