lunedì 26 agosto 2019

Stanotte ti ho sognata.

Dicono, così dicono, che quando non si è più giovani, si smetta di sognare. Per me non è così.



Stanotte ti ho sognata.  24 agosto 2019


Era il liceo, mamma?
Era quel  portone che varcavo
senz’ ancora coscienza di me
che camminavo distratta
per i vicoli e i cortili
ammassati nella miseria
della città vecchia
senza scampo né suoni?
Non ricordo campane
né echi di rondini
solo brusii di bambini
e di ragazzi pallidi
dalle scarpe sgraziate.
E richiami di madri
dal ventre  gonfio
di figli e di fame.

Era quello il tempo, mamma?

Ti ho scorta dritta davanti a me
non avevi le spallucce incassate
di quell’ultima casa straniera.
Eri dimessa negli abiti color
della pietra, di pietra porosa
ti crollavano addosso
in un collasso di muscoli e tendini.
I capelli appiattiti sul sommo del capo.
D’ucello  schiacciato nel nido
Ti ho riconosciuta varcare l’ingresso
e abbrancare le scale di marmo
tutta una ellisse salivi e io dietro.

Oh, mamma quel bianco
immortale palazzo
per corridoi e sale blindate
percorrevi e cercavi, cosa cercavi?
Rovistando nel tempo passato,
com’è stato difficile seguire
i tuoi esili piedi.

Mi perdevo e ansimavo
tremavo nelle ossa
di uguale colore
di uguale tremore
della pietra che si sgretolava
a ogni tuo passo.
Cammino nella scia della
tua polvere, mamma.

Poi mi hai guardata
con quel tuo sguardo
d’altro celeste.
Ho fretta, mamma, ti ho detto
e ci siamo lasciate
in silenzio.

C’era un turbine d’intorno
una velatura di massi
che rovinavano sulle selci
m’offuscava gli occhi.

Ora correvo giù in un gorgo
di scale - la tua ellisse, mamma -
il palazzo ondeggiava e sbatteva
ora  s’era scurita la pietra
era calata la notte e io, oh se lo sai,
ho paura della notte, mi acceca.

Uscivo alla luce.
Nascevo di nuovo da te, mamma?

Fuori  c’è il respiro del mare,
una strada in leggera discesa
e tu eri  lì ferma, la mia sentinella.
Dove vai, mamma ti ho chiesto
E tu eri muta e aspettavi
Vieni con me, mamma,
andiamo da Erica,
andiamoci insieme ti ho detto.

Tu hai sorriso e mi hai offerto la mano.













venerdì 23 agosto 2019

E, ovviamente, l'amore.

So che questo genere di argomenti, questo parlare non di cieli azzurri e di palpitazioni estive sotto lune rosse, di flutti al tramonto e di vette rosate dall'ultimo raggio,  so che non suonerà felicemente alle orecchie degli innumerevoli cuori poetici che si aggirano qui.
Più di una volta mi è stato fatto notare che la politica non si può fare seduta su una sedia, dietro uno schermo; che è tempo sprecato; che è meglio non sporcarsi con una cosa così sporca: è consigliabile afferrare nuvole e spazi luminosi, spingersi oltre le umane miserie. Volare alti, alti. A costo di perdere di vista la terra che calpestiamo giornalmente e con essa gli esseri umani e noi stessi, quindi.
Ma io appartengo a una generazione che non poteva fare a meno di sentirsi "politica", di vivere la politica anche dentro le stanze di casa, di assaporarla come vino ai pasti. Di farci l'amore, pure quello; e, ad alcuni di noi, ce lo ha insegnato.
E allora mi appassiono sempre, mi sdegno sempre, mi illudo e mi sconforto sempre. Come in questi giorni, tragicomici e non dissimili da altri del passato, che hanno segnato le mie ore. Incollata davanti allo schermo a sentirli e a guardarli sfilare, questi ometti rissosamente tristi. Già! Mi ispirano tristezza perché sono il riflesso corporeo di un Paese triste e rissoso: come potrebbero essere altrimenti? Quali altre energie buone potrebbero emanare, se nessuno è disposto a coglierle, ad accettarle, ad accompagnarle?
Ai loro volti abbronzati e strizzati dal timore della perdita (pensate, pensiamo al fremito di ansia che li assale, "E ora? Cosa farò?" Il potere assaggiato è l'esca della schiavitù), ai loro volti contratti si si alternano quelli gaudenti, giulivi dei commentatori negli studi televisivi. Perché è una pacchia, una manna dal Cielo parlarne. Ognuno parla e parla e parla, contraddicendosi, dandosi idealmente teneri buffetti sulla guancia, ruminando la più nuova, clamorosa, eclatante e definitiva esegesi della penosa situazione in atto. Sempre sereni, mai arrabbiati, seraficamente asettici.  Sempre cinicamente sul posto,  attorno al cadavere della politica e della nostra povera patria. E io li osservo, li ascolto e mi sdegno: sdegno aggiunto allo sdegno. Stanno aspettando, mi dico, che in qualche modo si scannino, che la politica venga, ancora una volta, decapitata. Giustiziata.
Rendo merito e onore al Prof, Massimo Cacciari che ancora si incazza e si sdegna. Come me.
Come dovrebbe essere per tutti. Anche per chi non vuole parlarne e preferisce i cieli e il mare e il sole. E ovviamente l'amore.


Edvard Munch  " Il bacio "  1897

sabato 17 agosto 2019

L'ultimo ferragosto, di oggi. Di ieri.

Il ferragosto se n'è andato. E a me s'allarga il cuore: meno caldo, spero, meno obblighi di stare insieme. Un ritorno alla solitudine, quella dei silenzi prolungati delle stanze, ma anche quella dei fruscii in giardino e delle pagine che scivolano tra le mani.

L'ultimo ferragosto di oggi e di ieri.


I guizzi nell'acqua dall'erba

molli gesti della pigrizia 
riconquistata
perché si nuota come bambini
schizzando sputi salati
le mani incise da solchi di freddo.
Fuori una saetta s'infila nella schiena
non cade dal cielo quasi nero
e le stelle
sono tutte cadute a San Lorenzo
stanotte c'è solo la luna
mezzana
di quando ero ragazza e portavo
sulla spalla scoperta 
una treccia.
Nel giardino d’ortensie piegate
le cicale si fregano le ali
sono allegre
nel corteggiarsi sulla magnolia,
c’è tra noi chi le scambia
coi grilli
io dico di no, che quelli
sono sapienti, quelli dei campi.
Ma non si parla stanotte
non si parla dell’oggi.

Mangiamo e ridiamo alla mensa
a turno ridiamo
il vino che scorre non è sacro
come un tempo nel tempio
nel nostro tempo
e nel nostro 
tempio.
Oh! i giochi, le vittorie
e le sconfitte e le urla
di chi non sa perdere.
Rientrano in fretta
schiamazzano e i cani
accucciati per terra 
sobbalzano con musi stupiti.
Uno scroscio, un tonfo,
un repentino scatto
una foto scolorita nella
scatola magica.
Non siamo cambiati.
Con altre ossa, con cuori
dal ritmo pazzo, 
con occhi segnati 
da veli notturne.
Siamo qui, 
in questo ferragosto di oggi.
Di ieri.


Pablo Picasso "Paysage à Valleuris, la nuit"  1952

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