venerdì 29 maggio 2015

Nelle nebbie, uno squarcio.

Svuotata, un sacco floscio. Così mi sento, in questi giorni. Alle personali delusioni e ansie, si aggiungono malinconie vecchie, incanutite accanto alla mia testa, senza la possibilità di tornare agli splendori di un tempo. Le malinconie non sono capelli, non puoi tingerle. Ci si può abituare, guardarle allo specchio, riflesse insieme ai tuoi lineamenti. Scorgerle nelle nuove rughe attorno agli occhi e nella piega incisa ai lati della bocca. E conservano un gusto salato, del mare dell'infanzia e un odore di cespugli frustati dal vento, lavanda e rosmarino. Le malinconie ti cingono, morbide madri e sorelle, con braccia di nebbia fluttuante, ti cullano, sapienti narratrici di fiabe trascorse. Ti sostengono anche, bastoni invisibili, nel passo incerto che brancola sul ciglio del sentiero. Le malinconie non conoscono le tenebre della notte, emettono una luminosità di cielo indeciso, quel cielo che si squarcia, d'improvviso, all'azzurro.
E a me succede, come a tanti, di vederlo lo squarcio, per alcune ore, per un pomeriggio.
Si fanno strada fino a me, con i loro riccioli fini e gli occhi di bosco e le piccole mani generose di carezze e le bocche fragranti di risate e di parole semplici, disadorne, quelle che noi non riusciamo più a pronunciare. Le parole dell'amore che non chiede, le parole offerte nel disegno, acceso di colori, di un castello; e nella bambola, dallo sguardo fisso, che stringo al petto, come allora, la stessa bambola che stringevo, da bambina. 
Ieri, le mie nebulose, care malinconie si sono aperte davanti a due fate riccioline e minute, dagli occhi colmi di foglie dorate. E ho respirato un'aria buona, un'aria profumata di talco e latte e biscotti. Circonfusa d'innocenza, respiro, respiro. 


Claude Monet "Impression, soleil levant"  1872

lunedì 25 maggio 2015

In viaggio, sempre.

Non c'è un limite per la nostra crescita. Non esiste un punto d'arrivo, uno stop. Continuiamo a camminare, percorrendo strade dissestate, inciampando spesso; oppure lungo viali ombreggiati, dove vorremmo fermarci a riposare. E continuiamo a incontrare gente, persone, come noi in viaggio, e ognuna di loro si porta appresso una valigia piena, proprio come noi, piena di pensieri e illusioni, ognuna di loro si porta dietro la propria vita. Fino all'incontro con un altro, sconosciuto del tutto o forse anche no, un altro a cui non abbiamo mai veramente prestato attenzione. Che ci ha sfiorato, passando rasente, senza mai toccarci davvero.
Poi con un gesto, una parola, uno sguardo attira la nostra attenzione e diventa indispensabile. Altre volte, si allontana, fino a sparire. Di lui resta solo un'eco leggera nell'aria, un accenno di sorrisi e di lacrime. I nostri compagni di viaggio, spesso inconsapevoli, si susseguono e si moltiplicano, come una rinnovata parabola, per nutrire la nostra anima affamata, per darle l'alimento necessario alla sua crescita. Ogni esperienza della cognizione degli altri racchiude in sé il seme di una crescita, di una fioritura. Così accade nell'amicizia, così nel nucleo familiare. E, come per i fiori, bisogna avere cura di questi semi. E non occorrono né concimi, né acqua, solo la paziente attesa e l'amorevole accettazione. Dei nostri difetti e delle nostre colpe, che non sono inferiori ai difetti e alle colpe degli altri con i quali ci è capitato di condividere l'avventuroso viaggio.

giovedì 21 maggio 2015

La gatta parlante.

Non ho nessuna voglia di parlare di accadimenti, di politica, di libri, di esseri umani.  Gli umani hanno assunto caratteristiche morfologiche strambe, un dimorfismo dell'anima che li rende sempre più simili ad alieni o gnomi maligni. O fate non turchine, ma grigiastre. Fate e gnomi incapaci di raccontare una bella storia. Nessuna favola a lieto fine, nessun "e vissero felici e contenti" solo un ininterrotto stridore di voci e un agitarsi di bacchette malefiche.
Così, oggi, scrivo della mia gatta parlante. Oh, sì. Lei parla e parla con un linguaggio che è una musica soave: il suo miagolio diffonde un'allegria festosa a cui non riesco a sottrarmi.
La mia gatta parlante si chiama Priscilla, un nome altisonante, certo, per una creatura dal pelo color crema, soffice come una spumone alla fragola, e partecipa attivamente alla vita di casa. Se fischio, due, tre sibili, ed ecco che Pripri  dal terrazzo - vi trascorre buona parte del giorno e, soprattutto, della notte, a osservare le luci e la lunga fila di auto, oppure a seguire con lo sguardo il volo di sospirati uccelli -  saetta nel salotto e da lì nelle altre stanze, rispondendo "ngrrr" al mio richiamo.
Poi mi afferra le caviglie con delicatezza e vi stampa sopra due o tre morsibaci, e con la coda diritta come un peloso bastone, corre alla ciotola, la guarda, la annusa e, se è vuota, la rovescia al contrario in segno di riprovazione nei miei confronti. E intanto parliamo, le racconto di tutto e lei mi risponde, piegando di lato la testolina e i suoi occhi dorati cercano i miei. Se scrivo - e capita spesso - eccola qui a gironzolare inquieta sotto la scrivania e d'un balzo, op, è su di me e da me sulla tastiera, dispettosamente felice.
Di notte, come quasi tutti i gatti, non dorme o se dorme sceglie il letto di mia figlia, un gran lettone amoroso nel quale le due si abbracciano, arruffate nel sonno. Ma all'alba, Priscilla si trasforma, diventa la sveglia trillante. Silenziosa sale sul letto e poggia la zampetta paffuta sulla mia guancia, ngrr, gnau, mi sussurra nell'ombra, e mi assesta brevi, teneri morsi sul naso o sul sopracciglio, oppure mi scompiglia i capelli.
Il buio si dirada, inizia un nuovo giorno e io e Priscilla siamo in cucina, lei accanto alla ciotola colma di croccantini e io, assonnata, con la tazzina del caffè in mano. Ricominciamo a parlare, ngrrr, gnau, un altro giorno, altri avvenimenti, notizie, politica, esseri umani che sbraitano. Intanto io e la mia gatta parlante continuiamo a chiacchierare. E tutto è meno scuro, c'è un baluginare di luce che accende le stanze.

sabato 16 maggio 2015

Nella landa, gli steccati.

Non riesco ad assuefarmi al cinismo dilagante, non posso. Alcune volte vorrei esserlo anche io, cinica, per autoprotezione, per soffrire meno, per incazzarmi di meno. E, a volte, penso che siano anche questi i motivi per cui molte persone si mostrino così, come se fossero immerse in una tinozza colma di olio, per venirne fuori con la pelle e la coscienza scivolosa, niente e nessuno vi potrà trovare un appiglio. Mi forzo a comprendere, mi dico, sono stanchi, siamo tutti stanchi, vorremmo, solamente, la calma apparente dell'egoismo. Un ordinato spazio, esiguo, ma nostro, dove far crescere i semi posti sottoterra, i nostri semi. I nostri effimeri interessi, i nostri affetti, rivoltando con cura le zolle grasse, irrorando bene perché non appassiscano. La soluzione, apparentemente migliore, recintare il giardino con steccati resistenti ai venti improvvisi, e fuori lasciare che la gramigna cresca, che la terra diventi una landa sconfinata e selvaggia. E chi se ne frega.
Ma io non ci riesco, io ci devo infilare i piedi e le mani nella terra arida o nel fango nero, per rimestarlo e vedere se dentro, annidati, invisibili e derelitti, non vi siano dei semi da far fiorire.
Non ce la faccio a non tremare di fronte alle fragilità di questa nostra terra, di fronte alla solitudine che soffia e scuote, come folate repentine e violente di ciclone, queste fragilità.  E sono certa che chi mi legge, lotta come me per allontanare questi fantasmi molesti, queste bugiarde e attraenti sirene che ci allettano con la lusinga della quieta esistenza, reclusi nelle quiete stanze, con il mondo lasciato sulla soglia, fuori da noi, che non entri a contaminarci.
Le parole che sentiamo dagli altri ci colpiscono, sono pugni in faccia e possiamo imparare a schivarli, da abili pugili. Le parole di chi fa parte della nostra vita, di coloro che hanno camminato insieme a noi per un tratto di strada, sostenendosi a noi e noi aggrappandoci a loro, per non cadere, le parole, lame d'acciaio, scavano ferite.
Mi restano, come chiodi infissi, le parole che leggo, spesso, parole che gelano, senza sangue, nude parole, morte. Mi restano, come aghi nel cuore, le parole di chi mi è più vicino. Solidarietà, amore, compassione mi aspetto. E ascolto, muta, il cinismo del disprezzo, del disamore. Non so perché, non lo so. O forse, sì.
Forse è l'incapacità a tendere la mano, oltre lo steccato, una disabilità cercata che dà una paralisi astiosa, una rigidità pre-mortem. Sì, il cinismo, il disinteresse, l'assenza, sono i precursori della morte. Trombettieri e araldi strillanti, che le coscienze sono in coma.

  Pavel Tereshkovets  - White silence

martedì 12 maggio 2015

Per questo.

Il tempo si cristallizza, scorre solo apparentemente nella clessidra della nostre giornate, granelli di sabbia che si accumulano nei nostri gesti incompiuti, nelle parole taciute,  nei pensieri scomposti. Ma nulla muta il cammino. Solo l'amore resiste e non si lascia scalfire dalla sabbia, non è corruttibile. Diventa anch'esso un cristallo, perfetto e fragile, da custodire.




Per questo 2013



I prati della tua anima
Sono sconfinate steppe
di silenzi e solitudini
i prati della tua anima,
sono lagune pallide
di trascorsi riflessi.
Tu taci, mia quiete,
non parli agli specchi
ustori della vita.
Tu taci, mia follia,
non parli alle visioni
oblique della vita.
Per questo sei tu.
Per questo ti respiro.
Per questo ti amo.

Foto di Fabio Lovino - Tilda Swinton



giovedì 7 maggio 2015

Una mappa allo specchio.

Capitano giorni in cui una telefonata ti accende una luce e ogni cosa si aggiusta, brillando e ti pare di essere in pace, non litighi più con la tua faccia riflessa nello specchio del bagno, ti appare gradevole. E si ha voglia di uscire tra la gente, di camminare senza una meta, così, solo per vedere dove vanno gli altri e se portano sul viso la tua stessa espressione di rilassatezza, di quiete.
Di solito, ci si sente buoni, pronti a soccorrere il prossimo, a offrire una spalla allo sconforto, ci si sente amici. Ma poi inciampi e ti ritrovi lungo disteso per terra, con il fondoschiena dolorante e la vista annebbiata, e nessuno ti porge una mano. Porcaccia miseria, ti dici, e gli amici? e l'amico del cuore dove cavolo è finito? Forse non mi ha visto cadere, forse si è distratto, pensi. E hai indovinato, senza averne neanche  cognizione. L'amicizia si distrae, è una sua variante, potremmo dire una sua peculiarità. Sì, perché l'amicizia si nutre di distrazioni, le pretende. Le distrazioni di un viaggio fatto tanti anni fa, in allegria e senza pesi sulle spalle; o quelle delle serate trascorse a spizzicare e bere e chiacchierare e canticchiare e anche ballando, un tantino ubriachi, e le chiacchiere erano leggere piume, farfalle colorate e transitorie, e i passi sbagliati non ti sorprendevano, come le risate che salivano nel vento tiepido delle notti estive. E c'era pure l'attimo dell'incanto, gli occhi che si incontravano e sapevano tutto l'uno dell'altro. Ma era l'attimo fuggente, come nell'amato film.  E gli anni si inseguivano e macigni si accumulavano e l'amicizia si distraeva, ancora. Talmente, da deviare barcollando sotto il carico di troppi ricordi.
Ci sono giorni così, giorni in cui una telefonata non ti accende più e niente cambia.
Ti guardi allo specchio, nel bagno, e ti vedi come sei, con una città disegnata sul viso, e però non ti dispiace, non più.


Giorgio De Chirico   1920 Doppio autoritratto 

domenica 3 maggio 2015

No, non ci sto.

E no! Non ci sto. E va bene tutto,  e gli sprechi e la corruzione e la mafia e il lavoro che non c'è e il malcostume di piangersi addosso, spesso e volentieri. Ma anche quest'ultima beffa del padiglione che rappresenta la Sicilia all'Expo di Milano, sporco e deserto, che sta facendo il giro del mondo tramite il web, mi fa proprio andare fuori dai gangheri. La Sicilia e i suoi prodotti, le sue specificità agricole e alimentari non possono essere liquidate così, con le immagini di negligente superficialità che vengono trasmesse al pubblico. La Sicilia non è in quel padiglione allagato e malconcio. Se ne sta qui, con i suoi vigneti arrampicati sull'Etna o stesi in prossimità del mare, e il vino è rosso e dà alla testa e canta al cuore, col profumo del vento marino e del sole che, quaggiù, sono di casa. La Sicilia è nei giardini di agrumi, incomparabili succose delizie della terra spessa e nera; è negli olivi e nei carrubi che, nell'estremo lembo, si afferrano contorti alle zolle, rincorrendosi fino a sfiorare il mare. La Sicilia è nelle greggi che offrono generosi formaggi, ricotte calde, dolci e salate, da mangiare con l'inebriante pane di grano duro. La Sicilia è nei suoi dolci che non hanno uguali al mondo, e non temo smentita di sorta, nelle sue mandorle che sembrano grosse perle d'avorio, nei pistacchi preziosi e nei fichi che, ad agosto, colano miele. E tanto, tanto altro ancora. E tutto intorno il mare, che vorrei tornasse a dare vita, come una volta.
No, non ci sto. La mia Sicilia è qui.  

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