giovedì 26 dicembre 2013

Diario di Natale.

Finito il frastuono del cuore, memorie e ricordi archiviati, restano i piatti da riporre e le tovaglie rosse da appendere al sole che non c'è. L'odore del Natale resta ancora nelle stanze, permane un aroma di dolci burrosi e di cannella, stagna sulle larghe brattee dell'euforbia squillante, retaggio vivo della festa. L'abete (ecologico? e quando si dovrà smaltire, dove andrà, tra i rifiuti speciali?), scintilla inesorabile, almeno per un'altra settimana. Fino a che ci sarà lei, la mia ninfa bella e infedele. Infedele a me. Scapperà volando verso la città straniera che l'ha accolta con freddo affetto. E che lei, la mia ninfa, adesso ama. Io tornerò alla mia vita di sempre, fitta di finti impegni, fitta di letture e di scrittura inutile, reciterò la mia parte. E penserò a lei e aspetterò il prossimo aereo e il prossimo Natale. Intreccerò una ghirlanda con filo d'acciaio e bacche di mirtillo per incatenarla. O catturerò un pettirosso e lo chiuderò in gabbia. E lo libererò con lei e li vedrò volare via insieme.

Dal diario di Adele.


Il mio Natale

L’albero se ne sta
In salotto
Finto e brillante.
Non porta appeso
Niente di me.
Le sue sfere di vetro
Conservano il tuo
Codice genetico.
Le serberò con cura
Nella carta bianca.
In attesa di un altro
Natale con le tue
Mani che sfiorano
Le mie stanche.
Non farò auguri
Li voglio da te.
Non avrò doni
Da scartare
Li voglio da te.
Non ascolterò
Canti e preghiere
Sola senza di te.
E’ il mio modo
Di amarti, di darti

Il Natale.


Salvador Dalì   Natività acquerello 1964

giovedì 19 dicembre 2013

Il sale della Terra. I bambini.

Oggi  voglio pensare ai bambini. Idealmente a tutti i bambini della Terra. I bambini sono il sale di questo nostro pianeta, senza di loro ogni azione, ogni attesa sarebbe sprecata A loro regalo questa mia favola e anche se un po' lunga, potranno leggerla o potrete leggergliela voi, mamma papà nonni, poco alla volta.
Buon Natale piccoli e buon divertimento con Lalà.

                                La favola di Lalà.





C’era una volta in una città senza nome di un Paese senza nome, una bambina di nome Lalà. Strano nome direte e avete pure ragione, ma il fatto è che questo nomignolo le era stato dato dalla mamma a causa della curiosità che la piccola mostrava per ogni cosa: là, là guarda, là, là ho visto, là, là ho sentito…
Lalà, non avendo né fratelli né sorelle, stava spesso affacciata alla finestra della sua cameretta a guardare il cortile e gli altri bambini che erano lì sotto a giocare. Ma più dei suoi piccoli amici osservava il cielo, il grande albero che cresceva al centro del cortile, le aiole lungo i muri, la fontana che mandava un allegro suono di acqua saltellante. Quello che vedeva la incantava, era il paesaggio a cui era abituata, anche se con il passare dei mesi e degli anni (pochi in verità, perché era  piccina) si era accorta che qualcosa stava cambiando.
Il cielo si era sbiadito, da celeste era diventato grigiolino; l’albero era spelacchiato come la testa di un nonno e non c’erano più nidi di passeri e pettirossi tra i suoi rami; i fiori nelle aiole spuntavano magrolini e pallidi come se avessero una brutta influenza; e nella fontana l’acqua era torbida e non faceva più un buon profumo di montagna.
“No, no,” scuoteva i riccioli Lalàà, parlando ad alta voce con se stessa “ qui c’è qualcosa che non va. Bisogna pensarci bene, bisogna darsi da fare. Ed è inutile parlarne ai grandi, hanno sempre tante cose da fare! Nemmeno se ne accorgono! Corrono sempre di qua e di là come formiche. Però formiche stupide. Sì, non dovrei dirlo e neppure pensarlo, ma i grandi sono un po’ sciocchi e amano cose sciocche. Si arrabbiano e gridano per niente e non vedono più gli alberi e gli uccelli, non guardano il cielo. Che scemi!”
 Non ne parlava perciò con nessuno, neanche con la mamma, e andava a letto pensierosa e un poco, solo un poco però, triste.
 Un pomeriggio, la mamma le diede il permesso di scendere in cortile. Lalà lasciò il coniglietto bianco che non la abbandonava mai sul letto a riposare e si precipitò giù. Non trovò nessuno. Il cortile era vuoto e silenzioso, non c’era vento e neanche freddo. A dire il vero non c’era né caldo né fresco, proprio niente. Solo silenzio, niente fischi di passeri, niente fruscio di foglie. Ma già, quali foglie? Il vecchio albero ne conservava, ormai, alcune di un verde polveroso che parevano sul punto di staccarsi. Lalà sospirò e si diresse verso le aiole, avrebbe scavato fra le zolle di terra per trovare qualche vermetto o avrebbe ispezionato i fiori alla ricerca di una coccinella.  Neanche lì trovò qualcosa, i pochi fiori stavano a testa in giù, come se facessero fatica a sostenere il peso dei petali e la terra secca e  dura le si sbriciolò tra le dita, quasi graffiandola. Meglio lasciar perdere, non avrebbe trovato né vermetti né coccinelle. Camminando sulla pietra, saltello dopo saltello, arrivò al grande cancello che dava sulla via. Clang clang, wroom wroom, perepepepe perepepepe,  driiin driiin, bruum bruum  mille rumori le caddero addosso.  Lalà corse a rifugiarsi nel cortile, spaventata da quel baccano. Ma la curiosità era troppa e piano piano, a  passi cauti tornò sulla strada e quello che vide non le piacque per niente. La mamma le proibiva di andare per strada da sola e quando erano insieme le raccontava tante belle storie e alle domande di Lalà sulla sporcizia dei marciapiedi, sui sacchi di immondizie traboccanti, sulla puzza dei gas di scarico delle auto, rispondeva con una carezza, un sorriso non proprio grande, con una nuova storia di boschi e fiori e animaletti in libertà, tanto per distrarla. Ora Lalà era sola, senza la mamma e tutte quelle cose belle erano scomparse dentro al libro delle favole posato sullo scrittoio; al loro posto, gli occhi di Lalà vedevano solo spazzatura nei sacchi aperti da gatti affamati, cartacce svolazzanti al posto di rondini; e il nasetto annusava puzza di veleni di strega, invece che profumo di fiori.
Girò le spalle alla strada e rientrò nel cortile, avrebbe giocato, fino all’ora della merenda, con i pesci rossi nella vasca. Si sedette sul bordo e guardò tra le muffe verdi che ricoprivano l’acqua, la agitò con la mano: niente, nessun guizzo, nessun amico pesce, morbido e scivoloso da sfiorare. Allora comprese. Anche i pesci erano tornati nelle pagine dei libri, li avrebbe trovati lì, sorridenti e paffuti, pronti a raccontarle la loro storia. Risalì in casa e nei grandi occhi brillavano piccole stelle d’argento.


 Nel suo lettino Lalà dormiva con il coniglietto bianco, era stanca ma aveva fatto una certa fatica a chiudere gli occhi e la mamma aveva avuto un bel da fare, seduta accanto a lei, a leggerle una favola lunghissima. Ora il sonno era arrivato, leggero come piume di pulcino le accarezzava le palpebre chiuse. 
Lalà sogna una foresta di alberi forti e alti e uno spiazzo di erba costellata di fiori e farfalle in volo che si scontrano con piccoli uccelli verdi dal buffo cappellino. Uccelli verdi? Berrettino? E poi cosa è questo suono, chi bisbiglia vicino al letto? Lalà apre gli occhi, si mette a sedere stropicciandoli per cacciare via il sonno e aguzza lo sguardo nel buio dorato della sua stanza. Per fortuna la mamma le lascia sempre accesa una lucciola nell’angolo e là, sì, sì, accanto al lumicino, c’è qualcosa che si muove! Ma cos'è?  Uno scricciolo di bambino pare, una creatura minuscola che agita le mani in segno di saluto.
“Chi sei? Come sei entrato?  Ti ha fatto entrare la mia mamma?” chiede Lalà
“ Oh, no! Io vado ed entro dove voglio, sono bravissimo nel farlo e nessuno riesce ad accorgersi di me! Mi chiamo Fluff e sono uno… uno…”
“Uno cosa? Un elfo dei boschi? Uno gnomo no. No, non hai la barba! E allora, chi sei?”  
“Uno spiritello, ecco!  Io sono uno spiritello della Terra, della Regina Terra.”
Rispose finalmente, con tono d’importanza, il buffo esserino.
“E cosa vuoi da me? Non capisco. Mi svegli con i tuoi sospiri e non mi dici niente! E dai, non startene impalato nell’angolo, non ti mangio io, sai? Non aver paura, avvicinati. Io sono Lalà:”
A dire il vero, il cuore le batteva forte, ma non voleva dargli a vedere che un pizzico di paura in effetti lo provava. 
Lo spiritello inciampò nel tappeto di lana azzurra e per poco non finì addosso a Lalà: Tutti e due fecero un salto d'un metro e mezzo per lo spavento.
“ Ooops!!! Scuuusa! Ehm, dunque Lalà, io ho sentito, passando per caso qua vicino, che tu sei triste per tutto quello che succede di brutto nel mondo. E ho deciso di darti una mano. Ecco. Se lo vuoi, ma devi volerlo veramente, le cose potranno cambiare.”
Anche Lalà si era ripresa dalla fifa e ora lo ascoltava piena di interesse.
“Certo che lo voglio! Dimmi cosa devo fare, dimmelo ti prego, sono così felice e così curiosa!”
Fluff si era inerpicato sul lettino, era alto quanto il palmo della mano del papà di Lalà, e il berretto gli calava di continuo sugli occhi  facendolo sembrare più un fungo che un nanetto.
“Bene!  Tu devi solo VOLERE che il tuo desiderio si avveri e pensare con tutte le tue forze, con tutto il tuo cuore che anche gli altri bambini come te, più grandi e più piccoli, di qualunque colore abbiano la pelle, gli occhi, qualunque lingua parlino, siano anche loro come te desiderosi di vivere in un mondo diverso. I vostri cuori devono diventare un solo cuore, i vostri pensieri un solo pensiero. Al resto ci pensiamo noi! Perché non crederai che sono solo, io? - Pfui fischiò -  “Siamo moltissimi, siamo un esercito. Ma un esercito senza brutte armi.”
Lalà lo aveva ascoltato attenta e con gli occhi sgranati, la boccuccia era diventata una O così perfetta che la maestra  ne sarebbe stata orgogliosa.
“ Sì, va bene. Lo farò, sarò un solo cuore e un solo pensiero. Ci riuscirò, ci riuscirò, ci riuscirò…”
Gli occhi si richiudevano nel sonno, la lucciola nell’angolo illuminava appena il visetto serio tra i riccioli sul cuscino. Un lieve battito d’ali,un sussurro e Fluff vola via.

I folletti o gli spiritelli della Terra sono molto veloci, anche se spesso inciampano in un capello e ruzzolano giù dalle grondaie e dai comignoli perché sono distratti e curiosi. Così per l’appunto, anche Fluff si precipitò, un po’ volteggiando nel blu del cielo, un po’ scivolando pericolosamente giù per i fianchi dei monti, a cercare gli amici; e lasciandosi trasportare appeso alle nuvole e strillando a squarciagola, riuscì a raggiungerli tutti, o quasi. Soltanto Gronf non si presentò all’appuntamento che Fluff aveva dato presso la Stellapiùlucente, sì proprio con tutte le lettere attaccate. Ma già, di lui non ci si poteva fidare, era sempre l’ultimo ad arrivare, così cicciottello e svaporato.
In un batter d’occhio, Fluff ordinò ai compagni di fare e rifare in tondo  e girare e rigirare per tutto il mondo, di entrare in ogni casa, ogni capanna, ogni tenda, camper o qualunque cosa dove ci fosse un bambino o una bambina, meglio se più di uno. E che ogni folletto entrasse nei sogni dei bambini e li facesse sognare la stesso identico sogno: un unico cuore, enorme. Un unico pensiero d’amore per la Regina Terra.
Via! Via! Come piccolissime astronavi saettano i folletti e volano per il cielo e poi atterrano silenziosi ed entrano nei sogni di tutti i bambini. 
Nella notte buia, tra le stelle e la faccia sorridente della luna, un cuore si allarga, si allarga sempre di più, diventa talmente grande da riempire la volta celeste.
Pum pum pum fa il cuore e questo suono è più dolce di una ninna nanna.  
                                                                                                                                   Ed eccoli ancora in viaggio: che notte di stanchezza per i nostri folletti! Ora volano in alto, sfondano le nuvole e bussano al Castello di Maltempo. In verità hanno un po’ paura, gli abitanti non hanno un bel carattere, anzi alcuni sono proprio terribili. Ma coraggio, bisogna osare.
Il pesante portone si spalancò con un boato fragoroso, il Gran Ciambellano Tuono li accolse con un brontolio sinistro, mentre Saetta e Lampo, due Cavalieri secchi e nervosi, proprio due tipi elettrici, spingevano Fluff e gli altri spiritelli nella sala del trono. Finalmente, tra una scossa e un ruggito, i malcapitati folletti, alquanto malconci, giunsero davanti al Re Maltempo, talmente immenso che la testa si perdeva tra nuvoloni neri.
“Cosa volete dunque? Come osate entrare nel mio castello?” disse il Re con un vocione che scuoteva le mura e faceva roteare vorticosamente i lampadari di ghiaccio appesi al soffitto.
“Mio Re, Eccellentissimo Signore di tutta l’atmosfera! Umilmente mi presento, con i miei amici!  Sono Fluff il folletto inviato dalla Regina Terra per chiedervi una grazia, un favore, un…”
“ Bando alle ciance, so già ogni cosa! - lo interruppe il Re - e anche se mi disturbate non poco, non posso rifiutarmi di aiutare la mia cara amica. Tempi oscuri sono questi per lei e spesso anche per me! Vi confesso che anche io sono turbato da quello che avviene laggiù, mi rende inquieto e mi fa perdere la bussola, perdindirindina!” E il Re Maltempo emise un ruggito ancora più forte, così forte che un cristallo di ghiaccio si staccò dal lampadario e per poco non seppellì Fluff. 
“Oh! Mio magnifico e generoso Signore, allora accettate di venirle  in soccorso?” 
Fluff era in un brodo di giuggiole, cioè era felice nonostante il pericolo che aveva appena corso, e smaniava per l’impazienza.
“Certo, piccolo amico, ecco ora ti presento coloro che ti aiuteranno.”
A un cenno della mano di Re Maltempo, sbucarono dalle nuvole bianche, grigio chiaro, grigio quasi nero che arredavano la sala come tende drappeggiate ai finestroni, alcuni personaggi bizzarri e chiacchieroni. 
Il Re Maltempo fece le presentazioni, a ogni colpo del suo scettro di cristalli di ghiaccio apparivano, sfilando ordinatamente, i Cavalieri e le Nobili Dame di corte.

“Ecco la Signora Grandine, ehm… un po’ sovrappeso e  anche rumorosa ... Questa è Madame Neve, gelida e bella, non c’è che dire!
E ancora, Miss Nebbia, zitella- sorry- single inglese, svagatella e alquanto miope. La soave Signorina Pioggia, a volte sa essere veramente insistente, ma la riteniamo tutti un ottimo toccasana!
E ancora,  Messere Vento,  purtroppo soffre di attacchi di asma furiosa, poverino! E per chiudere vi concedo i Cavalieri Lampo e Saetta - dai quali è meglio stare alla larga, essendo sempre su di giri - accompagnati da Tuono, il mio amato  e brontolone Ciambellano. Se poi aveste bisogno di qualcosa di più… speciale, potrei offrirvi anche Ciclone e Bufera, ma sono tipi poco raccomandabili e non so se vi conviene averli appresso.”
Il Re concluse la presentazione dei suoi sudditi con un sospiro tanto profondo da squassare il tetto. E una cascata di batuffoli di nuvole lo ricoprì alla vista dei folletti.

                                                                               
 Le stelle si spensero una a una, la luna si nascose dietro a una grossa nuvola biancastra. Il cielo cominciò a rombare, pareva che migliaia di cannoni sparassero tutti insieme. Fulmini scoppiavano a zigzag nel nero della notte rischiando di incenerire i folletti che si erano riparati sotto gli alberi delle grandi foreste.
Pioggia, Grandine, Nebbia e Neve, precedute da Vento, si lanciarono a velocità supersonica giù verso la Terra, filando dritto verso i bersagli. Non toccavano niente nel loro furibondo cammino, le città e gli alberi, le capanne e le foreste rimanevano intatti a dormire nella notte. Muovendosi insieme come un gigantesco serpente raggiunsero i Palazzi dove gli Uomini Cattivi abitavano e il Cavaliere Vento con un potente soffio scardinò il portone e tutti insieme, penetrarono dentro con grande frastuono, dleng dleng, swish swish, uuuuh uuuuh, e acchiapparono gli Uomini Cattivi che, nell’udire quel fracasso di vetri rotti e porte divelte, scappavano di qua e di là, urlando e chiedendo pietà. E c’era il Signore delle Guerre che tentava di lanciare una bomba; l’Uomo delle Acque Inquinate che versava liquidi  puzzolenti; l’Uomo dei Pesticidi che spruzzava spray velenosi; l’Uomo dei Soldi che offriva grosse pepite d’oro; e infine, i piccoli, pasciuti Uomini del Potere che correvano gemendo, portandosi dietro la poltrona in cui erano stati seduti e da cui non riuscivano a disincagliarsi.
Una baraonda, un finimondo. Fino a quando l’ultimo di questi stupidi uomini non venne lanciato incontro al nero della notte. Roteavano vorticosamente, i cattivi uomini, su per la volta del cielo, proiettati dai poderosi calci nel sedere di Pioggia, Grandine, Nebbia, Neve e Vento. E Lampo e Saetta, marciando al ritmo della musica di Tuono, li accompagnavano verso la loro nuova dimora: la Stella Nera, l’unica stella invisibile del firmamento.
I folletti osservavano con il naso insù e strizzando gli occhi potevano vedere le fasi finali della battaglia. Nebbia, Grandine, Pioggia, Neve, Vento e Lampo e Saetta seguiti da Tuono e… Gronf??? Ma che ci faceva lui lassù? Neanche il tempo di scambiarsi un’occhiata esterrefatta che il suolo attorno a loro sobbalzò: Gronf era atterrato su una pianta di rovo e strofinandosi il culetto indolenzito, li fissava pieno di fierezza.
A volte i gesti di eroismo arrivano da quelli che riteniamo meno affidabili.

     
 Il cielo cominciava a tingersi di rosa acceso, quando un pettirosso si posò sul davanzale della finestra di Lalà e prese a fischiettare allegramente.

Lalà si stiracchiò a lungo, non aveva voglia di svegliarsi, ma quel cinguettio così insistente le fece spalancare gli occhi. Si sentiva un poco stanca, come dopo un brutto sogno, ma la curiosità era troppa. Infilò le ciabatte e lesta lesta andò a spalancare le ante della finestra.
Un raggio d’oro liquido e profumato la colpì in pieno viso. Strizzando gli occhi per la luce guardò in alto e vide un cielo di zaffiro splendente, con due o tre nuvolette vaporose, simili ad agnelli, che navigavano. Una miriade di rondini schiamazzava attorno alle grondaie dei tetti vicini in cerca di un posto dove fare il nido e abbassando gli occhi verso il cortile, le venne incontro l’albero tutto ammantato di verde. Nelle aiole i fiori esplodevano con i colori dell’arcobaleno, accarezzati da farfalle e coccinelle. L’acqua della fontana zampillava e Lalà sapeva che ora sarebbe stata fresca e odorosa di pulito.
La voce della mamma interruppe l’incanto;
“Lalà, piccola mia, come mai sei già in piedi? Stai male? Hai fatto un brutto sogno, forse?”
Lalà corse ad abbracciare la mamma e ridendo rispose:
“Oh no mamma, al contrario, ho fatto un sogno bellissimo!  Sto bene, sto benissimo. Vieni, mamma, siediti qui accanto a me sul letto. Ti voglio raccontare una storia.
E Lalà iniziò a raccontare.     



lunedì 16 dicembre 2013

Tra Facebook e Lawrence d'Arabia.

Capita di tutto nella vita, è risaputo. Capitano le cose buone e purtroppo le cattive. E te lo aspetti pure, lo metti in conto e vai avanti o torni indietro sui tuoi passi. Ti interroghi, ti chiedi dov'è che hai sbagliato, quando è che sei caduta; oppure ringrazi il cielo per l'improvviso e provvido regalo che ti ha elargito. Quello a cui invece non si è mai preparati e io non lo sono, lo confesso, è l'evento insipiente, stupido, che non ti suscita quasi nessuna emozione, ma che proprio per questo motivo ti sbalordisce. Capita di essere cancellati da Facebook. Va bene, direte voi, e che sarà mai! Giusto, niente di trascendentale, niente che possa renderti le notti insonni. Però, c'è un piccolissimo però, una macchiolina, un neo molesto. Quando chi ti ha cancellato è una persona a cui sei legata da affetto antico, allora sì, la prospettiva cambia, ti fai un lungo e periglioso esame di coscienza, ti autodenunci e ti processi: vuoi sapere il perché della condanna in contumacia, ti senti il timido Franz Kafka alle prese con un fantomatico tribunale. E indagando scopri che è perché sei come sei, perché dici quello che vuoi dire e lo dici con le parole che conosci; perché non ti accontenti della banalità della condiscendenza; perché non ami la menzogna; perché hai delle opinioni. Insomma perché nonostante tu sia una donna e per giunta in età (presunta) mentalmente pensionabile, tu osi avere un cervello. Magari non troppo ponderoso, magari non acutissimo. Ma sempre di cervello si tratta e non di gallina, ma di essere femminile. Bene, sono interdetta, anzi stupefatta. E anche un poco, ma solo un poco, delusa.
Capitano cose così sul web, miracoli del web! Poi capita anche di apprendere che se ne è andato il grande Peter O'Toole e ti rattristi, lo rivedi sul cavallo nel deserto, ne scorgi gli occhi celesti e il volto gentile e ironico e gli auguri buon viaggio Peter, buon viaggio Lawrence d'Arabia. E ti senti più sola senza quell'irlandese un po' pazzo di cui ti eri innamorata da ragazzina. Capitano tante cose nella vita, alcune sono insignificanti soffi d'aria. Altre sono dolcemente tristi, lontane tenerezze di un tempo.

mercoledì 11 dicembre 2013

Metto la scatola in soffitta.

Ѐ tempo di lasciarsi tutto alle spalle, di chiudere in una scatola recenti ansie e delusioni, infiocchettarla con un nastro rosso e oro di natalizie attese e riporla in soffitta. Nella soffitta della memoria, insieme alle tante scatole chiuse da anni e che, di tanto in tanto, vado a rovistare in cerca di un volto, di una frase, di un profumo.
Altri giorni si preparano, altri volti rivedremo presto, altre frasi accompagneranno lo scandire delle ore; nella casa solitamente silenziosa, si riverseranno benevole ondate di rumorosa allegria, le stanze risuoneranno di molti passi, le porte delle vuote camere si riapriranno, alla luce del giorno, con l'aroma del caffè e dei biscotti a forma di stella o di abete e sarà uno sciamare, ciabattando, di capelli arruffati e occhi dolci; la sera, quelle porte si richiuderanno discrete sui nostri sogni. Ci sarà il tempo per parlare, ci sarà l'attimo di guardarsi dentro tacendo; ci sarà il tempo per abbracciarsi prima di fuggire nuovamente in altre vite. Fuori tutto resterà immutato, oltre la cinta di mura che ci stringe. Ma quello sarà il mostro tempo, la nostra gioia e al dolore, allo smarrimento, all'ansia del dopo, penseremo in seguito, lo vivremo quando sarà il momento. 
Ora è tempo di essere meno soli, di provare a essere felici, per un attimo, per poche ore, per pochi giorni. 


Lucy MacGillis   -   La soffitta

domenica 8 dicembre 2013

In pieno marasma.

Ma dico, va bene che l'opposizione deve fare il suo mestiere, cioè quello di contrastare l'azione di Governo quando questa non soddisfa le istanze dell'elettorato di riferimento (lapalissiana presa per i fondelli), ma insomma un minimo di decoro, di dignità, di autodisciplina non guasterebbero. Anzi, si imporrebbero. E invece che succede? Succede che, udite, udite, due partiti o movimenti (il termine partito è ormai del tutto squalificante sinonimo di cloaca) stanno dalla stessa paste della barricata, strepitando perché si vada subito al voto e si determini l'impeachment della prima carica repubblicana. Ora, senza nulla togliere alla legittimità delle richieste (non entro nel merito), una domanda sorge spontanea, simile a una pratolina vezzosa nel mese di aprile: ma che ci fanno due "movimenti" all'apparenza così dissimili tra di loro, a battagliare alla baionetta, uniti contro un comune nemico? quale singolare affinità c'è tra la squisita signora Santanchè e il mite e goffo Crimi? Anche qui, l'arcano è assoluto. Anche perché, fino a pochi giorni fa, i pentastellati si assicuravano con vigore la debacle di Berlusconi, si appuntavano al viril petto la medaglia al valore per avere cacciato via dalle aule parlamentari il "delinquente" (parole loro)! E adesso si dimenano nella trincea assieme all'insolito alleato, sbraitando a squarciagola, con le narici frementi d'un rinnovato orgoglio. Tutto questo, mentre lo Stivale è percorso da rigurgiti di rabbia, da proteste, da azioni di rappresaglia, un marasma sociale ambiguo, illuminato solo dalla livida luce di chi mesta nel torbido. Ma questo è un discorso altro, ben più serio e pericoloso delle istanze di due partiti (pardon, ma è una vecchia abitudine) che vociferano. Stiamo a vedere, aspettiamo. Anche se la pazienza scalpita, anche se l'istinto provoca un prurito alle mani, anche se la gola duole per le parole taciute. Per civile educazione, per dignità, per una forse stupida, ostinata lealtà verso noi stessi e questo Paese. E non posso fare a meno di rimpiangere i miei calpestati ideali.

Giuseppe Pellizza da Volpedo     Il Quarto Stato   1901

giovedì 5 dicembre 2013

Espiazione collettiva.

La parola di oggi è espiazione. No, state tranquilli, non è per via dell'atmosfera natalizia che mi rende particolarmente incline al mea culpa o al desiderio di purificazione, no. Mi è tornato in mente un famoso libro di Ian McEwan, letto un bel po' di anni or sono e che già allora mi era sembrato appropriato ed estensibile, come concetto, alle nostre umanissime vigliaccherie e ai nostri errori più o meno cercati con puntiglioso volere. Ed espiazione è un termine inclusivo di ogni colpa, da quella veniale a quella mortale, tanto per citare la mia educazione religiosa, messa in soffitta da molto tempo. La parola mi è balzata incontro in questi giorni, con virulenza inaspettata, ascoltando e vedendo i nostri politici in affanno, alla sempre più disperata ricerca di convincere chi presta loro orecchio, che a tutto vi è rimedio, che le cose andranno meglio, che bisogna solo scegliere da che parte stare; insomma la continua, stucchevole campagna elettorale che non ha mai fine, nella canea delle aule del Parlamento (ieri e oggi insulti a destra e a manca); nelle televisioni ormai luogo di turbolenze che i meteorologi o i piloti di linea neanche si sognerebbero; sui quotidiani, anche essi siti di risse tra opposte fazioni e guai a capitare con il nevrastenico di turno, ti bastona con lapidarie e spesso incongrue (quando non illeggibili sintatticamente) risposte ai commenti che hai osato fare. E fino a pochi giorni fa, almeno eravamo certi di averlo un Parlamento, non il massimo, censurabile accozzaglia di individui d'ogni risma, ma un Parlamento c'era. E invece no, manco a dirsi: i giudici della Corte Costituzionale  hanno riconosciuto l'illegittimità. della legge elettorale meglio nota con il magnifico ed eloquente nome Porcellum. Ergo, tutti i signori e le signore che siedono comodamente nelle loro poltrone, sono degli abusivi, in quanto eletti, presumibilmente per legiferare, per mezzo di una legge incostituzionale. Bene lor signori, avanti per il prossimo giro! E intanto noi attendiamo il nostro, il giro di boa col vento in poppa o se volete il prossimo giro di roulette. Aspettiamo che le feste passino, si deve festeggiare il Natale e poi il Capodanno e anche la Befana, e dopo allora si vedrà, si discuterà, ci si accapiglierà, ci si insulterà ancora e forse, alla fine, avremo una legge elettorale, matterellum o porcellinum o un ibrido tra un matterello e un porcello. Sospiro di sollievo innalzerà i nostri apneici toraci. Dicono, promettono da tutte le parti che così sarà.
Nel frattempo, a proposito del tema che avevo scelto e che si è perso nei meandri della scrittura, propongo  ai nostri politici una solenne cerimonia di espiazione collettiva; ecco sì, potrebbero profittare delle meritate vacanze natalizie per purificarsi. Magari astenendosi dal partecipare nei salotti di Vespa, Floris, Santoro e di tutti gli altri che li inseguono; potrebbero astenersi dal farsi intervistare dai giornalisti delle prestigiose testate; ma soprattutto,  potrebbero astenersi per due settimane dal commettere quei peccatucci veniali che, magicamente, li porterebbero alla ribalta nuovamente. Non è chiedere troppo, in fin dei conti: i nostri politici e le nostre gentildonne della politica ne avrebbero un giovamento spirituale, espiando si monderebbero delle loro miserie. E  anche noi ci purificheremmo. Da loro.


Renato Guttuso  -  Il comizio  1962
 

venerdì 29 novembre 2013

Ogni persona è un uovo con sorpresa.

Nella vita non si finisce mai di imparare, aveva ragione Eduardo, gli esami non finiscono mai e bisogna stare sempre sui libri. E non si finisce mai, aggiungo io, di conoscere le persone. C'è sempre di che stupirsi, c'è sempre un coniglio che salta fuori dal cilindro, un asso nella manica, sorprendenti involucri da scartare. Ed è tutta una sequela di caimani che lacrimano, mentre affilano i denti pronti ad azzannare la prossima vittima; di canuti o elegantemente brizzolati signori che insidiano, bavosi come lumache, ragazzine stupide e trascurate; di impeccabili algide donne, sempre sull'orlo di un estatico stupore nei confronti del maschio dominante, virago scagliate come bombe incendiarie nella strenua difesa del loro totem.
Ma tutto questo altrui dimenarsi nelle passioni scomposte appare talmente distante dal nostro quieto vivere, da ritenerci intoccabili, dei paria benedetti dalla buona sorte. E invece ecco che la sorpresa, anzi l'uovo contenente la sorpresa per noi ci sta a fianco, con il suo guscio liscio, d'un candore abbagliante, innocente. Ma il guscio è fragile cosa, basta un piccolo urto e l'uovo si spezza in mille schegge trasparenti e la sorpresa emerge, vischiosamente.
E niente è più come prima, il materiale si appiccica addosso sporcando tutto quello con cui viene a contatto. Le persone che credevamo di conoscere sono impiastricciate e non riconoscibili, bisognerà ripulirle. O dimenticarle. O imparare a conoscerle meglio, scrostando ogni patina, ogni mano di vernice brillante che, negli anni, gli abbiamo dato noi e che loro hanno, di buon grado, accettato. Perché non sono loro, le uova con sorpresa o meglio le persone, ad avercela nascosta, siamo noi che non abbiamo avuto né la voglia, né il coraggio, né la curiosità di scartarla, di vederla quella sorpresa. Le persone sono sempre state quelle che sono, nella nostra e nella loro vita, ferme ad aspettare che noi imparassimo a capire, a conoscerle.
Immobili e  bugiarde con noi , ma sempre uguali e sincere con se stesse.


Salvador Dalì:  Metamorfosi di Narciso  1936 - 1937

lunedì 25 novembre 2013

Non con le mie parole.

Non con parole mie, ma con quelle di un poeta voglio ricordare questa giornata.
Alle donne, alle mie amate figlie, alle mie care sorelle, amiche e compagne di viaggio.

Perch'i' no spero di tornar giammai

Perch'i' no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va' tu, leggera e piana,
dritt'a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli' e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m'abbandona;
e senti come 'l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch'i' non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l'anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu' amistate
quest'anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu' ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se' presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d'Amore».

Tu, voce sbigottita e deboletta
ch'esci piangendo de lo cor dolente
coll'anima e con questa ballatetta
va' ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim', e tu l'adora
sempre, nel su' valore.
Guido Cavalcanti  1258 - 1300








domenica 24 novembre 2013

Il tempo ha un corpo.

Ma quanto corre il tempo? Ma che accelerazione dà alle nostre vite? Mi guardo dietro e le immagini sono nebulose visioni di paradisi perduti per sempre, di miraggi sepolti, di risate senza più allegra eco. Mi stupisco ancora e ancora del susseguirsi di cicli lunari e di stagioni, fulminei battiti di orologi a pendolo; a volte mi balena l’idea bislacca che gli scienziati si siano persi nel labirinto delle loro teorie, che l’entità astratta che definiamo tempo si prenda gioco di noi: il tempo ha deciso di imprimere uno scatto da Ferrari al suo rally e nessuno se ne è accorto. Ma è solo l’inganno della mente che rifiuta che il presente diventi passato; o meglio che il futuro possa diventare un incubo peggiore del presente. Rovelli, elucubrazioni notturne, sterili assilli del quotidiano vivere. Può darsi che  il tempo sia semplicemente una coincidenza delle nostre azioni; un dispiegarsi della volontà perché accada un evento; oppure un piegarsi della nostra volontà  alle azioni  di altri. Non so neanche io perché senta la necessità di prendermene cura, la necessità di parlarne: timore forse? L’angoscia della resa? Potrebbe essere. E in me, irrefrenabile, monta una noia sconfinata verso il mormorio che si leva dalla platea di cui anche io faccio parte; assieme al desiderio di porvi rimedio e, non avendo altre armi, di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi,  di imbavagliare la bocca. Come le famose tre scimmie. Orribili a vedersi, detestabili simboli dell’umana bestialità. Mi resta un tempo mio, quello sì sconfinato. Il tempo che racchiude i sacri affetti, non è retorico definirli sacri, oggi che di sacro non vi è più niente. 
Osservo, con discrezione, le persone che amo, ne guardo i volti e ne ascolto le parole, mi abbandono alla loro cauta allegria e partecipo delle loro ansie e delle loro timide speranze. Li scorgo sorridere incerti e vorrei tramutarmi in un clown perché la loro risata diventi un’esplosione di gioia; li scorgo vacillare nella tristezza di un giorno buio e vorrei tramutarmi in un bastone perché possano appoggiarsi ad esso per non cadere. D’improvviso, il tempo ha un corpo, anzi tanti corpi quanti sono le persone amate. D’improvviso posso accarezzare il tempo.



René Magritte :  La condizione umana II   1935 



Il tempo ha un corpo.

Ma quanto corre il tempo? Ma che accelerata dà alle nostre vite? Mi guardo dietro e le immagini sono nebulose visioni di paradisi perduti per sempre, di sorrisi sepolti, di risate senza più allegra eco. Mi stupisco ancora e ancora del susseguirsi di cicli lunari e di stagioni, fulminei battiti di orologi a pendolo, a volte mi balena l’idea bislacca che gli scienziati si siano persi qualcosa, che l’entità astratta che definiamo tempo si prenda gioco di noi, ha deciso di imprimere uno scatto da Ferrari al suo rally e nessuno se ne è accorto. Ma è solo l’inganno della mente che rifiuta che il presente diventi passato; o meglio che il futuro possa diventare un incubo peggiore del presente. Rovelli, elucubrazioni notturne, sterili assilli del quotidiano vivere. Può darsi che  il tempo sia semplicemente una coincidenza delle nostre azioni; un dispiegarsi della volontà perché accada un evento; oppure un piegarsi alle azioni di altri. Non so neanche io perché senta la necessità di prendermene cura, la necessità di parlarne: timore forse? L’angoscia della resa? Potrebbe essere. E in me, irrefrenabile, monta una noia sconfinata verso il mormorio che si leva dalla platea di cui anche io faccio parte; assieme al desiderio di porvi rimedio e, non avendo altre armi, di tapparmi le orecchie, di chiudere gli occhi, imbavagliare la bocca. Come le famose tre scimmie. Orribili a vedersi, detestabili simboli dell’umana bestialità. Mi resta un tempo mio, quello sì sconfinato. Il tempo che racchiude i sacri affetti, non è retorico definirli sacri, oggi che non vi è più niente di sacro. Osservo, con discrezione, le persone che amo, ne guardo i volti e ne ascolto le parole, mi abbandono alla loro cauta allegria e partecipo delle loro ansie e delle loro timide speranze: Li scorgo sorridere incerti e vorrei tramutarmi in un clown perché la loro risata diventi un’esplosione di gioia; li scorgo vacillare nella tristezza di un giorno storto e vorrei tramutarmi in un bastone perché possano appoggiarsi ad esso per non cadere. D’improvviso, il tempo ha un corpo, anzi tanti corpi quanti sono le persone amate. D’improvviso posso toccarlo il tempo.




giovedì 21 novembre 2013

Il coraggio di dire NO

In questi giorni di fine novembre, un ciclone vero si è abbattuto sul nostro Paese, sulla Sardegna, isola di gente rocciosa e taciturna. Isola diffidente, appartata dalle convulsioni del continente, decentrata, un po' come lo sono tutte le isole e i loro abitanti. Isola ancora più isola forse della Sicilia, perché più largo è il tratto di mare che la separa dalla terraferma. Se non fosse per le incursioni del ricco turismo estivo. Un ciclone vero, dunque, dal nome altisonante e vagamente lussurioso, Cleopatra, chissà poi perché. Un ciclone vero che ha soppiantato, per alcuni giorni, i cicloni fasulli e sfibrati e sfibranti che, con ciclicità quotidiana, la politica partorisce. E al posto delle ciance, delle beghe elettorali, delle manfrine imbelli, al posto delle aule parlamentari e dei volti scialbi dei soliti arcinoti mestatori, inciuciatori, sgangherati paladini di se stessi, i nostri occhi e le nostre orecchie si sono riempiti delle immagini e delle voci di uno strazio, di un dolore che troppo spesso rimuoviamo dalla mente. E dire che pochi giorni prima era toccato alle Filippine quello strazio, quell'identico dolore decuplicato però, e lo avevamo osservato con costernata partecipazione, chi poteva un bonifico, un sns solidale e la distanza faceva il resto, consentendo di catalogarlo quell'evento nell'archivio dei cataclismi mondiali. Ma questo no, non può essere archiviato. Questo è un disastro nostro, di noi tutti. Come gli altri che, da anni, puntualmente si susseguono alla prima "bomba" d'acqua che il cielo ci scarica addosso. Certo, i cambiamenti climatici, certo l'effetto serra, certo facile addossare la colpa alla pioggia torrenziale e ai venti anomali. Meno facile dare un'occhiata in giro, lungo le nostre coste, lungo gli argini dei fiumi, attraversare le pianure fino alle pendici delle montagne, sempre più spelacchiate, sempre più erose, sempre più spolpate della loro naturale ricchezza, i boschi, le foreste di betulle e castagni e di faggi e larici e abeti. Giganti buoni con le radici salde nella terra, dighe remote piantate a contrastare torrenti in piena, della terra e del cielo. E tolto il verde (con la complicità degli incendi dolosi), si deviano fiumi, si rimpiccioliscono arenili e si gettano colate di cemento, si crea il deserto di cemento. Sorgono come cattedrali nel deserto, mostruose escrescenze di cemento e ferro, case, ipermercati, sopraelevate, ponti. Nel silenzio di tutti. Nell'assenso si tutti, perché il cemento dà lavoro, il cemento è stata la nuova frontiera, il nostro Klondyke. Poi capita il Vajont, la più terribile delle "calamità", se ne aggiungono altre via via, si contano i morti, i feriti, i dispersi; si piange, ci si indigna. Fino alla prossima volta. E fino al prossimo condono edilizio.
Non c'è pace, non c'è scampo in questa mia Italia. E dire che basterebbe poco per cambiare le cose, senza che i cantieri chiudano, senza togliere posti di lavoro, forse dandone di lavoro. Basterebbe guardarla bene quest'Italia, lunga e stretta, così vulnerabile per via della sua stessa struttura, così sismica. Basterebbe guardare con occhio innamorato le sue città e dire basta, niente più cemento. C'è già tanto intorno a noi, ci sono scuole, ospedali, piazze, musei, castelli, cattedrali, caserme, edifici civili e non, di nobile storia e di più umile nascita. Basterebbe guardare questo nostro panorama e mettersi di buona lena a ripristinarlo, a renderlo sicuro: Non diciamoci delle menzogne: il lavoro da fare ci sarebbe e sarebbe tanto e per tanti. Manca la volontà. E, ammesso che ci sia, manca il coraggio di dire no. No.


Aligi Sassu     Cavalli al sole.

sabato 16 novembre 2013

Decorazioni natalizie.

Ho deciso: sono un'apolide. Non ho una patria, non appartengo più a una nazione, non ho un'identità. Sono libera. Solo un essere umano casualmente stabile in questa Terra inospitale. Ingenerosa. La parola generosità mi frulla parecchio nel cervello, in questi giorni; forse perché siamo sotto Natale e il Natale, da sempre, è il periodo della bontà, almeno così da bambina mi si raccontava. Faceva parte delle favole anche quel racconto di gesti semplici, di atti amorevoli, di caritatevole empatia verso il prossimo, se non altro verso un parente, un amico, un conoscente (con qualche distinguo anche allora, ovviamente). Almeno, così mi era stato detto, quello era il senso del Natale. E vai, allora, a cercare di essere migliore, a tentare le impervie vie del perdono, a scavare dentro di me alla ricerca di un pezzo di cuore o d'anima da spartire con qualcuno. Anche se per poco, anche se per un solo giorno, meglio che niente, ci si campava di rendita per tutto l'anno, fino al prossimo Natale. La favola della bontà, con gli anni, si tramutò in altra favola, più luccicante, più allegra, zuccherosa di gospel e ghirlande di agrifoglio finto. Soprattutto più lucrosa, un compra compra sfrenato, un'ubriacatura consumata nei negozi al suono di Jingle bells e mentre le monete rotolavano via seguendone gioiosamente il ritmo, noi straripanti di autentico, spirito natalizio, impilavamo in fruscianti e orripilanti sacchetti di plastica d'oro e d'argento, ogni possibile e anche impossibile cazzata. Oggi, siamo un po' tutti degli alcolisti in disintossicazione, forzata in qualche caso, ma necessaria.
E così mi frulla la parola generosità e anche la parola onestà e la parola solidarietà. Parole comprensibili per tutti, non astruserie filosofiche, bensì concetti, se vogliamo, elementari nel senso scolastico del termine. Eppure non vengono pronunciate da nessuno; o, all'evenienza, da qualche politico e non sono credibili, non più: c'è sempre un nuovo scandalo, una mezza bugia o una mezza verità a inquinarne il sapore. E poi, stranamente per me che sono una inossidabile laica, che non ho una particolare affezione per la Chiesa e i suoi Ministri, queste parole esplodono, mi piombano addosso come colpi di artiglieria sparati da un uomo vestito di bianco, dal volto aperto, dai gesti quasi ordinari, non ieratici, non pontificali. Le parole di Francesco, il Papa dei cattolici,  hanno un sapore buono, un sapore di cibo genuino, le uniche parole pronunciate da chi detiene un potere, con un marchio di umanità, di generosità. E di severo monito per chi generoso e umano e onesto non lo è. Sono contenta, mi ritrovo a sorridere e penso a tutti i baciapile, i devotissimi della funzione domenicale, penso alle loro facce compunte e ai loro sbadigli sotterranei, penso alle loro bocche che recitano le rituali orazioni, alle mani giunte sul petto in segno di contrizione. E penso al loro Natale, se sarà anche quest'anno sfolgorante ed ebbro e avido. O se anche a loro giungeranno quelle parole e sarà un Natale generoso, buono, solidale, onesto. Il mio  so come sarà: il Natale di un'apolide laica, una senza più patria, casualmente stabile in questa Terra ingenerosa. Avrò però con me, dono prezioso, le parole di un vecchio uomo saggio vestito di bianco. E non è forse un bell'addobbo da porre in casa?

lunedì 11 novembre 2013

Oggi, l'amore.

Quanto difficile è amare, oggi. Quante scale a piedi si devono salire e quanti gradini sarebbero da sostituire. Quanti muri tirati su da maldestri operai, muri scalcinati e senza intonaco, con i mattoni bene in vista, contro cui è facile ferirsi.
I rapporti tra persone dal comune passato sono diventati cavi sottili entro cui fluisce un’elettricità che niente ha a che vedere con l’affetto e la generosità.
I ricordi sono colori diluiti fino a diventare smorte tinte; oppure sono fiammelle esitanti che si accendono a intermittenza, come le lucine del Natale. Non mi piacciono le luci intermittenti, quell’accendersi e spegnersi che stordiscono gli occhi, creando inganni nella mente e nello spazio circostante; preferisco la luce tremula di una sola candela, ma viva perché dà fuoco e un leggero calore a cui avvicinare le mani. E l’amore, oggi, mi appare innaturale come quelle lucine appese a decoro di case e cuori. Cerca, l’amore, gli artifizi della forma, del contatto freddo di parole e gesti superficiali, che non implichino, mai, l’abbandono di se stesi all’altro, il donarsi con tenerezza senza richieste, senza pretese. L’umile fatica del sapere ascoltare i bisogni degli altri, di chi si è smarrito, di chi non trova più la strada, o di chi, percorrendola, incontra tronchi e tagliole a sbarrargliela. Basterebbe una mano tesa, basterebbe una parola, basterebbe solo uno sguardo. Ma, quello che oggi è l’amore, tira via diritto, forse un'occhiata appannata dalla distrazione e dalla noia, nient’altro. Lasciami andare, dice l’amore smemorato, ho altro da fare, ho da occuparmi di me stesso, io sono il sole e la luna e tutti i pianeti che orbitano. Io sono l’universo, il cosmo intero. E va via quest’amore, quello che si ostina a voler essere ritenuto tale, per i suoi cieli di plastica, fra le stelle e le luci intermittenti. Il mio amore è una candela di cera, una sola candela di cera, si è accesa e mi ha dato luce e calore. Si spegnerà alla fine, con il soffio che spegnerà anche me.


Marc Chagall   Blu Panorama  1949





giovedì 7 novembre 2013

Via con il grande albatro

Ogni tanto, no spesso in verità, m'acchiappa una mattana, una frenetica voglia di pigliare il primo aereo e andare via, lasciando tutto dietro di me, senza avere una meta precisa in mente, solo lo spazio ristretto dell'aereo, solo le nuvole sotto di me e il rombo dei motori a cullare il mio irrefrenabile panico. Sì, perché ho paura di volare (non quella del famoso romanzo degli anni '70), ho paura della enorme scatola di sardine che mi sostiene sospesa nell'aria, ho paura di non poterne uscire più: insomma, soffro di claustrofobia. Però, allo stesso tempo l'aereo mi affascina, è il grande albatro che sorregge i miei sogni e li conduce in giro per il mondo e così, quando occorre, ci salgo su con  la gola strozzata, i sudori freddi. lo stomaco che batte al posto del cuore o il cuore che batte nello stonaco. E poi passa, uno, due, inspiro, espiro, uno due e poi passa. E così, ogni tanto, spesso ormai,  sento l'urgenza pressante di scappare. Via, via da questo Paese, via dalla stupidità, dall'inefficienza, dalla non vita, tutto sommato. Sono ancora a chiedermi (e mi sono stancata) quale sia il senso di questi giorni, mesi, anni che si srotolano sempre uguali, sempre monotonamente identici. Ascolto un notiziario in TV e alla prima notizia, mi dico che è quella del giorno prima, l'identico snocciolare di dati Istat, di bagarre nei partiti, di dichiarazioni servite sul vassoio buono o su quello ammaccato di ogni giorno. Punteggiano, qua e là, a guisa di radiose stelle, l'eloquio del conduttore, le perle di saggezza che, alternandosi con generosa disponibilità, i nostri politici regalano al popolo inebetito. Un giorno c'è la telefonata da parte di una Ministra dal cuore materno a sollecitare attenzione per una signora detenuta e in precarie condizioni di salute: ben fatto umanamente parlando, se lo si facesse per tutti quelli che versano nelle medesime condizioni e se la Ministra non avesse avuto rapporti di amicizia con la famiglia della detenuta e se questa famiglia non fosse, da tempo, nel mirino di inchieste giudiziarie e non è bene che un "servitore dello Stato" intrattenga rapporti con chi non si comporta da bravo e onesto cittadino, non dovrebbe forse essere così? Ma no, da noi, no. Da noi, va bene tutto, perché dimettersi, ma smettiamola, non ci sono gli estremi del reato. Vero. Ma io, da cittadina e non da "servitrice dello Stato", non so perché, mi vergognerei a dare la mia amicizia a chi froda e corrompe. Chissà perché. E ancora, altra perla di saggezza, un candidato premier che paragona i suoi figli, ricchissimi e privilegiatissimi, ai ragazzi ebrei deportati, rinchiusi nei lager e sottoposti alle "docce" nelle camere a gas. Perle di saggezza, lezioni di civiltà, educazione per le future generazioni.
Guardo i miei figli che faticano, e con una forza e un coraggio che io non gli conoscevo, per sbarcare il lunario. Dopo avere studiato e dopo avere sperato e dopo avere capito che i sogni se ne erano tornati nel mondo dei sogni, e uno è ancora qui e l'altra è già volata via. Li guardo e vorrei chiedere loro scusa. Chiudo gli occhi e sono nuovamente bambini e li tengo per mano, mentre corriamo verso un aereo, il grande albatro che ci porterà via. Non so dove, ma finalmente liberi, liberi da una non vita.  

domenica 3 novembre 2013

Un autunno senza qualità.

La luce si è arresa, è già novembre. Non è un autunno da libro illustrato per bambini, di quelli che mostrano gli alberi spogli e le foglie rosse e gialle ai piedi dei tronchi possenti; non è l'autunno delle poesie di nebbia e maestrale; di castagne cotte nella brace e di raccolta di funghi nei boschi. Almeno non è così da me, quaggiù. C'è solo un brivido lieve, quando il sole tramonta in un cielo di un celeste sfacciato, senza una nuvola, senza l'annuncio atteso, sulla cima della montagna, della pioggia. Scorre così, come fosse un'appendice molesta dell'estate appena conclusa e non porta con sé il cambiamento sperato da me, pazza e temeraria, di cieli oscurati da vaporose nubi.  Questo sconosciuto autunno  senza qualità, scorre nelle notizie sempre uguali, di stupida, inetta politica nazionale; di gaffes e di spioni; di debiti che crescono a ritmi da fare invidia alle vecchie catene di montaggio; di posti di lavoro che spariscono o che non si sono mai presentati all'appello. Queste stracche notizie aleggiano nelle case e nelle vite autunnali. Nella mia, c'è  il sentore di una distanza, come di una perdita in occhi malinconici che hanno perso la luce di altri tempi; un'assenza che riempie di sé tutto lo spazio circostante; un messaggio da un amico di gioventù (il mare, le sere in spiaggia, le canzoni) che mi dice parole di dolore e di sconforto. La luce scende ancora più, si fa nero. Poi, una foto. La famiglia, i ragazzi sorridenti all'obiettivo, ancora talmente innocenti da provare una contrazione allo stomaco, lancinante. La osservo bene, mi imprimo quei volti nelle pupille, sono le mie pupille le lastre fotografiche che il mio cervello svilupperà. Per conservare quei volti nell'album della memoria.

Vincent Van Gogh - Paesaggio d'autunno   1885

mercoledì 30 ottobre 2013

Grazie ad Atena, ho spento il PC

La violenza mi sgomenta sempre. La violenza perpetrata da un branco di giovani su altri due ragazzi e uno dei due resta a terra, ferito a morte da calci e pugni. E non importa quale sia stato il movente che ha scatenato la furia della barbara orda, non c’è movente alla violenza. Il senso sta lì, nel corpo inerte del giovane italiano, nella sua vita spezzata.
La violenza mi spaventa sempre e non solo quella fisica. C’è anche quella delle parole, dei gesti negli stadi affollati di tifoserie urlanti slogan xenofobi; c’è nelle scuole e nei gruppetti di adolescenti e ragazzi che frequentano gli stessi luoghi e alcuni sono pronti all’insulto, già armati con parole al posto di bastoni o altro, pronti a colpire chi osi affacciarsi sul loro mondo di ignoranza e di miseria morale, pronti a dar guerra solo perché ritenuto “diverso” da loro, solo perché gay o di pelle più scura o di etnia sconosciuta. E poi la violenza verso le donne, avvertite da troppi, come oggetti da usare e buttare. Avvertite come usurpatrici di una secolare supremazia maschile, che non accetta il corpo femminile se non come merce, che non ammette il pensiero, la semplice e libera diversità dell’essere donna. E più la donna pensa e più si mostra indipendente dall’uomo e, paradossalmente, più se ne cerca il possesso e l’annientamento, anche fisico. Da parte di tanti, troppi.
Mi spaventa la violenza verbale, mi inquieta la volontà di non capire. La negazione del dialogo, il rifiuto della critica, come se questa fosse uno schiaffo o un pugno a cui rispondere con uno schiaffo o un pugno più forte, ignorando che la critica significa scelta, significa cernita ed è espressione di una libertà raggiunta. Ne ho fatto personale esperienza proprio ieri, sul web. Aggredita, insultata, dileggiata. Tentata anche io di fare altrettanto, ma Atena, amata dea della ragione, mi è stata buona consigliera. All’ignoranza, quando è accompagnata dall’arroganza e dalla violenza, non c’è rimedio, non ci sono parole adeguate. Meglio troncare, rassegnarsi al silenzio e lasciare spento il pc. Come è spento il cervello di chi usa la violenza, fisica o verbale che sia.  



Giorgio De Chirico -   Minerva (testa) con frutta   1973


domenica 27 ottobre 2013

Due cuori. Due cervelli.

Ci sono giorni in cui mi sento presa in contropiede. Ascolto parole che non hanno alcun senso per me, che mi lasciano inerte e senza risposta. Inattese più che altro. Dopo l'iniziale perplessità e anche una istintiva ripulsa, ci penso su, riavvolgo l'immaginario nastro di un immaginario registratore e le riascolto e mi appaiono per quello che sono. Parole. E hanno il potere di farmi ricordare, anche se non le condivido, di me. Di quella che sono stata e di quella che sono diventata oggi; ma anche della donna che è mia figlia e della ragazza che è stata. Ribelle, assetata di vita, incerta, incauta, coraggiosa e un poco folle. E curiosa ricercatrice della vita, sempre a seguirne la rotta e se c'era il pericolo di un naufragio, che venisse pure. Faceva parte del viaggio, era nel rischio. Ascoltando quelle parole ho visto me stessa e ho visto mia figlia. Così simili eppure così distanti. Allora ho scoperto di essere grata a quelle parole, che non sono le mie e che non condivido, perché mi hanno avvicinato a mia figlia, mi hanno alleviato una mancanza. Ho due cuori, ho due cervelli.

C’era un pettirosso o una cincia
Sul ramo più alto, vicino al cielo
Cantava in francese, la erre arrotata
C’era una bomba scoppiata nel sangue
Nella piazza affollata di stupore e sirene
C’era la musica e i fiori ballavano
Sulle nostre trecce arrabbiate
C’era l’amore nelle gonne esposte
Vessilli di guerra ai vecchi furtivi
C’era la folla e non c’era uno solo
A segnare la strada di  ferro e di seta.
C’era la mia e la loro gioventù
Che era la migliore e la peggiore.
Ma resta la mia gioventù ammuffita
Nei libri di storia, memorie corrose
La mia gioventù l’unica che ho.
L’unica che posso offrirti,mio cuore.



Gustav  Klimt     Le tre età della donna   1905

mercoledì 23 ottobre 2013

La morale e la falsa morale.

Certo è che l'Italia è uno strano, stranissimo paese. Da due settimane circa impazzano sui media di ogni genere (TV, quotidiani, social nel web) le mirabolanti imprese di Fazio-Brunetta-Maradona-Fazio-Fassina-Brunetta. Le dichiarazioni si moltiplicano, le interviste si ammassano, i distinguo e le indignazioni sgomitano per emergere dalla palude. Tutto un vociare, uno sbraitare, un gridare allo scandalo, all'offesa oltraggiosa, nani e ballerine tutti insieme avrebbe detto un onorevole della prima repubblica. E qual è poi il motivo di tale affannato contendere? Quali sono le recenti turpitudini che, ancora una volta, avrebbero macchiato l'italico onore? Un compenso ritenuto esosissimo e il gesto dell'ombrello. Come se di compensi esosissimi non fossero piene le tasche di molti manager pubblici e quelle dei troppi politici che assiepano il nostro Parlamento, le nostre Regioni e così via. Ora, che gli emolumenti o gli ingaggi destinati alle "star" televisive, sia nel servizio pubblico, ma anche in quello privato, siano esagerati, è un dato di fatto e occorrerebbe darci una sforbiciata. Ma è anche doveroso, mi pare, guardare alla qualità dei servizi resi e premiare il merito. Ed è innegabile che qualche merito, nella mercanzia televisiva offerta, Fazio e la sua trasmissione lo abbiano.
Poi, a tamburo battente, ecco scoppiare il caso  Maradona e del suo gestaccio. E anche qui i piagnistei si levano da tutte le parti, con una par condicio davvero magistrale. A me personalmente, di Maradona non importa nulla, non lo seguivo come calciatore, non lo seguo neanche adesso, tant'è che proprio quel gesto non l'ho visto, in diretta, perché avevo cambiato canale. E non provo neanche una particolare simpatia per l'uomo Maradona. Ma, dopo avere assistito, in differita, al fattaccio incriminato, sono certissima che non fosse intenzione dell'incauto e poco educato ex calciatore, di insultare gli onesti cittadini italiani che pagano le tasse. Mi è parso solo quello che è: un vaffanculo a tutto sì, a se stesso, al passato di errori e forse, anche a un certo perbenismo. Che poi Fazio dovesse prendere le distanze con piglio censorio ed energica indignazione, mi fa ridere. Ma io sono fatta così, perdonatemi, ho il viziaccio di indignarmi per altre cose. Lascio quindi tutta la collera e lo sdegno ai vari Brunetta e Fassina e a quant'altri ancora vorranno tuonare contro i due trasgressori dell'etica pubblica. Per me l'etica attiene ad altro, per me viene quotidianamente calpestata proprio da coloro che si ergono a paladini di questo Paese e delle sue Istituzioni. Per me l'etica viene uccisa quando si permette al nostro Paese di diventare vecchio e senza futuro, perché i giovani scappano; quando si nega aiuto ai disabili; quando si nega asilo ai profughi dalle guerre; quando si spendono i nostri soldi per armarci (contro chi?); quando si spendono i nostri soldi in opere inutilmente grandiose; quando si accetta che la corruzione sieda nei banchi del Parlamento. E molto altro ancora mi turba e mi sconforta. Il senso dell'etica è uno e non è possibile ammaestrarlo secondo gli interessi di questo o di quello.
Forse siamo condannati a questo, forse siamo proprio questo: il Paese che si indigna per il gesto dell'ombrello. Il Paese che, avendo perso la coscienza morale, sopperisce con quella, più elastica, della falsa coscienza morale.



René Magritte    La reproduction interdite  1937      

domenica 20 ottobre 2013

Anonymous, chi sei?

Ieri a Roma si è svolta una protesta pacifica. Un lungo corteo di varia umanità, giovani, vecchi, anche bambini, extracomunitari, tutti uniti da un comune sentire, la volontà di farsi ascoltare, di dare voce e visibilità allo scontento, alle ingiustizie sociali, ai diritti negati o rimossi con abilità magistrale dalla politica e da chi governa questo Paese. Un insieme grande di gente, con i colori accesi e gli slogan condivisi, una marcia sotto l'egida del dissenso tenace, ma non violento. Una marcia che è avvenuta in una città blindata, quasi deserta, che paventava esiti disastrosi e, forse, lo scorrere del sangue. Tutti a volto scoperto, alcuni giovani, previdenti, con il casco del motorino in testa, memori dei manganelli facili; tutti tranquilli o quasi. Se non si fossero materializzati tra loro, alcuni, non molti per fortuna, ragazzi con il volto coperto, listati a lutto, una ventina nei pressi del Ministero dell'Economia, con le maschere di Anonymous calate sul viso. E hanno urlato le parole della carica, hanno incitato alla violenza, hanno lanciato bombe carta, hanno appiccato il fuoco a cassonetti e infranto vetri. Ho assistito ad alcuni video amatoriali, o a qualcuno girato dai reporter e ne ho tratto, come in altri frangenti simili, la medesima impressione. Questi giovani travestiti da vendicatori, questi novelli e poco credibili Zorro di oggi, non incitano altri se non se stessi. Sono perfettamente consapevoli di non far parte della folla, di non avere niente a che spartire con le istanze degli altri: essi agiscono come "solisti" e non hanno bisogno del coro. Sono autonomi dal resto, gestiscono la violenza con lucida preparazione, obbedendo a un copione imparato a memoria. Io non so come facciano a eludere i controlli (che pare siano stati, almeno si sostiene, efficienti e capillari), non entro nel merito perché non mi compete, ma un dato di fatto c'è: questi pochi balordi minano la credibilità delle azioni pacifiche, anche se di protesta, della maggioranza che manifesta; ne rendono invisibile e insignificante il gesto. Chiunque, a distanza anche di pochi giorni, ricorderà infatti, i vetri rotti, le bombe carta, i cassonetti divelti e incendiati, gli slogan di pochi facinorosi mascherati che inneggiano " all'assedio."  Il resto del corteo, la stragrande maggioranza dei partecipanti scivoleranno silenziosi, senza più parole di civile protesta, nella nebbia del non ricordo. Della perdita della memoria..

mercoledì 16 ottobre 2013

L'oblio.E tu ridi.

La risata come libertà. La risata come ironia. La risata come gioia. La risata come oblio.

E tu ridi 2013


E ridi tu, ridi di notte
Piena di scuro sapore
Notte di scoperte bugie
Annidate nel ventre.
E ridi tu, ridi di giorno
Pieno di piatta luce
Giorno di perdute parole
Sepolte nel cuore.
Non hai carne né sangue
solo di ossa sparse sei
nelle labbra ridenti
negli occhi spenti
nei gesti assenti
da te stessa evocati.
 E tu ridi, ridi nel letto
sfatto di fiori secchi,
come memorie morte
le foglie dei tuoi occhi
nel nero foro ridono.


Edward Hopper  Summer interior 1909




lunedì 14 ottobre 2013

Nudo d'ipocrita.

Trovo stupefacente l’incapacità di molti a non capire. A non voler capire, meglio. Trovo stupefacente l’incapacità di ascoltare le ragioni dell’altro: trovo stupefacente  la negazione del dialogo. Esiste una viscerale, metabolizzata, compiuta impossibilità di parlare con l’altro. Si assiste ormai allo sproloquio con se stessi, si discute solo con se stessi, uno sbrodolarsi addosso di frasi compiaciute e di cui, spesso, si ignora il senso anche etimologico, ma tanto che importa, l’importante è parlare, parlare, parlare. Ma non dialogare, non accettare il confronto, quasi si temesse il luccichio di un pugnale, l’odore acre di un colpo di pistola. Allora si attacca, senza ragionare – ragionare implica, per molti, uno sforzo titanico – ci si scaglia in discorsi illogici, perdendosi dietro ai fantasmi delle personali paure o ansie. Oppure si tace, ed è la soluzione forse codarda, ma più riposante. A questo punto, entra sul proscenio di questa farsa, perché in fondo di commedia popolare si tratta, l’ipocrisia.
Quella dei sorrisi dai denti d’oro, quella dei gesti vuoti e delle parole distratte. O quella, la più odiosa, della condiscendenza, addirittura dell’ammirazione falsa, della sudditanza riottosa e mascherata con la stima e il rispetto. Ma l’ipocrisia non inganna se non anime semplici e  mansuete. Essa è visibile, brilla come un diamante falso tra gemme autentiche, il suo mantello è trasparente, di un tulle liso e sporco che non basta a coprire. E si rende manifesta, e diventa vulnerabile. Il velo grigio cade mollemente a terra, i sorrisi perdono i denti d’oro, i gesti vacui e le parole distratte si disperdono nell’aria, E l’ipocrita resta nudo, scoperto agli occhi. Solo che lui non lo sa.




Amedeo Modigliani    Nudo di donna seduta 1917

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