martedì 29 ottobre 2019

Brava gente.

Da un po' di tempo ho smesso di scrivere su questa pagina qualsiasi riflessione che possa essere accostata alla politica. Non è che me ne sia disinteressata, tutt'altro, io sono politica dentro, ce l'ho da quando avevo quindici anni e feci una scelta, optai per essere quella che ancora sono. Non ho cambiato opinione e sono fermamente convinta che, al contrario, si possano cambiare le proprie opinioni e le proprie scelte - si dice che è un segno inequivocabile di intelligenza.  Io no, sono una fedele, non mi tradisco. Forse non sono intelligente.
Ho sempre pensato, se non dai miei quindici anni, dai diciotto, che gli italiani non siano bravi e buoni. Non sempre e non comunque.
Sono bravi e buoni nelle loro case (tolti i casi di violenza che non sono pochi e non tutti noti), sono bravi e buoni con chi li ossequia e li ingrassa di lodi e, meglio ancora, di pecunia. Sono bravi e buoni, ma fiacchi sostenitori della coscienza civica, dei bisogni altrui, delle esigenze di minoranze che, a dirla tutta, stanno un po' sui coglioni a questi italiani bravi e benpensanti. Sono pronti a puntare il dito su chi tiene un comportamento diverso, abitudini bislacche, costumi sessuali che vanno fuori dalla norma imposta e dalla Chiesa - frequentano poco e male, ma sono cattolici eh! e cristiani, come no - e dalla prassi sociale, prassi che si tramanda senza che vi sia bisogno di carta e penna, è nelle papille gustative delle nostre fauci, il sapore dolciastro del pettegolezzo piace. Partecipi, inclini alla sofferenza del vicino, purché la sofferenza non ci sfiori. Il nostro recinto deve restare saldamente cinto da staccionate, a protezione di roba e interessi, anche affettivi. La roba non è solo quella squisitamente verghiana, sì è quella del soldo, dei beni materiali, ma è anche quella cosa lì, indefinita e segreta, che non vogliamo spartire con altri. Noi siamo noi e basta. Dante, Leopardi hanno detto tanto e così meravigliosamente del carattere di noi italiani, che ancora le loro parole stanno qui tra noi a scandire il nostro tempo, ma senza influenzare i nostri comportamenti.
Noi, brava gente nelle nostre case e nella nostra famiglia - ah! la famiglia, questa ostrica saldamente chiusa, questo scrigno che cela sovente gemme false - noi gorgogliamo empiti viscerali d'amore, esaliamo struggente riconoscenza, esultiamo in trionfale festosità, di fronte al Capo. All'Uomo - no, no, non quell'Uomo, quello era troppo mite, quello porgeva la guancia, quello stava troppo con gli altri, i miserabili, gli storpi, gli ultimi. No, a noi brava gente piace tanto l'uomo come noi, sì un po' qualunque, un po' scalcagnato nell'eloquio, neanche troppo intelligente, furbo sì, scarsetto di cultura, meglio se possente d'aspetto (fa tanto maschio), con l'occhio fermo e il pugno, no che dico! la mano, il braccio fermo. Fermo a indicarci ogni cosa, fermo lì a bloccare il nostro presente e il futuro, fermo a decidere per noi. Perché è bello affidarsi a qualcuno, perché è bello sapere che c'è una guida, perché è più facile decidere ciò che è già stato deciso da un altro che abbiamo scelto.
Tutto visto? Tutto vecchio e irrancidito? Certo, ma il rischio di optare, noi brava gente, per il padre-padrone c'è. E quello che mi dà da pensare è anche il cauto, molle, esangue approccio dei media: un vedere e non vedere, un sì e no, uno strizzare l'occhio ma non più di tanto, Solo quel tanto che basta per non sporcarsi troppo. Anche questa è una splendida peculiarità tutta italiana.

George Grosz "Metropolis"  1916-17

lunedì 14 ottobre 2019

Vorrei parlarne con te.

In un soprassalto tra veglia e sogno. Nel gorgo delle parole e delle visioni che arrivano, schegge di insopportabile atrocità, dai luoghi del dolore e della violenza. E della vigliacca coscienza.



Vorrei parlarne con te, discuterne
mentre ti spingi a forza nella poltrona
con le gambe oscillanti come due ali
imprigionate, di civetta o di
pettirosso, o forse di chiù
-        lascio a te la scelta del volo -
I tuoi occhi si allagherebbero d’ombre,
di risposte incerte, di domande
a cui non saprei rispondere
se non con il dolore che provo.
Adesso in questi giorni senza pietà
mi chiederesti perché la guerra.
Lo chiederei io a te, mi sei adesso
anche madre oltre che figlia.
Mi porgeresti una mano,
la mano ancora da bambina
e la stringerei nel cavo della mia
quella carne che si ripiglia la carne
la riavvolge in sé in un unico nodo.
Resteremmo così nella sera che respira
piano là fuori, precipitata da chissà
quale cielo oltre i tetti calmi della città.
Non avremmo bisogno d’altro.

Ti ho sentita arrivare dal corridoio
e l’aria si saturava dei tuoi capelli
imbrigliati nel fermaglio di legno,
si colorava dei tuoi orecchini marini
si incendiava di frange e bracciali.
Come nelle foto catturavo l’Altrove.

Gustav Klimt  "Fregio di Beethoven"  1902




giovedì 3 ottobre 2019

Tutti i miei occhi

Prima del sonno, sempre inquieto. Nei soprassalti notturni, arrivano. Dal passato. Che è ancora vivo.


Tutti i miei occhi  

Cerco di staccarli gli occhi
Me li scollo dalla pelle e dalla
testa.
Si sono impigliati nel reticolo
delle mie cellule
però.
Dovrei scorticarmi il cuore,
ridurre in stracci la memoria
forse.
Non avete stagioni voi occhi
non dormite mai, siete stelle
inquiete.
In estate smaniosi di notte
vi spalancate nel buio tutt’intorno
ai muri caldi

D’inverno tremate di freddo
e vi accolgo, vi avvolgo nel
tepore del letto.
Ma l’inverno è lungo,
e scalpita, batte, rincorre
dà spallate, mi scuote
L’inverno è pieno di voci
Di un valzer nella sala affollata
di vecchi
Di mani aggrappate alla gonna
di un sorriso adorabilmente
sdentato
L’inverno è un muro di cinta
che spezza che spacca
la vita.

Gli occhi
d’estate corrono sul filo
degli alberi
o sulla cresta delle onde
Si svagano si sfaldano
nei meriggi sontuosi
di colori e di sensi
No, in inverno no.
Già in ottobre,
in questo suo passo timido
che arranca sui rami ultimi
dell’ultima rosa,
gli occhi si voltano indietro
riprendono a scavare
la galleria
quella che mi riconsegna
a loro.
Gli occhi insonni
i vostri amati chiari occhi
E i miei che non hanno
riposo.


Egon Schiele  "Donna che dorme con la camicia rossa" 1908


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