venerdì 30 giugno 2017

L'ultimo giardino.

Stanotte ho sognato. Sogno spesso io, non rientro nella casistica che strombetta: "Con l'avanzare dell'età si sogna sempre meno." No, io continuo ad avere notti piene di vita, cariche di suoni e di colori. I miei sogni mi sono stati spesso d'aiuto, sono stati folgoranti, il mattino dopo sapevo cosa fare, come comportarmi anche in situazioni difficili. C'è sempre una parte vigile di me che li analizza, li scompone mentre dormo. C'è sempre una voce, e non è detto che sia la mia, che mi parla. Stanotte ho sognato le mie stagioni e l'ultimo giardino.


L'ultimo giardino.



Mi si scaraventa addosso la casa dei bambini
guizzanti pesciolini nelle stanze azzurre
fuori la gatta Isotta vuole il suo Tristano
nel terrazzo fiorisce una tenda di lana
tra i vasi d'oleandro, non mangiate le foglie
vi avveleneranno, c'è un bastone rotante
ed è un cavallo al galoppo nella sfera d'estate.
Mi si schianta il cuore e voi giocate ancora
nella casa altissima trascinata dal vento
e gli alberi trascolorano nelle stagioni
entrano rami enormi nelle stanze ora mute.
Una vertigine s'arrampica fin quassù
nella notte scura posso sentire il mare
e mi risucchia in un gorgo nero,
Ecco sono sola, la porta s'è richiusa.
L'alba schiude lo spiraglio del cielo
la casa sorride nella penombra soffice
silenziosa cammino scivolo nell'ignoto
scalza i sassi bianchi accarezzo, senza mare,
attraverso il cespuglio del plumbago fitto
annuso il gelsomino con la gatta rossa
è il giardino, l'ultimo giardino.


Claude Monet  "Giverny"  1902

lunedì 26 giugno 2017

La cortigiana.

Traendo spunto da un siparietto avvenuto l'altra sera in una trasmissione tv, dove uno dei tanti guru di cui la felix Italia gode il privilegio di avvalersi, il signor D'Agostino per l'esattezza; e traendo l'amaro fiele delle ultime consultazioni elettorali, anche se circoscritte a Comuni piccoli, piccolissimi e alcuni capoluoghi di Provincia, mi ballonzolano dentro alcune idee, in effetti vecchi convincimenti assurti a tali  un po' per esperienza diretta, un po' per l'osservazione incuriosita e disincantata delle mie genti.
Il Dago(spia) recitava pomposamente nasale la squisita e stracca banalità "la coerenza è sintomo di stupidità", asserendo tra uno scintillio di occhialoni nerd e una lisciatina alla barbetta caprina come il "tradimento" (politico come anche amoroso) sia un salutare indice di cambiamento, di rinnovamento. E citava, illuminante esempio, l'abbandono dell'amico d'antica data, fidatissimo ma ormai poco interessante, per l'amico nuovo, promettente simbolo di esperienze rigeneranti e, anche perché no, possibilmente di opportunità più lucrose, spiritualmente e materialmente. Ed effettivamente, a ben pensarci, è vero. Un  miserando esempio lo offrono i social, ormai nitido specchio della società. Le "amicizie" vanno e vengono come le frotte sui marciapiedi della Fifth Avenue, sbirciano la vetrina, irrompono, si trattengono e intrattengono. Finché  non incontrano una vetrina più abbagliante, davanti alla quale la calca sgomita per entrare. E così via, in un susseguirsi di faccine ridenti di cuori di stilnovistici commenti. Tra questi viandanti spiccano i cercatori veri, o più prosaicamente, i cani da usta: quelli che disdegnano l'insignificante merciaio ( la bottega è angusta e gode di poca luce) e si dirigono, con la lingua a strascico, verso le sfolgoranti vetrine dei più rinomati negozianti. E qui si comportano com'è d'obbligo, è gradito l'abito scuro e il linguaggio forbito, insomma applausi sapientemente elargiti e omaggi e inchini da perfetti lord e lady. Una bellezza (la parola bellezza è qui la più usata, anzi abusata).
La metafora della vetrina e della bottega mi è sta utile per descrivere l'opportunista dei social. Ed essendo i social, come già detto, lo specchio in cui ci specchiamo, credo di avere detto quello che penso circa il carattere - una buona fetta - di noi italiani. E allora Dago tornando al tuo elogio del tradimento, io lo definirei elogio dell'opporunismo. Più stupido e più pedissequo.
Il secondo spunto, quello che mi viene suggerito dalle elezioni, è equipollente, paritetico al primo. Gli italiani, anche in politica come nella quotidianità, sono impegnati nella spasmodica ricerca non della felicità ( sarebbe cosa buona e giusta) ma dell'opportunità "individuale" . E qui mi riallaccio all'ispirato Dago che, discettando di azzeramento delle ideologie, ne tesse l'apologo. E io non sono d'accordo che ciò sia un bene.  Quella  che, a pare mio, ne scaturisce è una visione ristretta, asfittica, svalorizzata della società. Una visione che ha perduto il senso del bene collettivo, a vantaggio del bene individuale. Ogni cittadino si limita a osservare l'angusto spazio in cui si nuove e vive, identificandosi esclusivamente con quelli con cui condivide uguali aspirazioni, paure, aspettative. E se il referente politico di turno è capace di giocare nel ruolo del "ghe pensi mi" ben venga, la vittoria è assicurata, il rinnovamento auspicato dal barbuto santone è in atto.  E gli altri?  Quelli che avrebbero potuto e dovuto lottare per i "valori", per una società inclusiva e più giusta? Quelli non ci sono più, dissolti in mille rivoli secchi, come i ruscelli melmosi di questa torrida  estate.
Torneremo al Benefattore. Ovvero al Padre, al buon Padrone che promette di tenere a bada le paure e le ansie, che promette di dare perché è ricco e potente; il Signore alla cui corte approssimarsi con animo reverente e lamentosa voce, certi che l'untuosità dei gesti e delle parole compiano il miracolo atteso: siamo compiacenti, siamo sottomessi e confidiamo in te,  fai di noi ciò che ti pare, ma offrici riparo e protezione. E se puoi illudici di essere con te, alla tua mensa.
Figli orfani? Cortigiani per indole e storia? Non lo so, non ho né il talento, né le capacità, né il tempo e la voglia per appurarlo.
Non mi resta che ripetere tra me e me alcuni versi di Dante, mestamente.
Non mi resta altro, se non pensare a una cortigiana. Sì, l'Italia è una puttana.


Michelangelo Merisi di Caravaggio  "Ritratto di cortigiana"  1597

venerdì 23 giugno 2017

Anche mia, la colpa.

Gli eventi climatici di questa estate ancora in fasce, lo spaventoso rogo delle foreste in Portogallo di cui conservo una fugace visione di verde-argento mentre sette anni fa percorrevamo in auto la strada che porta da Lisbona a Coimbra; e le gravi condizioni di siccità di alcune regioni in Italia e ancora l'infuocato alito che soffoca, anzitempo, le città da nord a sud, mi sospinge all'amarezza. All'amara presa di coscienza che abbiamo sbagliato tutti. Abbagliati e imbrigliati dal feticcio adescatore di un consumo sregolato. Non sono qui a negare la necessaria tendenza delle società a consumare, è proporzionale alla crescita economica e anche ai desideri legittimi dell'individuo.  Il consumo di cose è intrinseco alla natura umana, l'uomo ha sempre voluto e cercato di ottenere oggetti, il mondo latino esigeva la porpora per le tuniche e saccheggiò il Mediterraneo; nel Medioevo piacquero la seta e le spezie  d'Oriente e si allestirono spedizioni; e l'oro e i diamanti, sporcati di sangue; e poi l'oro nero che permetteva di affrancarsi dal giogo dell'aratro e rendeva tutto più vicino, tutto a portata di mano.  No, non è di questo che parlo e a cui penso, o meglio tutto ebbe inizio da quei desideri, da quelle opportunità meravigliosamente appaganti, meravigliosamente  ( in quanto degne di meraviglia) e qualche volta giustamente cercate e ottenute. Crescevano i consumi e si depauperava la Terra, un'equazione incontrovertibile e tragica. Ma della lenta tragedia non ci accorgevamo, presi dalla spasmodica frenesia.
E poi venne il giorno in cui ci risvegliammo, forse non tutti insieme, tramortiti dal lungo sonno delle nostre coscienze.   Ci rendemmo conto che il sole arroventava di più le nostre città; che i fiumi non gorgogliavano più alle sorgenti perché i ghiacciai andavano scomparendo; che le piogge primaverili e autunnali erano lancinanti bolle d'acqua che distruggevano i raccolti; che i deserti si mangiavano territori verdi; che gli oceani minacciavano di sommergere atolli e anche coste; che le sterminate foreste pluviali del pianeta erano state sterminate, in gran parte, dalle multinazionali per i loro traffici in piantagioni di prodotti alimentari; perché consumavamo, consumavamo sempre di più. E consumavamo la Terra, che è la madre, mi si passi la retorica, di tutti noi. Senza di lei siamo lattanti senza mammella, orfani destinati a morire.
Io che ho ricordi di molte e molte stagioni, conosco l'odore del mare che si insinua per le strade sorretto dal vento fresco in estate; conosco il profumo dei giardini che cingevano la città, limoni e aranci fioriti di zagara; conosco l'azzurro intenso del cielo, che oggi si è stinto ed è un sudario biancastro. Io conosco tutto questo e l'ho buttato via. I ragazzi e i bambini di oggi non potranno, forse, recuperarlo ed è la mia colpa.


Giuseppe Arcimboldo "Estate"  1563 ca.

sabato 17 giugno 2017

Ancora, per qualche tempo.

Ritorno sul tema dell'amicizia spronata da un episodio di breve durata, ma per me importante.
Quando mi accostai all'uso dei social, di Facebook in particolare, ero riluttante, agitata da una timidezza inconsueta. Avevo molti dubbi (alcuni li conservo anche adesso), ero incerta circa l'utilizzo e l'utilità del mezzo. Fu un lancio senza paracadute, come per i più penso, un volo cieco, Iniziai con estrema cautela, assentandomi per periodi più o meno lunghi, lo studiavo, si potrebbe dire che, come una sarta, gli prendevo le misure, scorciavo e allargavo. Leggevo tutto e tutto mi interessava e tutto mi annoiava. Poi cominciarono gli incontri con gli altri, i primi  - alcuni si sono perduti per strada e ancora ne provo rammarico, hanno trovato il coraggio (si può chiamare così?) di allontanarsi - e tra i primi uno mi catturò presto. Una mia coetanea, milanese di adozione ma siciliana per nascita, e di lì a breve anche la sorella.  Entrambe dotate di quella dote, oggi assai rara e preziosa, che è una squisita riservatezza e che si accompagna a una profonda umanità e onesta schiettezza. Doti in via di estinzione, ormai, ancor più nell'illusorio mondo del web. Con il trascorrere degli anni, la mia amica si è defilata, stanca, come mi ha detto, della cattiveria, della ferocia che imbratta i social. Una mancanza che avevo avvertito e che mi turbava, perché, avendo imparato a conoscerla e a stimarla,  intuivo  e condividevo quelle sue ragioni di fastidio, di malessere. Ci siamo riacchiappate in occasione del suo compleanno e mi sono rituffata in quelle acque chiare, rigeneranti.  I ricordi, il mio perenne saltare all'indietro.
E non è solo per la ferocia che ha stremato la mia amica non è solo per quella che avverto, ogni giorno più schiacciante, il tedio spossante del web. Vi aggiungo anche un'ipocrisia sorridente, un'indifferenza, a tratti ostile, che mal sopporta, mal si maschera sotto le vesti lise della cortesia, del bon ton. Di una finta mitezza.
Con le mie due amiche che non ho mai visto e che mi auguro di abbracciare presto, ho spartito tanta parte di me, un recente passato di sogni e speranza, di timori e collere. E le ringrazio ancora e ancora per avermi letta, sempre, per avere letto di Tilde e Ada, e delle favole della vita che mi era di diletto raccontare; le ringrazio per avermi rincuorata e sostenuta. Sempre, con quell'elegante riserbo, con quella lealtà pulita d'ogni futile orpello che le contraddistingue.
Credo di avere spiegato uno dei motivi per i quali vale la pena, ancora per qualche tempo, di starmene qui seduta, fingendo che anche questa sia vita. E forse così, un poco lo diventa.


Henri Matisse  "Interno a Nizza"  1920

domenica 11 giugno 2017

Ghiaccio e calore.

Mi domando se sia più lancinante la gelosia oppure l'invidia. E riflettendoci credo che l'una non possa fare a meno dell'altra, sono interconnesse, si intrecciano e si strangolano vicendevolmente. Fino a soffocare ogni rapporto umano, d'amore e d'amicizia.
Mi è capitato di scorgerlo il bagliore dell'invidia (si dice che sia verde) no, non ho fatto caso se avesse un colore, era piuttosto un graffio di luce fredda negli occhi. E di solito si propagava alle corde vocali, strizzandole in tremito velato d'ira. L'invidia è spesso compagna dell'ira. Anch'essa tagliente punteruolo di ghiaccio, teso a scalfire, a lacerare l'oggetto di tanto malessere. Sì, certamente chi soggiace all'invidia, soffre e soffre le pene dell'inferno. L'invidioso vorrebbe invadere il territorio che gli si profila davanti, attraente, misterioso, sconosciuto. Vorrebbe afferrarlo e farlo suo.
La gelosia è, al contrario, calda. Se dobbiamo assegnarle un colore, pensiamo al rosso. Viscerale, pulsante. Carnale. Anche in questo sentire di fiamme, c'è la volontà del possesso, della padronanza. E, spesso, si accosta all'amore, deturpandone l'immagine, con un'ombra scura e rossastra che ne altera la forma, i contorni.
Io  che amo la concretezza anche quando la mia bella fetta di cervello visionaria prende il volo, penso a questi due irrinunciabili e antichissimi sentimenti ( homo sapiens e da allora è stata guerra per possedere e per togliere), li penso come se fossero un'entità unica, fatta di spirito gelido  (invidia) e di carne bollente (gelosia). E, ridendo e ripensando a quello che facciamo, a quello che vorremmo essere, a quello che cerchiamo di avere oppure, più banalmente, ai nostri rapporti con gli altri, mi convinco che si debba tenere sempre sott'occhio quest'intrusiva essenza, questo folletto bicolore. E che il ghiaccio non ci condanni all'ibernazione; né che il rovente calore  possa scioglierci.


Pablo Picasso "Ragazza davanti allo specchio"  1932 ca.

venerdì 9 giugno 2017

L'ombra negli occhi.

Ho ritrovato un breve appunto e per qualche minuto nel rileggerlo non ricordavo più perché e per chi lo avessi scritto. Poi la luce è arrivata, forte e dolorosa, Oggi mi piace pensare  che l'avessi dedicate queste mie scarne parole a tutti i bambini.  E a quelli che vivono nel disagio, della malattia.  E dell'abbandono.


 Non c'è più quel bambino nel mio cuore 
vorrei segregarlo nel libro istoriato
vorrei relegarlo tra i giocattoli rotti. 
 Col viso affondato nel cuscino, 
con occhi e pugni serrati 
 inseguo la forma bruna e scalza 
sulle pietre di sabbia, 
ma si dilegua, 
non si ferma a parlare con me, 
non mi indica il pozzo d'argilla
dove la madre lo aspetta, 
la madre velata che attinge l'acqua. 
Non gioca con la fionda fatta del ramo d' ulivo, 
non schiamazza con altri bambini 
vestiti di bianco grezzo, 
nella lingua remota 
che allora riuscivo a capire. 
Un'ombra tra case di pastori. 
Un incerto sorriso, 
spicchio di sole o di luna 
trafigge la mia cecità.


Pablo Picasso "Madre con bambino in riva al mare"  1902

domenica 4 giugno 2017

In un giardino. Epifania 2014.

Ripercorrere un percorso e imbattersi in una nascita, in una sorta di epifania profana che per me aveva un profumo d'erba e un chiarore d'acqua.

2014 In estate, in un giardino.

Un viaggio che non è un viaggio.
Uno scambio di sogni che potrebbero diventare vivi.
In un pomeriggio di caldo e di erba, 
avvolta in un drappo esotico, col cane che mi lecca le gambe.
Sul pavimento di cotto screpolato
i bambini si rincorrono frusciando tra gli alberi
 e due uomini se ne stanno a fumare
i loro sogni che non conosciamo noi donne.
Era ieri e correvo verso l'oggi.
Una ragazza ha due foglie d’oro negli occhi
mi preme sul cuore, glielo apro
e mi si conficca dentro, rannicchiata come un feto.
Ti tengo al fresco, in estate;
e al caldo, d'inverno. Ti scopro e ti avvolgo
nella membrana che sfavilla.
Non scappare, fatti inseguire dalla fortuna.
Non è cieca. Solo bendata.
Le slaccio io il fiocco e te lo consegno, con mani larghe
e tu strappalo in mille pezzi.
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