lunedì 28 dicembre 2015

Che sia vita.

 Allora, mancano pochi giorni e anche questo anno andrà al macero. Gli anni brutti, planetariamente orribili, dovrebbero finire così, nell’acido a liquefarsi. E invece finirà nelle pagine dei testi di storia, verrà reso immortale proprio dalla Morte che lo ha contrassegnato, mese dopo mese. Nessuno di noi, anche volendo, potrà riporlo assieme al calendario vecchio, nessuno di noi potrà dimenticare le stragi in mare di uomini, donne e bambini; nessuno di noi potrà dimenticare il crudele snocciolare dei notiziari che ci hanno tenuti incollati davanti alle tv, ai pc, per aggiornarci sui numeri, sui cadaveri di innocenti negli attentati, di innocenti nell’infinita guerra mediorientale. Uno stillicidio al quale ci siamo, alla fine, assuefatti, forse è questo sentimento di apatica assuefazione, il reale orrore delle guerre e delle stragi. Alla fine stai lì ad aspettare l’entità del danno, a confrontarla con quelle precedenti, a catalogarla, Un lavoro da becchini, in un certo senso o da epidemiologi, ai tempi delle pestilenze antiche e moderne. Il 2015 scompare e, ci scommetto, anche in questa prossima notte, si dileguerà accompagnato da botti, petardi, razzi colorati, grida di speranza e di benvenuto per quello che ne prenderà il posto. Dalla mia terrazza vedrò, come tutti gli anni, incendiarsi la città e mi sembrerà di essere a Beirut o a Damasco, sapendo che è solo un inganno fortunato, perché non ci saranno cecchini appostati né missili, né intelligenti bombe. Ci saranno solo i soliti cretini, i casalinghi guerrieri, a sfogare la loro rabbiosa speranza di ucciderlo l’anno e omaggiare l’altro.

Io, come sempre, come ogni 31 dicembre, non mi aspetterò alcunché, il tempo gioca con la vita come vuole. Mi metterò a guardare il cielo e lascerò salire i miei pensieri e tornerò indietro e rivedrò volti e riascolterò parole. Poi brinderò con chi mi sarà accanto, ma non all’anno nuovo, brinderò con vino rosso alla vita perché sia lei ad allacciare il tempo. Che sia buona vita per tutti, che sia vita, in questo 2016.

Sandro Botticelli "Nascita di Venere"  1482 - 1485 ca.

lunedì 21 dicembre 2015

Corriamo, corriamo!

Ci siamo. L’orologio ha accelerato le lancette, scattano frenetiche sul quadrante e ci dicono che il traguardo è vicino. Il Natale, come un esattore pignolo, si ripresenta alla nostra porta, vuole incassare il dovuto. Vuole incassare il debito che abbiamo accumulato lungo tutto l’anno e così ci presenta il conto, Una lunga lista di omissioni, telefonate non fatte a chi, magari, se l’aspettava; una scappatina da chi sapevamo essere solo; un abbraccio frettoloso a un altro, bisognoso d’un gesto fraterno; e poi i pensieri negati per chi sta peggio di noi; e le parole d’affetto, non dette, le nostre bocche cucite per pigrizia, per apatica rassegnazione. E in cambio, il Natale, ci sottopone un cesto colmo di ricordi, e non sempre è un dono indolore. Affiorano volti e suoni che credevamo svaniti, che avevamo occultati sotto una spessa coperta di indifferenza o di salutare oblio.
In questo caos d’emozioni, di tempeste interiori (che vorremmo si quietassero, che vorremmo disperdere), si profilano,, invincibili alfieri, suonatori di trombe, sventolatori di sacri vessilli, le impellenze obbligate della Festa. E nonostante tutto, nonostante che la Terra tremi in preda a sofferenze e atrocità, nonostante lo sgomento, nonostante le innumerevoli immagini di delirio planetario, nonostante tutto ciò, noi corriamo, corriamo verso la Festa. Tra alberi che non profumano di resina, tra cumuli di carta e plastica, tra montagne di cibo che faticheremo a smaltire, corriamo, formiche impazzite a riempire la tana. Ma la tana è casa, l’ultimo approdo certo e lo stridore del mondo vi s’infrange contro. Non penetra le stanze, non scardina le porte, non spezza la quiete di un giorno. Resta sospeso al di fuori, per una notte e per un giorno, sconfitto dall’illusoria bellezza di sentirsi al riparo.

Non ci saranno convulse resse d’abbracci
né banchetti assiepati di volti
i volti amati sono in cornici appese
al cuore dell’albero sprizzano  luce
Non ci saranno canzoni e campane
le renne sono nella stalla ormai
con le zampe spezzate del carillon
di voi figli bambini con i piedi scalzi
e gli occhi d’innocui felini sonnacchiosi,
 incollati al vetro della porta, antro della magia
tra i guizzanti ceppi nel camino,
a scrutare le rosse ombre della vigilia.
Non ci saranno giochi al tavolo unto di dolci
né bellicose tenzoni e caroselli saettanti
nel turbinare di augurali promesse.
Sarà il Natale quieto della nostra vita
sarà il Natale delle mani aperte, aperte a noi
come colombe di pace sulla capanna antica
sarà il Natale gentile delle parole,
faville crepitanti a sciogliere il silenzio.
Dal cielo cadranno forse le stelle sopra  noi.



Foto di Meyer Liebowitz  N.Y. Times 1959


martedì 15 dicembre 2015

Chapeau!

Si torna sempre sul luogo del proprio misfatto, così recita la vulgata della cronaca nera. E io sono tornata, ancora una volta, sui luoghi del mio delitto, che è un romanzo rimasto, come altri, nello scaffale fisico della mia libreria e in quello immateriale del mio cuore.
La storia è lineare, tutta in verticale però. Molti anni or sono, per una casualità di cui non ho memoria, mi ritrovai con alcuni amici in un borgo arroccato sui monti Iblei: Buscemi. Si era in estate ed eravamo venuti su dal mare, probabilmente accaldati e stanchi, con poca voglia di girare per le stradine sconnesse che scendevano e salivano, costeggiando le case malmesse, in evidente stato di abbandono. Eppure, c’era un silenzio profumato di erbe selvatiche, una quiete remota che mi turbarono. Forse l’emozione fu dovuta all’improvvisa estraneità dall’esacerbante frenesia della spiaggia e della folla chiassosa che vi si rotola, beatamente disinibita, non lo so. Ma provavo un benessere accogliente, come un reduce che ritorna alla pace del proprio nucleo d’affetti. Parecchi anni dopo, tornai di proposito e decisa a conoscerlo meglio, quell’eremo silenzioso. E ne fui ancora più incantata: era un giorno di novembre con tutti i requisiti di questo mese, nebbiolina, pioggia sottile e intermittente, cielo cinerino, a tratti squarciato da una sottile lama di sole. La chiesa barocca dominava la piccola piazza con le sue volute in pietra color ocra chiara, le case all’intorno recavano i segni di una vetusta e trascurata bellezza. Visitammo le case museo, case quasi scavate nella pietra, dove avevano vissuto contadini e pastori, in dignitosa e operosa povertà. Anche in quella domenica di novembre il silenzio del borgo mi afferrò, un giovane che si era prestato, gentilmente, a farci da guida, ci disse che ormai gli abitanti erano non più di settecento. Il selciato a lastre  scomposte, tra le pietre l’erba ingialliva sotto le sferzate delle prime gelate, ci portava su e poi giù, e noi inerpicandoci  verso l’alto e dopo slittando verso la valle, ci guardavamo intorno senza fiatare.
Alcuni anni dopo trasposi l’immagine di Buscemi nel mio libro, trasfigurandolo con la fantasia e divenne Geodoro.
Ci sono tornata ancora, pochissimi giorni fa e non ho trovato più Buscemi, Geodoro è scomparso per sempre. Al suo posto, i miei occhi stupefatti e tristi, hanno visto palazzi dalle facciate dipinte d’un verde squillante o di un rosa maitresse; le antiche case hanno perduto la dignità dei loro infissi scardinati, per acquisire la volgarità degli inesorabili infissi in alluminio; la bella chiesa barocca c'è sempre, almeno quella è intatta, ma dietro occhieggia, come un fungo maligno, un caseggiato verdognolo. Il silenzio resiste, interrotto dal ronzare di qualche veicolo; ma non profuma di erbe selvatiche, ha l’odore  che si riversa da due o tre bar con le insegne al neon  blu viola e rosso, che snocciolano le specialità in inglese, ovviamente. Come se ci trovassimo a Soho.

Ho deciso di scrivere al Sindaco, mi sono procurata tutto l’occorrente. Voglio complimentarmi con lui per avere distrutto una mia visionaria e delirante fantasia. Sì, gli dirò che Buscemi – Geodoro non esiste più. Al suo posto resta, però, qualcosa: l’oro (sono stata Cassandra?) degli infissi, dei portoni, dei cancelli, in alluminio anodizzato, che si riverbererà, in eterno sulle vallate circostanti. Chapeau, signor sindaco!

Gustave Courbet  "Il disperato" autoritratto  -  1844

giovedì 10 dicembre 2015

Giorni di misericordia.

Certo, i giorni sono contrassegnati dall’euforia delle feste. Così pareva che fosse negli anni passati, un’ascesa verticale verso la stella puntata sulla cima dell’albero e di sotto, alle radici finte se ne stavano accatastati i pacchi strenna. Si viveva con la testa nascosta tra i peli candidi della barba di un Babbo Natale tanto fasullo quanto osannato e chiassosamente cercato. Poi sono arrivati scoppi che non sono di petardi e sono proprio accanto a noi, ci sfiorano quasi, perché anche se già c’erano, erano distanti e non riuscivano a scalfire le barriere di ghirlande e festoni luccicanti, c’eravamo trincerati, con zelante affanno a tenere fuori tutto il resto. Poi è arrivato il mare carico di morti, di bambini morti e non erano bambole e pupazzi rotti dai giochi violenti dei nostri bambini. Poi sono venuti allo scoperto i ragazzi, a migliaia, ogni sera puntualmente, a raccontarci i numeri della loro disperante solitudine e indegnità, i ragazzi che ciondolano in ciabatte per casa aspettando una mail, una telefonata che ritarderà, forse all’infinito. I ragazzi che escono, di sera, con i pochi soldi in tasca frutto di lavoretti precari o di striminzite e dolenti elargizioni dei genitori, e se ne stanno a raccontarsi le loro vite, gli occhi accesi di vino e di sogni che non vogliono evaporare nell’alcol. I ragazzi che rientrano a casa e si ficcano a letto, stremati dalla fatica di un’altra notte che annuncia un altro giorno da vivere.
E succede che qualcuno di questi ragazzi si perde per strada, camminando verso casa guarda   al cielo ed è talmente buio che gli cade addosso e sembra un macigno e, allora, c’è una piccola luce nel nero velluto della notte e ha proprio l’aspetto di una stella e le corre dietro. Ma è una stella sbagliata, è solo il crudele miraggio dei suoi occhi offuscati, della sua anima fragile. Se ne va, così, scompare lieve nella notte, lasciando una traccia lucente, come di brina sull’erba, in questi giorni di dicembre.
Questi sono anche i giorni dell’inizio dell’Anno Santo, del Giubileo della Misericordia, così ha scelto di chiamarlo il Papa. E ci crede sicuramente, lui è un uomo di fede, un uomo pio e deve credere nella bontà di disegni divini per l’uomo e nella bontà ritrovata da parte dell’uomo. Io no, non vedo misericordia in questo mondo. Non vedo l’avvento di un’era di misericordia. E non parlo di quella di Dio, non mi compete, appartiene alle cose trascendenti e io non ho in me niente di trascendente, sono immersa nella terra, ne assaporo il gusto friabile e aspro. Io non credo nella misericordia degli uomini, i loro cuori hanno la consistenza e la forma delle banconote, non sono cuori che pompano vita. La misericordia divina, se ci sarà, se vorrà avventurarsi tra noi, avrà un bel da fare, dovrà combattere a muso duro contro gli esseri umani. E questa sì che sarebbe una guerra bella: sarebbe la guerra dei miracoli

Pieter Brueghel il Giovane,Le sette opere di misericordia, 1616 ca,

giovedì 3 dicembre 2015

Ancora Dicembre.

Ancora Dicembre, mese degli obblighi, mese di vecchi rituali che si perpetuano a dispetto delle mie convinzioni. Ci sono stati molti mesi di dicembre nell’arco della mia vita e molti di questi sono stati contrassegnati dalla gioia, dall’attesa della notte più lunga e più santa, accompagnati dallo sfrigolare del cibo sui fornelli e dal tepore profumato dei biscotti nel forno;e la vigilia arrivava sempre troppo presto, non mi sentivo mai davvero pronta, c’era sempre qualcosa d’incompiuto che mi metteva addosso un disagio di cui mi era ignota l’origine.  Però eravamo tutti insieme, nel vociare turbinoso, negli abbracci frettolosi e ansimanti, perché eravamo tutti un poco stanchi di correre e di prepararci per l’appuntamento annuale; il mattino, freddo di solito, che la seguiva, con il corredo di squilli e scalpiccii per casa, avvoltolati ancora nelle vestaglie, bambini dagli occhi brillanti di sonno e d’eccitazione e gli adulti assonnati e confusi, tra pile di carte argentate e nastri rossi e oro.
Eravamo tanti, non mancavamo mai di esserci tutti. Poi, lentamente come una tignola testarda che rode l’ordito della lana, iniziammo a mancare. Ci furono le prime dolorose assenze, le sedie vuote che non si sarebbero più riempite attorno al grande tavolo: e dopo ci furono le nostre assenze. Volute, forse per noia, forse per stanchezza, forse per inerzia.
Ancora Dicembre e si discute di laicità o religiosità del Natale. Si litiga ferocemente - oddio il fondamentalismo delle ideologie! - se il presepe e i canti tradizionali possano turbare lo spirito religioso - oddio ancora! - dei bambini non cristiani (cattolici) presenti nelle scuole del territorio nazionale. Come se i bambini potessero inorridire di fronte a una capanna di cartapesta con la stella cometa sopra e turarsi, altrettanto inorriditi, le orecchie per non dovere ascoltare una canzoncina.  I bambini sono bambini dappertutto e, probabilmente, sarebbero curiosissimi di vedere un presepe e di cantare in coro un ritornello; per loro, se non ci si mettono di mezzo gli adulti sciocchi, non fa nessuna differenza, per loro è semplicemente una nuova esperienza, qualcosa da imparare di questo folle, ma anche, divertente  e differente mondo. Lasciamoli stare allora, i bambini, soffrono già troppo per le nostre scelte dissennate, lasciamoli scegliere, per una volta, quello che gli pare.
Che poi, tanto rumore per nulla, perché c’è poco di religioso nel Natale del 2015. E anche in quelli degli anni passati, da quando tutti insieme abbiamo optato per festeggiarlo, questo Bambino, con lustrini e paté, con brindisi e deschi opulenti, con montagne di regali sfolgoranti sotto alberi di plastica a loro volta sfolgoranti di palle e di luci.
Se c’è uno spirito religioso , sacro,  del Natale è, forse, quello legato alla religiosità dei ricordi, degli altri Natali, quando eravamo tutti un poco più innocenti. Il Presepe, l’abete, i canti, assumono, allora, un significato prezioso, mentre  li togliamo dalle scatole dove hanno riposato per un anno: ogni addobbo, ogni pastore, ogni stella, ci riporta indietro qualcosa, un momento di luce nel cuore, ci riporta indietro qualcuno che se n’è andato. E ci ritroviamo, senza rendercene conto a canticchiare, con un filo di voce, i canti di Natale, sempre quelli, ancora quelli. E magari ci tremano le parole e ci si appanna la vista. Ma questo non si deve dire.
Ancora Dicembre e per me non ha un gran significato, non sono in attesa del miracolo che muterà il male in bene, non saremo tutti più buoni in quella notte. Saremo quelli di sempre, saremo sempre meno attorno al grande tavolo, ognuno chiuso e perduto dietro alla sua stella cometa, in  un viaggio ognuno di noi, attorno all’albero scintillante, uomini e donne, alla ricerca di tutti quei Natali trascorsi che se ne stanno impilati nella nostra memoria, tutti magici, tutti migliori.


Henri Matisse  "Icarus"    1946


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