martedì 26 settembre 2017

Nella stanza senza luna.

Mi sorprendono di notte, più insistenti i ricordi. Una folla di volti amati e le voci e i respiri nella stanza senza luna.

Le veglie


Nelle veglie del letto
Che s’inoltrano verso la luce
Ascolto tutti i respiri assenti
Di bocche cucite per sempre
Odoro le tuberose da te tanto amate.
Dalle stanze serrate filtrano
Spifferi d’un lieve ansimare
Di risa e di pianti infantili.
Dei vostri sogni lasciati
Tra  cuscini di talco e di latte.
Nelle veglie del letto
Scomposto dalla tua presenza
La luna non schiarisce la tua ombra
Ascolto il tuo respiro cieco
Che accompagna il mio. Fine modulo


Edvard Munch "Il giorno dopo"  1894 - 95
Fine modulo





lunedì 18 settembre 2017

Sud.

E risentire la voce e il blues di Pino Daniele fa sortire anche questa mia voglia di parlare del Sud, del mio Sud. In fondo so perché amo tanto Napoli, anche lei è coricata sotto le grinfie di un drago.
Mi accade, nel vagabondaggio annoiato sul web, di leggere un signore (eccellente penna!) che, siciliano per nascita e dopo esule nel Nord per scelta, fa il pelo e il contropelo a questa mia e sua isola ormeggiata nel cuore del Mediterraneo a qualche chilometro dal continente. E mi ritrovo sperdutamente apolide a cliccare il mio dolente consenso ai molti vizi, ai mille dubbi, alle innumerevoli contraddizioni di questa terra che egli, con malcelata sofferenza, enumera.
Vizi, dubbi, contraddizioni che ben conosco perché molti li ho sperimentati sulla mia pelle; che sono di dominio pubblico, sotto gli occhi di tutti, denudata quest'isola e con lei tutto il Sud come se fossero una donna offerta agli sguardi e alle smanie degli altri, di estranei.
Riascolto Pino e non è solo Napoli, 'na carta sporca, non è solo Napoli mille culure, non solo Napoli  è addore 'e mare. Anche la mia città è così, tutto il Sud è così: un bouquet imperfetto di colori e odori, un miscuglio di fragranze e di miasmi. Il mare sempre presente, il mare che sbatte in faccia alle vecchie case di pietra, da sempre custodi dei mille porti, le tante case del Nespolo, e se non c'è il nespolo, ci sono gli ulivi e i carrubi; il mare, quello stesso mare di lagune d'un verde quasi bianco in giugno e settembre e in inverno un galoppare di cavalli schiumanti rabbia, quello stesso mare che si spezza sulle nuove villette abusive e sui plessi residenziali che, se non abusivi, sono pugni nello stomaco, gemme false incastonate nell'oro. E attorno le campagne, i vigneti e gli uliveti e gli agrumeti e odori, odori che risvegliano gli dei.
La Napoli di Pino è l'archetipo di tutte le città del Sud, baroccamente ricamate nella pietra, con i resti della Storia a ogni passo, Atene e Roma ne fecero il loro monile prediletto, di queste coste; e i mercati, sporchi di voci arrochite e di mucchi di scorie che fumigano sotto il cielo, sono il luogo dello scambio pigro, dell'aggirarsi tra le bancarelle mille culure e magari c'è chi ti porge un frutto o una fetta di formaggio per catturarti. E i mille bar con i loro tavoli all'aperto, anche d'inverno e con la pioggia,  e ci si siede e non si vorrebbe più andare via, c'è lo struscio lento dei più vecchi e il vociare allegro di qualche studente. I giovani sbucano di sera tardi a popolare il centro storico e non parrebbe che ci sia la malinconia del lavoro che non c'è.  Perché quello non c'è, quello è il vizio antico, inestirpabile del Sud. E i traffici, i maneggi, gli imbrogli, il criminale senso di uno Stato che latita e se non è latitante lo si immerge nel sangue:  la carta sporca che insozza tutta la nostra vita.
Molti amici e anche semplici viaggiatori incontrati per caso, gente del Nord e del grande Nord, calati dalle nebbie e dai vapori delle industrie, dalle loro città ordinate e più silenziose, venuti giù a osservare le nostre disordinate, caotiche città con i loro occhi educati e civili, se ne sono innamorati del mio Sud e tornano sempre e mi dicono che c'è una bellezza così grande, così intensa che non è più possibile dimenticarla dopo averla conosciuta. Io resto sconcertata e felice e mi chiedo "allora perché? Perché noi non la vediamo, questa bellezza? Noi che la respiriamo ogni giorno?"
Forse il sole troppo furioso, la luce troppo abbagliante ci ha accecati e non la vediamo più. O forse vederla sempre, ogni giorno della nostra vita, ci ha abituato alle sue rughe, ai suoi decadimenti, come fosse una bella signora che è destino che si consegni alla vecchiaia.
Vorrei che i giovani, fin da piccoli, la vedessero questa bellezza, vorrei che fossero accompagnati per mano, che gli si raccontasse la lunga, millenaria storia di questa bellezza, di questo Sud che è 'na carta sporca che potrebbe essere spazzata via. Per diventare una carta pulita, lucente, viva.


Federico Starnone " Artisti, al Blu di Prussia"

martedì 12 settembre 2017

Una normale normalità.

Tornare su queste pagine, dopo un tempo non di riflessione ma di lavoro fisico, mi fa uno strano effetto, è come rivedere un amico di cui si erano perdute le tracce. Sono mancata poco, un'estate e neanche tutta, una bollente estate di fiamme nei nostri boschi, di terra arida, di cieli ferocemente sgombri di nuvole. E molti fatti accadevano, nel torrido torpore delle vacanze, molti fatti che seguivo nei notiziari, sgomenta, arrabbiata, dolente. Il reiterarsi malvagio degli incendi dolosi e con essi la lancinante certezza che l'uomo vuole, distruggendo la natura, distruggere anche se stesso; l'uccisione del ragazzo in Catalogna, picchiato a morte davanti a un pubblico assente, inerte: la disumanità dell'atto è pari alla disumanità di chi non ha reagito, di chi non è intervenuto in soccorso del ragazzo. Poi, pochi giorni dopo, Barcellona. Un brivido gelido nelle vene, istanti di non coscienza, il terrore. Perché mia figlia vive in quella città e abita a pochi metri di distanza dal luogo del massacro. Il gelo nelle ossa, nel cervello e presto, presto, il sollievo che lo scioglie quando sento la sua voce. E dopo ancora, la vergogna per il mio sollievo. Perché molti altri genitori non lo hanno avuto.
E infine l'uragano al di là dell'oceano e il terremoto in Messico e i morti e le devastazioni.  E ancora le violenze sulle donne, quelle non mancano mai e i torrenti che, ai primi furiosi temporali, si portano via case e persone, anche questo evento si può dire, senz'ombra di cinismo, un must.
Una lunga estate calda, ma quello era un film. Una lunga estate calda di paura e di dolore. E a questi due sentimenti non dobbiamo abbandonarci, non possiamo dargliela la vittoria.
Ritorno sui social, ritorno a queste pagine.  Le apro, inizio a leggere e vengo travolta dallo tsunami dell'odio. Anche un'affezione grave ma non contagiosa come la malaria si muta in virus, un'epidemia perfetta per chi ne vuole trarre voti e vantaggi politici. I commenti ai post deliranti grondano di dubbi e di vecchie e nuove paure e la collera cresce, le parole sono il latrato isterico dei segugi dietro alla selvaggina. Mi ritraggo, sulle prime, sono tentata di fuggire, di allungare la mia latitanza. Epperò, una fiammella di speranza c'è. Il Paese si appresta alle elezioni, regionali quaggiù da me, e in seguito nazionali. E allora? Allora andrà tutto bene, o almeno sarà tutto come sempre, senza scossoni pericolosi, senza traumi destabilizzanti: verranno l'autunno e l'inverno - e ci si augurano piogge gentili - i politici riprenderanno, meglio continueranno, a litigare e a fregiarsi l'un con l'altro di graziosi epiteti, simpatici marpioni, e il popolo avrà un bel da fare a schierarsi, felicemente litigioso e incazzato come sempre. Come sempre, appunto. Alla fine è questo che conta: una normale normalità.
P.S. Ho dimenticato di citare l'ebete nordcoreano, quel grassoccio ragazzotto che ama giocare con missili e testate nucleari. Ma forse si è trattato di un lapsus voluto, è talmente incredibile, talmente impensabile che le potenze mondiali non gli diano una spuntatina a quella sua cresta di galletto scemo. Ci sarà un perché.


Renato Guttuso "Prato d'autunno"  1959 ?

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