venerdì 28 agosto 2015

I tuoi occhi.

Le persone che hai incontrato nella vita, spesso spariscono, si dissolvono per altri sentieri che non puoi percorrere. Di loro rimane una frase, un gesto, una sera al mare, forse uno sguardo. Ci sono occhi che non si dimenticano, occhi che hanno evitato i tuoi e ti si sono conficcati dentro, ugualmente.

I tuoi occhi.

Ridevano confusi nella notte
i tuoi occhi e non ricordo il loro colore
di tonde nocciole screziate d'oro
brillavano al tavolo con i calici vuoti
di futuri brindisi all'autunno crudele.
L'estate ardeva nel soffio estremo
dello scirocco e i tuoi occhi ridevano
celando ai miei ogni dolore, ogni speranza,
tu non mi guardavi, eri già in cammino
dietro a quella stella appesa al cielo,
infinito tetto sul nostro sgomento.
Eri tra noi a sfidare il destino chiuso
dalle sue braccia dolci e temerarie,
con gli occhi che ridevano e già sapevano
già si arrendevano al nuovo viaggio,
i tuoi occhi adesso infissi nei miei.

martedì 25 agosto 2015

Cul de sac.

E' così, c'è poco da fare, la percezione che si ha, a fronte di accadimenti, è variabile. Proprio come il tempo. Temporalesco, perturbato, nuvoloso, variabile, sereno. Ognuno assume una posizione di personale critica; o sceglie l'acritica acquiescenza, senza scomporsi: o, ancora, appunta lo sguardo alla teatralità fenomenica, alla forma estetica. I fatti accadono, sembrano dire alcuni, con o senza la nostra approvazione o disapprovazione, accadono e continueranno ad accadere. Meglio stare ad assistere, seraficamente intangibili.
In un certo senso, questo è quanto è successo, qui in Italia, dopo che le immagini del funerale di Roma -inutile ricordarne i particolari, credo siano ben noti planetariamente- hanno fatto, appunto, il giro del mondo. Ora, non voglio soffermarmi sull'indignazione che in moltissimi ha scatenato (me compresa); non voglio stare a dibattere oltre sulle responsabilità politiche e istituzionali (che sono reali e gravissime); non voglio accendere i riflettori sulle peculiarità del fenomeno mafioso nella capitale del mio Paese; se ne discute già tanto e chi lo fa, ha certamente più qualifiche autorevoli di me. Ciò che mi turba è l'atteggiamento svicolante di alcuni. Esattamente. Svicolante, come chi si trova a dover affrontare una strada intasata dal traffico e si guarda intorno e al primo pertugio, alla prima stradella che incontra, la imbocca, sospirando di sollievo. Come a dire, io non m'intruppo, io uso la mia bella testolina sveglia e via! a tutto gas. Questi tipi, con le parabole particolarmente funzionanti, hanno capito che, per vivere oggi, sgomitando nella quotidiana ricerca di un ruolo qualsiasi nella società, devono, imparare ad accettare tutto. Anche l'inaccettabile, anche la volgarità, anche il ricatto di chi pensa di poter agire impunemente. E la cosa peggiore è che sono davvero convinti di non prestare il fianco a chi del crimine organizzato si nutre. Sono fiancheggiatori inconsapevoli, sono spettatori asettici. Alcuni dicono: "Lo Stato c'era, eh! se c'era a quel funerale!" E il loro disincanto è greve, i loro sospetti pesanti e duri come rocce. Ma per me, no, lo Stato non era lì. Non lo Stato che, secondo me, è Stato, di diritto, di libertà, di giustizia, di rettitudine. C'era l'assenza, il vuoto, il nulla perché a quello Stato che vorremmo in tanti, se ne sovrappone un altro, intricato, contorto e avvinghiato nelle spire dei compromessi, delle riluttanti scelte, del pusillanime gioco delle tre scimmiette. Che è il gioco che più è gradito alle mafie. E ci sono ancora quelli che si sono attaccati, come remore alla balena, all'aspetto formale (e tra questi, i roboanti ciarlatani del piccolo schermo in salsa di esperti mafiologi), incollandosi "alla tradizione" "alle usanze incallite" di certi ceti sociali o di certe etnie! Paillettes negli occhi, come suggerisce un'amica, ironicamente. E però un po' di sdegno lo provano, in verità, tutt'al più hanno brevi sussulti di collera nei confronti dei media, nazionali e internazionali, che partoriscono echi malevoli contro l'Italia, mettendone in luce il lato più oscuro (per me e per tantissimi, per fortuna), mettemdo alla berlina il sentimento patriottico! L'indignazione si trasferisce, lo zoom dell'obiettivo si fissa sulla stampa, colpevole di avere dato tanto e tale risalto a un fatto, tutto sommato, "folcloristico e kitsch". E non si rendono conto che, sempre inconsapevolmente, piano piano il loro modo di pensare, la loro passività, li renderà spugne che tutto assorbono e trattengono. O fogli di carta assorbente, un tempo usata nella scrittura a inchiostro, oggi usata nelle cucine per raccogliere il grasso che cola.
Svicolano, come ho detto, trovano la strada laterale e la imboccano, a tutto gas. Senza sapere che potrebbero entrare, furbescamente strombazzanti, in un vicolo cieco. In un cul de sac.

Roman Polanski   "Cul de sac"  1966

mercoledì 19 agosto 2015

Stacco le foglie.

La pausa ferragostana, alla fine, a qualcosa serve. Certamente, alla moltitudine di lavoratori, è necessaria per staccare braccia e cervelli dalle consuete occupazioni, occupando altri spazi e neonato tempo in gite al mare, escursioni in montagna, passeggiate nel verde, e anche qualche capatina dentro musei e gallerie d'arte, per rifarsi gli occhi e lo spirito. Poi, c'è chi viaggia, il partente d'agosto, che si sobbarca di tutti gli inconvenienti climatici e di sovraffollamento per vie di terra, d'aria o di mare, pur di scappare per assaggiare altre città, altri paesaggi, tutti luoghi che diventano nel ricordo di scatti e selfie, meraviglie uniche e inenarrabili.
La pausa vacanziera può, però, servire anche ad altro. A scremare, a togliere parti impure, a riflettere. La zavorra inutile non peserà più.

Le foglie


Nel libro sfogliato dal vento
annego l’ansia del giorno.
Pensieri ratti come topolini
inseguiti dalla gatta che miagola
al centro del petto spoglio di tutto.
Osservo gli alberi prostrati verso di me,
le foglie memori dell’autunno recalcitrano,
avviluppate al ramo non vogliono cadere.
Frusciano lamentose, s’agitano pazze e atterrite,
L’albero nudo è solo, non ha difese, sussurrano.
Poi vedo i suoi occhi chiari e perduti
ascolto le sue parole senza risposta,
allora le stacco, una per una, quelle foglie,
già morte sono, le stacco senza dolore.
E le ammucchio e le spazzo via, lontane,
l’albero darà altre foglie, piccole gemme
pallide fremono di vita nei suoi occhi chiari.


Foto di  Bogdan Prystrom






lunedì 10 agosto 2015

Furto d'agosto.

Chi scrive, sia che lo faccia di mestiere, sia che lo faccia per diletto, può essere ascritto alla categoria dei ladri. Già, se ci si sofferma a riflettere, è proprio il reato di furto quello che compie lo scrittore. Perché, se l'occasione fa l'uomo ( il passante, il viandante per caso) ladro, figuriamoci quello che provoca una qualsiasi situazione, un incontro, una passeggiata, un viaggio, nella mente distorta di chi ama o ambisce a scrivere e descrivere sentimenti, immagini, visionarie suggestioni, fantasmi della mente e del cuore. Ombre e corpi; luci e tenebre. Sempre, in un' alternanza spasmodica che non dà tregua, che martella nella pancia e nel cervello. Ci si vorrebbe alienare da questa tendenza, una specie di cleptomania, che sottrae alla vita il nettare necessario. Che poi risulti amarostico o troppo melenso, poco importa: è una necessità distorta, un'urgenza a cui non si sfugge.
Me ne stavo di fronte al mare, il mare d'agosto, piatto e verdognolo, non limpido, le meduse vi abbandonavano pezzi sfatti. L'afa mi cingeva con un'aureola rovente, la sabbia, spilli di fuoco. Tutt'intorno, bambini e ragazzi che si schizzavano, sciamando felici, in un incessante dentro-fuori dall'acqua. Qualche parola scambiata con amici coetanei. Il silenzio era assente, lo sciabordio delle onde non penetrava il rumore delle risate, non riusciva a diventare silenzio, quello monotono e rombante del mare che si frange sui piedi.
Nel pomeriggio il cielo s'incupì, l'orizzonte scomparve, fu tutto di piombo. I lampi scaricavano nel mare la loro elettricità, zigzag furiosi che facevano urlare di paura i più piccoli e a ogni tuono era uno sbarrare d'occhi. Giocavano però, rincuorati dalle nostre presenze. Poi la pioggia, scrosci, zampilli giù dalla tettoia e ci si bagnava, c'era quasi freddo. Venne il momento di restare seduti e si parlava. Ed eccola, allora, la compagna implacabile, la mia ossessione, la smania di ascoltare e intanto annotare. Gesti, parole, commenti. Quegli occhi chiari e grandi, così assetati d'affetto, così desiderosi di piacere e di compiacere; e l'uomo solo, perennemente in lotta con i suoi errori; e le donne, ah! noi donne, mancate all'appello dell'amore, inesorabili siamo, nel bene e nel male; foglie migranti dall'albero buono, spesso caschiamo nel macero informe, per pigrizia, per viltà.
Gli altri, uno nessuno centomila. Ricordo che si parlò di Pirandello e, per un attimo, mi parve che il sole riaffiorasse tra le nuvole.
Il mio furto si compiva, ascoltavo, osservavo, sezionavo, un ricercatore al microscopio. Ma, in fondo, non c'era niente che non conoscessi, niente da scoprire. Era semplicemente un tardo pomeriggio d'agosto, sotto un acquazzone estivo.

Filippo De Pisis  "Conchiglie"

lunedì 3 agosto 2015

Ultima estate

Le estati si affastellano, stanno una sull'altra proprio come carte scritte e dimenticate sullo scrittoio. Alcune se ne vanno via, per sempre, non valgono la dolcezza del ricordo. Altre restano, assolate come allora, chiare di luce, scure d'ombre.

Ultima estate


Le viole del pensiero erano piantate nei vasi
di pietra lavica e le zinnie ronzavano di api
sulla finestra aperta alle note del pianoforte
nei pomeriggi d'agosto, dopo il mare di sabbia
eravamo sfatte,
alghe restavano appese ai nostri capelli duri.
Non avevamo tempo da ricordare,
né vuoto da riempire con le palette
il cielo roteava giocoso su di noi,
intrappolava gli astri e la luna  macchiava
 le nostre brevi esistenze.
Annusavamo palpiti di pioggia nelle nuvole
e ci chinavamo sui libri
aspettando l’inchiostro sulle dita e il gesso bianco.
Ci scorrevano negli occhi  
figure di donne alte e dritte
o piccole e affannate, serve e regine 
eravamo insieme.
Il giardino cresceva aggrovigliato di rovi,
lanciava uccelli neri dai cespugli
e lucciole ballavano con le nostre vesti rosa.
I gatti cantavano rotolandosi d’amore
e la notte era un  sonno inquieto,
viaggiavamo nel buio scalze e sudate
sapevamo che era la nostra ultima estate.


Mary Cassatt  -  "Le sorelle"   -   1885





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