venerdì 28 aprile 2017

E sarà quella buona.

Mi sono spesso soffermata sulla imponderabile capacità che hanno gli eventi di sorprenderci. Molte cose accadono senza che ci sia data l'opportunità di prepararci, molte cose accadono e sono come fucilate, spari tirati nel mucchio e la rosa dei pallini può fiorire in una nuova lesione, può rivelarsi una ferita atroce.
E il misterioso capriccio della sorte non lascia scampo ed è ancora più infame quando sceglie di portare sconquasso e sofferenza nelle esistenze dei più inermi, degli innocenti. I bambini in questi anni di morte di guerre senza fine, di intrecci mostruosi, rappresentano le vittime sacrificali sulle are di Ares e di Plutos.
"I bambini non si toccano! " è l'ipocrita  geremiade che proviene da ogni parte, da ogni Potere. E puntualmente la geremiade si spegne in un bisbiglio e di essa non rimane neanche un'eco evanescente. I bambini continuano a morire per mano di chi dovrebbe proteggerne le vite, di chi dovrebbe favorirne e facilitarne la crescita e l'inserimento in un mondo migliore.
Le cose accadono e accade che il Male, subdola bestia sotterranea, si attacchi al corpo dei bambini. Continuano a sorridere e a giocare, cantano i bambini e raccontano a noi che la fantasia l'abbiamo sconfitta, fantastiche storie di altri mondi, favole perdute e che, solo con loro, ritroviamo. I bambini ballano e corrono e noi li osserviamo stupiti e ammirati perché sanno gioire di un sassolino di mare, di una farfalla, di un palloncino che spicca il salto felice su per il cielo.
I bambini non sanno nulla del Male; non sanno nulla del segreto tarlo che vorrebbe rosicare i loro piccoli corpi. Sono felicemente ignoranti. E la loro felice ignoranza ci salverà dalla disperazione; la loro allegria disarmata ci renderà forti, ci procurerà le armi, a noi per affrontare e uccidere il mostro. I loro occhi senza veli, nudi e ridenti, ci insegneranno il coraggio, ci indicheranno la strada. E sarà quella buona, quella giusta.


Édouard Manet, La ferrovia, 1872-1873

venerdì 21 aprile 2017

Allons enfants de la Patrie.

Manca pochissimo all'apertura dei seggi in Francia per l'elezione del nuovo Presidente.  Manca pochissimo e gli Champs Elysées sono stati macchiati di altro sangue, non una strage questa volta, ma è stata sempre la longa manus del terrorismo pazzo che arma cittadini di religione islamica e di nazionalità francese. Giovani "lupi solitari" così li hanno chiamati da tempo i media, giovani corrotti da un'ideologia che non ha futuro, che non promette altro se non la morte degli altri e di chi ne è l'artefice. Nelle antiche tragedie greche interveniva il Deus ex machina a decidere delle sorti degli uomini, a dipanare l'intricata matassa degli eventi drammatici; in queste odierne tragedie non c'è un Deus ex machina, non c'è alcuna divinità, nessun Dio che s'adoperi e l'implorazione urlata Allah Akbar" rimane sterile, è solo un grido di morte, senza l'intervento divino.
Ma crea terrore ugualmente e giustamente anche: la ferocia umana sa come giovarsi di Dio, l'ha sempre fatto fin dai tempi più remoti.
Adesso si dovrà eleggere il Presidente, i francesi sono chiamati a esprimersi e sarà difficile non prestare ascolto alle ansie e alle angosce che li ossessionano, che ci ossessionano. Sarà difficile non affidarsi a chi promette sicurezza, pugno duro, frontiere ed espulsioni. Sarà difficile non lasciarsi tentare da una rinnovata grandeur della nazione, sovrana e orgogliosamente capace di autogestirsi, svincolandosi d'ogni laccio economico e politico. Andranno al voto e sarà un voto che potrebbe cambiare le loro sorti e non solo le loro, si direbbe che i destini di tutti gli altri Stati europei siano nelle loro mani, in quelle scelte che faranno.
Io non posso, come tutti, fare altro che aspettare e sperare e nella speranza, ricordare quella Francia che con tre semplici parole ci ha indicato, oltre due secoli fa, un nuovo cammino da percorre. Faticoso, a volte fallace, insanguinato da guerre, sempre in salita mai in discesa. Ma esaltante, coraggioso e mai completo, mai finito, Un'avventura che mi auguro possa durare ancora e ancora.
Buon voto, mes amis et compagnons, égelité fraternité liberté, marchons, marchons!

Maurice Utrillo "Les Champs Elysées" 1950-54

martedì 18 aprile 2017

Metronomo e polvere.

Mi sono soffermata altre volte sull'importanza e sul peso delle parole. Sul potere che esse hanno di incidere nelle nostre esperienze di vita, nelle nostre giornate e nel nostro modo di affrontare gli eventi. Le parole sono l'espressione più evidente di uno stato d'animo,  più dei gesti che, sapientemente usati, riescono a dissimularlo. Personalmente le amo molto e cerco di dare loro la consistenza che meriterebbero. Citando, volutamente a sproposito, Marinetti che altro intendeva, non amo le "parole in libertà",  quelle come "voce dal sen fuggita" per capirci più chiaramente. Trovo che spesso non corrispondano alla verità, non sono il segnale di una libertà di pensiero, di una reazione immediata e quindi genuina, non manipolata da sentimenti sotterranei; al contrario, penso che siano il frutto di un approccio un poco ipocrita, farisaico, al dialogo, allo scambio di opinioni.
Non raramente mi è capitato di pronunciarle io queste parole svincolate da qualsivoglia freno, e sono diventate macigni. Ho ferito, ho fatto del male e ne ho provato e ne provo ancora rimorso. Quell'attimo imperfetto in cui sfuggono dalla gola, suoni che si raggrumano e si mutano in pietre. Difficilmente mi perdono, difficilmente scanso il senso di colpa.
Ma le parole che oggi mi ispirano  sono le parole di polvere. Sono quelle parole inconsistenti, superficiali, leggere e impalpabili che hanno il pregio-difetto di scivolare nello spazio, e sono silenziose pur emanando suoni, perché non provocano reazioni. Si depositano, proprio come incolore polvere, su di noi. Queste, per me, sono le parole della noia. Capaci di scandire con l'implacabile, tediosa ritmicità di un metronomo, il tempo di un incontro, di una conversazione. Riposanti, inclinano a una provvida sonnolenza, a un torpore benefico che astrae e allontana: fanno volare altrove, in qualche modo ci rendono liberi, liberi di non rispondere. Certo, è un peccato, le considero occasioni perdute, il dialogo soccombe avvolto nella loro polvere, perché solitamente appartengono a un monologo ininterrotto, a un racconto che non è racconto di sé, ma solo un lungo effluvio di sillabe atte a catturare l'attenzione e la curiosità di alcuni. Allora io volo via, sì di me resta sospeso, come il gatto di Alice nel cartoon di Disney, resta il sorriso. Mentre il metronomo ritmicamente oscilla nella polvere.

Giorgio de Chirico "Il sogno di Tobia" 1917

martedì 11 aprile 2017

La cognizione di avere.

Il fatto singolare e allo stesso tempo generosamente rigenerante è che al senso di impotenza di fronte alle tragedie del mondo, si accompagna una timida rivalutazione delle proprie piccole, insignificanti vite. Insignificanti rispetto alla drammaturgia degli accadimenti che stanno intridendo di angosciosi timori il mondo intero.
Ogni sparuta azione, ogni inezia che magari in altri tempi ci sarebbe apparsa come una mediocrità trascurabile, si illumina adesso di nuova luce, acquista anche uno speciale sapore che ci restituisce, seppure limitatamente e confinato nelle angustie dei nostri spazi e delle nostre giornate, un po' di quel gusto dolce, affettuoso, rifocillante, del vivere. Continuiamo a vivere, forse meglio. Ci accontentiamo di quello che ci è dato. E non è l'accontentarsi per mancanza di ambizioni e di stimoli, ma semplicemente il riconoscimento di avere in noi e accanto a noi, tutto quello che è necessario per andare avanti. Non abbiamo macerie da abbandonare dietro di noi, non abbiamo centinaia di corpi da seppellire, non abbiamo bambini da sfamare e consolare, senza poterlo fare. Non abbiamo terre straniere inaccoglienti dove dirigere i nostri passi. Siamo al riparo, per ora.
Facciamo i conti con le nostre esistenze e, anche se non ci è possibile scalzare il male, non del tutto, non è mai paragonabile a quell' altrove, a quelle vite che vite non sono più. Riconsideriamo, quello che abbiamo. Senza dimenticare, senza chiudere gli occhi, perché l' altrove c'è.
E anche le delusioni diventano fugaci meteore, spariscono, sono ininfluenti. Il silenzio di chi credevamo ci parlasse con le nostre stesse parole è un silenzio che non dà dolore. A quelle parole taciute ne subentrano altre, leali e coraggiose e ci rincuorano.Ci resta la malinconica certezza di esserci affidati al caso, all'incontro fortuito che niente offre, che niente restituisce.
La frugalità delle nostre riconquistate  realtà, la fragilità dei nostri giorni, contengono in sé il seme buono della riconoscenza e della scoperta: di altra umanità, di altri simili a noi. Possiamo dire allora che abbiamo - e mi piace citare l'amato Gadda - la cognizione del dolore. Ma anche delle nostre vite.


Francis Bacon, Study for Head of Lucian Freud, 1967

domenica 9 aprile 2017

Portavo un ramoscello.

Altre stagioni. Altre domeniche, un tempo. Le cupole che svettano verso il mare  e il suono delle campane sono memorie.

Portavo un ramoscello

Erano altre stagioni della vita nostra
C’era un canto solenne nelle gole
Cori di voci bianche non ancora spenti
Eravamo innocenti, così pareva a noi
E le campane non erano un suono qualunque
Non erano  fastidioso bronzo, erano festa
Nelle nostre stanze chiassose di colori e voci
Entrava il sole con lunghe strisce chiare
Striava i vostri volti ottusi di bambini
Che niente sanno se non il gioco e il bacio
Largo sulle guance scottanti di risate.
Correva il vento d’aprile nelle stanze
Insieme ai vostri passi e ai capelli fini
Un turbine di lacrime improvvise
Nelle vostre lotte fratricide di piccoli
Guerrieri senz’armi, impugnavate una
Spada dalla lama dolce d’amore forgiata.
E io vi portavo un ramoscello d’ulivo.


Berthe Morisot "Bambini che giocano"  1886


giovedì 6 aprile 2017

Confido nel lume.

Oh! Sì! Stiamo a discutere di tante cose, parliamo di libri, di pittura, di cinema, di poesia. Ci affanniamo, come segugi ostinati, a cercare la Bellezza, tentiamo di stanarla, proprio come se fosse la lepre. C'è fame di bellezza, è vero; c'è necessità: è l'estremo appiglio che ci resta per non cadere nel gorgo dello sconforto e della paura. Perché siamo sospesi, e lo siamo tutti, al filo sottile delle nostre abitudini e delle nostre esistenze, delle nostre realtà circoscritte e disegnate da noi stessi. Le nostre quotidiane realtà, scandite da afflizioni e gioie, dall'uso che facciamo del tempo che ci è concesso; le nostre esistenze scandite dalle modalità sempre uguali di una routine che, pur non del tutto appagante i nostri desideri, non ci inquieta perché ci è nota. Sappiamo dove andiamo, crediamo, almeno, di conoscere il cammino.
Così parrebbe. Ma poi le grida di dolore dei bambini siriani, soffocati e avvelenati dalle bombe chimiche, ci agguantano, annientando ogni nostro sforzo di vivere . Non possiamo più fingere di non sentire, sono troppo acute e strazianti quelle grida, non possiamo più distogliere gli occhi. Quel gas maledetto piovuto sugli innocenti senza che si sappia il perché, senza che si conosca la mano vile che ne ha voluto l'uso mortale. La vergogna - non vorrei mai più ricorrere a questa parola - è il nostro gas tossico,  dell'occidente, della Russia, della Turchia,  di Assad, tutti a sottrarsi dalla colpa in un atroce gioco di "libera tutti" dall'infamia, come fossero bambini nel cortile di un enorme caseggiato.
E il nostro precario equilibrio oscilla, le nostre piccole certezze mostrano improvvisa  crepe.
Ieri sera,  in tv, ho sentito parlare di concreto rischio di guerra. Venti di guerra soffiano sul nostro mondo e a soffiarli è quell'omuncolo dal volto stolido e ridanciano del dittatore della Corea del Nord. Trump ha dato il suo ultimatum e gli altri dietro, ed è ovvio, non ci si può sottomettere al ricatto atomico di un pazzo. E allora? Un brivido che serpeggia lungo la schiena, un malessere antico. E la speranza, seppur fievole, che l'umanità torni a riaccendere il lume della Ragione. Se lo strazio delle grida degli innocenti non è arrivato perché sono solo echi lontani, la paura di una catastrofe planetaria potrebbe riaccendere quel lume.


Pieter Claesz "Natura morta con candela accesa" -  1627


sabato 1 aprile 2017

La vita è sogno.

La vita è sogno, dice Calderòn de la Barca.  Io non so se sia sogno, ma di certo, quando si sogna, si vive una vita, uno stralcio di vita che dura lo spazio breve di pochi minuti; ed è spesso distante da noi, non ci appartiene se non per una notte. La luce, poi, spezza il buio e i sogni restano tra le lenzuola, nel nostro letto vuoto.


La vita è sogno.


Ci siamo incontrati e la montagna colava le viscere
ci siamo parlati sotto un carrubo attorto e storto
come un vecchio afferrato al suo bastone
e gli occhi bianchi fissi alle ginocchia
sulla sedia di corda seduto fuori dalla porta
e il vento freddo le foglie e il capo scarmiglia.
Ci siamo incontrati e il mare rompeva i sassi
ci siamo parlati in cima a uno sperone rugoso
come le mie guance quando avrò cent'anni
e tu sarai dritto e slanciato, un pino
abbarbicato sulle onde con le conchiglie
appese al collo e i piedi scalzi e salsi.
Ci siamo incontrati e la notte era pece liquida
e poi il silenzio ci accolse e mi dissolse.



Pablo Picasso "Giovane donna addormentata" - 1935


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