mercoledì 30 gennaio 2013

Alla ricerca della pseudo-bontà.





Tra pochi giorni ricorrono le celebrazioni, nella mia città, in onore di sant'Agata, patrona di Catania. Le luminarie incorniciano il cielo sopra le vie, i trabiccoli stracolmi di palloncini sostano sui marciapiedi e presto le bancarelle straripanti torrone, frutta secca, zucchero filato e altre squisitezze sbarreranno il passo ai pedoni. Per tre giorni di fila la città vivrà immersa in un'enorme sagra paesana, dimentica dei problemi, sospesa tra il sacro e il profano di una festa antica e pagana si lascia andare alla venerazione della sua Santuzza, noi catanesi la chiamiamo affettuosamente così. Tra i vapori delle salsicce che arrostiscono su fornelli approntati all'uopo lungo il tragitto della processione, con l'udito messo a dura prova da vulcanici boati e negli occhi le migliaia di stelle pirotecniche che si accendono nel buio della notte, il popolo catanese prega e compie le scaramanzie rituali perché la città si salvi sempre e comunque dalle minacce incombenti - eruzioni e terremoti- e da altre calamità anche più concrete e visibili. Per me che ne porto il nome, santìAgata e il suo culto hanno rappresentato un, supplizio sopportato con affetto. Sin da piccola, la nonna paternna, amatissima nonna, quello strano ateo di papà, e poi parenti e amici, tutti insomma, hanno ravvisato una somiglianza "straordinaria" tra me e l'effigie dell'altra e più importante Agata, ravvisando anche in questa somiglianza dei tratti somatici una mia presunta bontà. Come a dire la bambina è bella come la Santa, si chiama Agata e perciò è buona, proprio secondo il significato greco del nome. Un sorriso compiaciuto ornava le loro labbra e anche io ero contenta, mi ritenevo una privilegiata. Mia madre, no. Mamma, da quella donna pratica che era, non mi tormentava con fisime pseudomistiche, per lei io ero sua figlia Agata, una bambina con un buon carattere e basta. Tutto questo mio vissuto per anni e anni, mi ha portato ad avere un atteggiamento contraddittorio nei confronti della festa e della Santuzza. Da un lato una specie di sdegnoso rifiuto della popolana, quasi orgiastica celebrazione collettiva che di religioso ha ben poco  (e d'altronde io stessa sono pocco affine alle cose della religione); dall'altro, la partecipazione emotiva e involontaria alla stessa. Insomma, sarà perché non voglio dimenticare quella bambina che si credeva buona, issata sulle spalle del papà per scorgere meglio la processione; sarà perché la Santuzza è un po' mia filia anzi mi è nipote ormai, ma anche quest'anno andrò a vederla, spintonata, strattonata indignata per la cera profusa e liquefatta sulla pietra lavica. Sperando, come ogni anno, di rientrare a casa con i miei due femori integri.

domenica 27 gennaio 2013

Vorrei atterrare nel colore dei giovani.






Negli ultimi giorni sono atterrati sulla mia bacheca due video, uno ambientato a Barcellona e l'altro presso l'aereoporto di Heathrow a Londra, ambedue deliziosi e inattesi. Nelle immagini si vedono gruppi di giovani variopinti e sorridenti che improvvisano una jam session con abilità davvero straordinaria, davanti a passanti e passeggeri divertiti, esterrefatti, straniti dalla stanchezza ma tutti coinvolti  dallo spettacolo. Vedendo i due filmati ho pensato alle nostre strade, alle nostre piazze, ai nostri aereoporti e anche ai nostri bar in questi tempi e mi sono ammosciata, rammollita come un fiore sfatto dalla pioggia troppo abbondante. Nelle orecchie mi rintronavano i tromboni della nostra politica al posto dei clarini; negli occhi, si aternavano visioni di facce mummificate nelle smorfie ridanciane o seriose, al posto dei volti colorati e giovani. E ho pensato a noi che parliamo e parliamo e postiamo e urliamo e litighiamo nel web come nelle piazze e nelle strade, nei bar e nel chiuso delle case. Allora mi è venuta voglia di atterrare anche io, insieme alle persone che amo, in un ngirotondo giocoso sulla mia bacheca, di essere anche io con loro e con quei giovani, precari, disoccupati, sognatori, anarchici, apolitici, a cantare e danzare.

sabato 26 gennaio 2013

Dallo scaffale.



A volte ripenso a tutte le letture fatte nel corso della mia, ormai posso dirlo, lunga vita. Ripenso a certi libri che per gli argomenti trattati mi sono rimasti impressi come marchi sulla carne delle vacche americane (immagine ricorrente in molti western). Libri anche non particolarmente belli, mi accorgo riflettendoci che ne ho letti di migliori e che, però, a un punto della tua vita, in un preciso momento, cristallizzato come uno sbuffo di neve, balzano fuori dalla polvere dello scaffale della tua libreria e ti si aprono davanti, su un immaginario leggio. Oggi, proprio oggi, mi è venuto davanti agli occhi, dopo quanti anni, venticinque o trenta anche, "Le parole tra noi leggere" il romanzo più importante di Lalla Romano, scrittrice e pittrice del secolo scorso. E perché si sia presentato al mio sguardo sbalordito, questa è un'altra questione, troppo lunga da spiegare. Quello che mi premeva o meglio mi piaceva condividere con voi è la consapevolezza -perdonate la parola, abusatissima- che i libri ritornano sempre, rivelandoti nuove cose di te e degli altri. Che forse tu non avresti né cercato, né voluto sapere.

La nascita di un libro



Un libro, per scriverlo, devi prima sentirlo. Anzi devi vederlo, devi camminare lungo le strade che farai percorrere al tuo protagonista o alla tua eroina, come si diceva un tempo pensando alla principale interprete del romanzo; devi guardare i paesaggi che scorrono sotto gli occhi di lui o di lei; devi entrare nelle loro case, sederti alle loro tavole e dormire nei loro letti; devi innamorarti dei loro amori o odiarli con tutte le forze che hai, se loro li odiano; devi sognare i loro sogni e aspettare il futuro, così come lo aspettano loro. Devi imparare ad ascoltare le loro voci, le parole sussurrate, le grida di dolore, i pianti, i gemiti della passione e devi imparare a riprodurli, come fossi tu a emettere quelle parole, sussurri, grida, gemiti. Non è facile, bisogna perdere se stessi, bisogna diventare altro da sé e ci sono giorni, mesi, anni anche, in cui non puoi farlo, non ci riesci. Sei talmente arroccata alla tua vita, alle tue tiranniche abitudini, ai tuoi dispotici affetti, che resti sorda al richiamo di chi ti abita dentro. Poi, con il tempo, con il benevolo allontanarsi delle esigenze più pressanti, ti rivolgi a loro, li vedi, li osservi, li ascolti, i tuoi personaggi vengono fuori da te. Ed è una maniera diversa, ma sempre dolorosa, di divenire madre.

Lettori fissi