lunedì 28 marzo 2016

Seguirò la rotta.

Il clima si è fatto dolce, ha un gusto pasquale, come da tradizione. La stagione sarà quella bella fanciulla botticelliana, come sempre accade puntualmente: la rinascita nella natura e, per tanti, nello spirito. Amen.
La vorremmo la rinascita, la vorremmo per tutti i morti innocenti delle stragi e delle guerre; per i bambini siriani e pakistani e iracheni che non sanno perché sono morti, né per chi; la vorremmo per il ragazzo ucciso in Egitto e ci sono solo menzogne sulla sua morte; la vorremmo, semplicemente forse, per i nostri cari che se ne sono andati. E c'è chi ne fa motivo di preghiera nei templi e si rivolge al proprio Dio.
Altri, come me, se ne stanno quieti e zitti, hanno occhi sgomenti e umidi. Aspettano, un segnale. Aspettano che l'uomo rinasca dalla morte che lui stesso ha seminato, come fosse frumento, nei solchi della terra, in tutte le sterminate lande di questa terra. Così anche io prego, senza liturgie, senza incensi, senza lini e unguenti.
La primavera porterà la rinascita, i fiori si affacceranno dai terrazzi e nei campi, sarà la fotografia dai colori smaglianti, come ogni anno; e gli uccelli saetteranno in cielo e sarà la migliore scenografia possibile, come ogni anno.
Seguirò quelle rotte, vibranti di rondini e storni, con lo sguardo ancora una volta verso occidente e aspetterò la mia personale rinascita.


Sandro Botticelli - particolare della "Primavera"  1482 ca.

lunedì 21 marzo 2016

Il manovratore è sceso.

Voglio scendere! Si dice così, mi pare. Quando il viaggio si fa noioso, quando la compagnia si fa ressa assordante, quando il paesaggio si illividisce di foschie.
E viene proprio voglia di cambiare aria, di inerpicarsi per sentieri ariosi che portano a valli segregate agli altrui occhi, cinte da foreste fitte; o di scoprire un'isola proprio dove l'orizzonte allaccia il cielo con il mare e non sapere quale sia il mare e neanche il cielo, come Ulisse e come Robinson Crusoe e tutti gli altri dopo di loro, accecati dall'abbagliante voluttà della solitudine. I morsi degli affetti sono però laceranti, l'amore è sempre una robusta fune travestita da nastro di seta.
Rifletto su questo vociante, convulso mondo in cui mi agito anche io, burattino con invisibili fili, e mi appare distorto, come se nel grande caleidoscopio i pezzetti di vetro colorato fossero impazziti, perdendo l'eleganza del disegno originario. Vedo la folla di uomini e di donne ammassate ai limiti della vita, involontarie masse che spiano tra i buchi della rete e hanno i bambini al collo appesi come amorosi fardelli; vedo le città sgargianti di luci e mi sembrano vecchie puttane stanche; vedo i giovani nostri in fuga, occhi bagnati e rabbia e speranza nelle mani e nei piedi; vedo gli altri, quelli che non mi appartengono, quelli a cui non appartengo, ne ascolto le parole fredde come ghiaccio sulla schiena, ne vedo gli occhi bugiardi, le braccia protese ad afferrare tutto quello che sfiorano; vedo i vecchi fuori dagli ospizi, soli e sgomenti, poveri come sono i poveri che conservano la dignità di un tempo.
Vedo gli squali aggirarsi, giovani squali che spacciano il lusso per bellezza e forse non sanno che la bellezza rinnega il lusso. Vedo le immagini sguaiate dagli schermi che ci opprimono nelle stanze, un vecchio signore che si ostina a parlare al vento e il vento gli soffia ridendo in faccia; un altro, più giovane, che si ostina a ridere, e ride e ride perché non sa parlare; e il coro di tanti altri, il razzista che si finge uomo di cuore, la fascista che non si riconosce tale, l'onesta cittadina che però non sa dove guardare, se a destra o a manca e rischia di farsi travolgere. E il coro, il coro di noi tutti, pronti a cantare al tocco di bacchetta.
Allora mi fingo d'essere arrivata al capolinea, cerco il manovratore di questo lungo treno e gli dico che vorrei scendere. Ma il manovratore è sordomuto. O forse se n'è andato, anche lui.


G. De Chirico, “I piaceri del poeta”, Parigi, 1912

sabato 19 marzo 2016

Senza ombre.

Oggi si festeggia San Giuseppe (per i cristiani) e per molti si festeggia anche il papà, ovvia la relazione tra i due personaggi. Ma io ho perduto il mio papà oltre vent'anni addietro e ne conservo un ricordo amoroso, anche se annebbiato da tante contraddizioni: il rapporto figlia-padre dovrebbe essere. si dice da sempre, idilliaco, soffuso di quella perfezione del sentimento a cui tanto si aspira nel corso della vita e che, spesso, delude, riportando la figlia a rimpiangere le braccia forti e protettive del papà, il papà culla, il papà maestro, il papà eroe.
Oggi non sono più figlia, ho assunto altri ruoli nella vita e ho imparato a conoscere mio padre, dopo, quando non c'era più tempo per parlare, per dirgli quello che avrei voluto dirgli di me, di noi. Ho imparato a capire che non era un eroe, che non era un maestro, che le sue braccia amorevoli non mi hanno protetta dalla sofferenza, semplicemente perché non poteva farlo. I dolori dell'esistenza hanno avuto la meglio, sono stati più forti e più durevoli, mio padre se n'è andato lasciandomi sguarnita, senza scudo. Ho imparato a capirne le fragilità, gli errori, i dubbi e ho imparato ad accettarli, finalmente. Un lungo percorso solitario, un cammino tortuoso che si è, lentamente, snodato nei ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza e della maturità anche, fino al limite ultimo. Ho imparato ad accoglierlo in me, senza aspettative né adombramenti; senza furori né delusioni. Ho imparato, in questi lunghi anni di mancanza, a sentirlo amico, un amico dolente e incerto, allegro e spaccone, roboante e taciturno. E ho imparato ad amarlo, per quello che era, senza infingimenti, con chiarezza. Oggi mio padre ha la luce, è senza ombre.



"Paul travestito da Arlecchino" -  1923
Pablo Picasso

domenica 13 marzo 2016

Solidi, non liquidi.

Torno a parlare d'amore. Perché non è più tempo per l'amore, perché mai come in questi anni tutti, o almeno tantissimi, abbiamo trovato riparo nel nostro comodo, conosciuto, asettico individualismo.
Non cerchiamo scorciatoie, non mentiamo: siamo reclusi nell'ostrica, siamo chiocciole raggomitolate nel guscio, tartarughe ritirate nel carapace, interessati a sbocconcellare l'ultimo oggetto del desiderio. Siamo individui che si incontrano per caso o per scelta, sì anche, ma dura poco. si corre verso altro. E mi viene in mente quella "società liquida" di cui ci parla il meraviglioso (per me) Zygmunt Bauman, Liquidi i nostri incontri, le nostre relazioni interpersonali, scorrono nelle nostre esistenze, senza che riescano a solidificarsi in un grumo di affetti, di reciproco amore, di reciproco rispetto, di comune condivisione.
In questa domenica di metà marzo che non è primavera e dal nord traspare il vulcano cinto di nuvoloni ghiacciati, ancora una volta ho toccato l'amore, quello che viene fuori dagli occhi stellati e dalle voci di cristallo dei miei giovani innamorati. Innamorati della vita; innamorati dell'avventura che si delinea oltre il mare (ah! l'eterno mito di Ulisse seduce); innamorati dell'idea stessa dell'amore, sempre generosamente declinato in ogni forma. I miei giovani innamorati che scappano e non vorrebbero scappare; che sognano e vorrebbero continuare a sognare; e distolgono gli occhi disillusi  dalla realtà, per piantarli nei nostri, stanchi ma amorevoli.
E parlare con loro, con i miei giovani innamorati delusi sognatori viandanti per scelta e per necessità, richiede coraggio e un pizzico di crudeltà, ma è una crudeltà amorosa.
In fondo, rifletto, è quello che si aspettano dall'amore: la spinta, la mano che accompagna, dal tocco lieve e determinato però. E le parole, quelle parole "tra noi leggere" che sferzano, come scudisci di seta, a proseguire il cammino. Senza badare al sasso che viene lanciato perché s'inciampi, impareranno a scansarlo; senza ascoltare le frasi del lusingatore, il falso mendicante accovacciato ai bordi della strada, impareranno ad aggirarlo; senza affondare gli occhi nelle iridi di malignità tremanti, dell'invidioso che viene incontro col sorriso bugiardo, impareranno a scostarlo.
Questa domenica di questo strano marzo mi ha mostrato il dono. No, i miei ragazzi innamorati della vita, non nuotano nel liquido di questa società, Essi camminano e la loro strada è terra solida sotto i loro piedi,

Momò Calascibetta  "La folla"  1978

martedì 8 marzo 2016

Diversamente.

Ho letto i post che, inevitabilmente, piovono come le piccole infiorescenze della mimosa ( la similitudine è d'obbligo!) sul mio monitor. E quelli nati dalla gentilezza maschile sono, spesso, poetici: gli uomini, oggi, volano altro e di questo gliene siamo infinitamente grate.
Poi ci sono i post di alcune mie compagne di sesso, anche di età forse, e qui le parole si fanno meno leggere, non hanno la levità dei pallini di mimosa, tutt'altro. Sono in molte a mostrarsi infastidite da questa ricorrenza, sono in molte a denunciarne l'inutile anacronismo, perché oggi non è più necessario sbandierare la propria indipendenza, la propria non subalternità, la propria orgogliosa non diversità, pur essendo diverse dagli uomini E sono d'accordo. Non abbiamo bisogno di mimose, né di regali, né di festeggiamenti; non occorre lo scempio delle soavi mimose (avessero voce, urlerebbero), né occorrono gesti di fugace rispetto, perché quello è un diritto quotidiano e perenne e, aggiungo, reciproco.
L'otto marzo non dovrebbe avere altro significato se non quello che la storia gli ha dato, come per altre date storiche: la memoria. La memoria e il riconoscimento delle donne emarginate, vessate, violate, abusate e private, in passato, di ogni legittimo diritto. Di strada ne abbiamo fatta, noi donne, abbiamo percorso strade dissestate, ci siamo inerpicate per sentieri perigliosi e molte di noi non ce l'hanno fatta, non ancora. Forse oggi, proprio noi donne, dovremmo pensare alle nostre campagne di viaggio più sventurate di noi, quelle nostre  sorelle che ancora subiscono l'umiliazione del potere cieco e sordo da parte dell'uomo, in tanti Paesi del mondo. Ecco, se vogliamo chiamarla festa, diamole questo senso, il senso della memoria e dell'amore. Senza mimose strappate, senza regali, senza eccessi al "maschile." Non ne abbiamo bisogno, non ci interessano, vero? Noi siamo diversamente uguali.


 Roberto Donetta (1865-1932), "Operaie della fabbrica di cioccolato"

domenica 6 marzo 2016

Senza ali e senza rete..

La gioventù emoziona, dà la carica alla vecchia pendola che scandisce la vita, fa scorrere il sangue nelle arterie e lo pompa nel cuore e nel cervello. La gioventù è una dolce droga che non avvelena, e come le droghe dà dipendenza e fa soffrire quando si è costretti, col crudele ticchettio degli anni, all'astinenza.
Ieri mi sono imbattuta nelle parole di un giovane che ricordava la "meglio gioventù", non il film, ma il concetto che quel film con questa locuzione ha espresso e ha indelebilmente impresso in ciascuno di noi. E si rammaricava, quel giovane, quasi timoroso che non vi sarà più una gioventù migliore di altre. Credo che pensasse a una gioventù libera, pronta a strappare lacci, a scardinare recinti e gabbie. Pronta a scagliarsi in un inebriante futuro, così senza ali e senza rete, come nella canzone di De Gregori che sempre ha accompagnato certi miei pensieri.
La "meglio gioventù" è stata anche la mia, e davvero si cercò di spiccare il volo, davvero si infransero barriere e crollarono muri, guardammo tutti, un po'  spersi, oltre il giardino e scorgemmo l'infinito. Infinite possibilità di essere diversi. Ma non fu abbastanza rapido e sicuro il nostro volo, i cacciatori ci impallinarono, fummo prede abbastanza facili da catturare, in fondo. Ci intruppammo, ecco, tornammo al giardino, a coltivare i nostri personali egoismi e le nostre necessità.
Ho risposto a quel giovane, un poco sconfortato, che la meglio gioventù c'è, o almeno può ancora esserci, gli ho detto che ha bisogno di coraggio per rivelarsi. Non è cosa da poco in questo mondo che di coraggioso ha il frusciare delle banconote e, adesso, il rinnovato rombo bellico; e le voci dei giovani rischiano di esserne coperte, vengono soffocate dal tumulto minaccioso e stupido della "peggio vecchiaia" che regna incontrastata sul vilipeso pianeta Terra. Però c'è, la meglio gioventù c'è, ne sono sicura, la sperimento tutti i giorni negli occhi e nelle parole di chi mi vive vicino, giovane, dubbioso, precario, commovente. Ma migliore dei tanti vecchi che decidono della sua vita.

Fernando Botero, Gente del circo con elefante, 2007

martedì 1 marzo 2016

Immoralista. Anche io.

Volevo resistere alla tentazione di scriverne, troppe parole si stanno sprecando sul tema. Ma poi è bastato qualche commento per scatenare in me una ridda di sentimenti, primo fra tutti, lo sconforto, E anche una sorta di soporifera stanchezza. E ancora, al contempo, un'insana volontà di essere "immorale" se l'essere morali, oggi, significa schierarsi, sbandierando il proprio disgustato dissenso, contro il caso dei casi: la nascita di un bambino, voluto da una coppia gay - superfluo ricordare, ma lo faccio, che uno dei genitori è Nichi Vendola, esponente di spicco di Sel - mediante la modalità dell'utero "in affitto". Che già, di per sé, fa raccapriccio e la dice lunga su quello che, dalla società normale (sic!) si dovrà aspettare l'innocente appena venuto al mondo.
Ciò che mi agita e mi stanca e mi sconforta è, non solo il fanatismo di alcuni (da parte di certi personaggi è anche ovvia la reazione indignata e furibonda), ma l'ipocrita ululare dei più, improvvisamente divenuti guardiani della morale in un mondo che di morale non ha nulla. Per mesi e mesi abbiamo assistito allo scempio compiuto ai danni della storia e della civiltà umana in Siria da parte di sciagurati terroristi ed eccettuato qualche timido accenno, zero, nessuna voce, nessuna rabbia; per mesi e mesi, abbiamo assistito alla creazione di muri di contenimento, trincee di filo spinato, atti a contenere orde di disperati in fuga dalla morte e dalla fame, zero, anzi no, sono arrivate le voci, chiare e stentoree, dei distinguo, chi merita e chi no; per mesi e mesi e ancora oggi, le bombe piovono sui civili in Siria e i bambini muoiono come le mosche (come d'altra parte, da anni in Palestina, muoiono sia gli israeliani che i palestinesi) e sì, se ne parla, ma poi è tutta la solita solfa, è la guerra e la guerra ha dei costi, si sa; da un mese circa c'è un ragazzo che vorrebbe la verità sulla sua morte e con lui la famiglia, perché è stato assassinato in un paese dove si sa che c'è la tortura e la pena di morte e chi non accetta certe norme scompare, ma si sa, è così e anche qui i distinguo dei fini pensatori e politologi. Mi sovviene un solo caso che ha mobilitato le dita torpide dei commentatori dei social e le voci, sempre stentoree dei politicanti, ed è stato quello dell'estate scorsa, del  bambino
 annegato e spiaggiato come un piccolo di delfino in Turchia. Allora l'indignazione raggiunse l'acme, si ebbe il climax della tragedia di cui eravamo silenziosi spettatori. Poi tornò il silenzio e il bambino fu dimenticato.
Ora ce n'è un altro, di bambino, ed è vivo. Ma la sua nascita e il concepimento non rientrano nei canoni della morale comune, forse della decenza comune. Non mi metto a discutere, ripeto, sono stanca, stanca che si dia la priorità a un fatto privato, stanca di sentire i giudizi di altri sulla vita di altri. Stanca di avvertire un pruriginoso moralismo erompere dalle gole quando l'argomento, in qualche maniera, attiene alla sfera sessuale. E noi italiani abbiamo sempre avuto un rapporto contraddittorio con il sesso, chissà perché. E allora, tirando le somme e non volendo più sentire il peso di tale stanchezza morale, ho deciso, lo ridico: se essere morali significa indignarsi per un utero e per un bambino da questo nato, io mi dichiaro immorale, Anzi, immoralista e cito Gide.

«Mi è dolce pensare che dopo di me gli uomini si riconosceranno più felici. Per il bene dell’umanità futura, ho compiuto la mia opera. Ho vissuto».

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