sabato 16 novembre 2013

Decorazioni natalizie.

Ho deciso: sono un'apolide. Non ho una patria, non appartengo più a una nazione, non ho un'identità. Sono libera. Solo un essere umano casualmente stabile in questa Terra inospitale. Ingenerosa. La parola generosità mi frulla parecchio nel cervello, in questi giorni; forse perché siamo sotto Natale e il Natale, da sempre, è il periodo della bontà, almeno così da bambina mi si raccontava. Faceva parte delle favole anche quel racconto di gesti semplici, di atti amorevoli, di caritatevole empatia verso il prossimo, se non altro verso un parente, un amico, un conoscente (con qualche distinguo anche allora, ovviamente). Almeno, così mi era stato detto, quello era il senso del Natale. E vai, allora, a cercare di essere migliore, a tentare le impervie vie del perdono, a scavare dentro di me alla ricerca di un pezzo di cuore o d'anima da spartire con qualcuno. Anche se per poco, anche se per un solo giorno, meglio che niente, ci si campava di rendita per tutto l'anno, fino al prossimo Natale. La favola della bontà, con gli anni, si tramutò in altra favola, più luccicante, più allegra, zuccherosa di gospel e ghirlande di agrifoglio finto. Soprattutto più lucrosa, un compra compra sfrenato, un'ubriacatura consumata nei negozi al suono di Jingle bells e mentre le monete rotolavano via seguendone gioiosamente il ritmo, noi straripanti di autentico, spirito natalizio, impilavamo in fruscianti e orripilanti sacchetti di plastica d'oro e d'argento, ogni possibile e anche impossibile cazzata. Oggi, siamo un po' tutti degli alcolisti in disintossicazione, forzata in qualche caso, ma necessaria.
E così mi frulla la parola generosità e anche la parola onestà e la parola solidarietà. Parole comprensibili per tutti, non astruserie filosofiche, bensì concetti, se vogliamo, elementari nel senso scolastico del termine. Eppure non vengono pronunciate da nessuno; o, all'evenienza, da qualche politico e non sono credibili, non più: c'è sempre un nuovo scandalo, una mezza bugia o una mezza verità a inquinarne il sapore. E poi, stranamente per me che sono una inossidabile laica, che non ho una particolare affezione per la Chiesa e i suoi Ministri, queste parole esplodono, mi piombano addosso come colpi di artiglieria sparati da un uomo vestito di bianco, dal volto aperto, dai gesti quasi ordinari, non ieratici, non pontificali. Le parole di Francesco, il Papa dei cattolici,  hanno un sapore buono, un sapore di cibo genuino, le uniche parole pronunciate da chi detiene un potere, con un marchio di umanità, di generosità. E di severo monito per chi generoso e umano e onesto non lo è. Sono contenta, mi ritrovo a sorridere e penso a tutti i baciapile, i devotissimi della funzione domenicale, penso alle loro facce compunte e ai loro sbadigli sotterranei, penso alle loro bocche che recitano le rituali orazioni, alle mani giunte sul petto in segno di contrizione. E penso al loro Natale, se sarà anche quest'anno sfolgorante ed ebbro e avido. O se anche a loro giungeranno quelle parole e sarà un Natale generoso, buono, solidale, onesto. Il mio  so come sarà: il Natale di un'apolide laica, una senza più patria, casualmente stabile in questa Terra ingenerosa. Avrò però con me, dono prezioso, le parole di un vecchio uomo saggio vestito di bianco. E non è forse un bell'addobbo da porre in casa?

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