giovedì 21 novembre 2013

Il coraggio di dire NO

In questi giorni di fine novembre, un ciclone vero si è abbattuto sul nostro Paese, sulla Sardegna, isola di gente rocciosa e taciturna. Isola diffidente, appartata dalle convulsioni del continente, decentrata, un po' come lo sono tutte le isole e i loro abitanti. Isola ancora più isola forse della Sicilia, perché più largo è il tratto di mare che la separa dalla terraferma. Se non fosse per le incursioni del ricco turismo estivo. Un ciclone vero, dunque, dal nome altisonante e vagamente lussurioso, Cleopatra, chissà poi perché. Un ciclone vero che ha soppiantato, per alcuni giorni, i cicloni fasulli e sfibrati e sfibranti che, con ciclicità quotidiana, la politica partorisce. E al posto delle ciance, delle beghe elettorali, delle manfrine imbelli, al posto delle aule parlamentari e dei volti scialbi dei soliti arcinoti mestatori, inciuciatori, sgangherati paladini di se stessi, i nostri occhi e le nostre orecchie si sono riempiti delle immagini e delle voci di uno strazio, di un dolore che troppo spesso rimuoviamo dalla mente. E dire che pochi giorni prima era toccato alle Filippine quello strazio, quell'identico dolore decuplicato però, e lo avevamo osservato con costernata partecipazione, chi poteva un bonifico, un sns solidale e la distanza faceva il resto, consentendo di catalogarlo quell'evento nell'archivio dei cataclismi mondiali. Ma questo no, non può essere archiviato. Questo è un disastro nostro, di noi tutti. Come gli altri che, da anni, puntualmente si susseguono alla prima "bomba" d'acqua che il cielo ci scarica addosso. Certo, i cambiamenti climatici, certo l'effetto serra, certo facile addossare la colpa alla pioggia torrenziale e ai venti anomali. Meno facile dare un'occhiata in giro, lungo le nostre coste, lungo gli argini dei fiumi, attraversare le pianure fino alle pendici delle montagne, sempre più spelacchiate, sempre più erose, sempre più spolpate della loro naturale ricchezza, i boschi, le foreste di betulle e castagni e di faggi e larici e abeti. Giganti buoni con le radici salde nella terra, dighe remote piantate a contrastare torrenti in piena, della terra e del cielo. E tolto il verde (con la complicità degli incendi dolosi), si deviano fiumi, si rimpiccioliscono arenili e si gettano colate di cemento, si crea il deserto di cemento. Sorgono come cattedrali nel deserto, mostruose escrescenze di cemento e ferro, case, ipermercati, sopraelevate, ponti. Nel silenzio di tutti. Nell'assenso si tutti, perché il cemento dà lavoro, il cemento è stata la nuova frontiera, il nostro Klondyke. Poi capita il Vajont, la più terribile delle "calamità", se ne aggiungono altre via via, si contano i morti, i feriti, i dispersi; si piange, ci si indigna. Fino alla prossima volta. E fino al prossimo condono edilizio.
Non c'è pace, non c'è scampo in questa mia Italia. E dire che basterebbe poco per cambiare le cose, senza che i cantieri chiudano, senza togliere posti di lavoro, forse dandone di lavoro. Basterebbe guardarla bene quest'Italia, lunga e stretta, così vulnerabile per via della sua stessa struttura, così sismica. Basterebbe guardare con occhio innamorato le sue città e dire basta, niente più cemento. C'è già tanto intorno a noi, ci sono scuole, ospedali, piazze, musei, castelli, cattedrali, caserme, edifici civili e non, di nobile storia e di più umile nascita. Basterebbe guardare questo nostro panorama e mettersi di buona lena a ripristinarlo, a renderlo sicuro: Non diciamoci delle menzogne: il lavoro da fare ci sarebbe e sarebbe tanto e per tanti. Manca la volontà. E, ammesso che ci sia, manca il coraggio di dire no. No.


Aligi Sassu     Cavalli al sole.

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