Ero poco più di una bambina,
occhi celati già da lenti da miope,
treccia arruffata sulle spalle, un corpo magro e informe insaccato in abiti
informi. Ero poco più di una bambina sospesa tra le bambole e gli specchi che
rimandavano un’immagine di me poco gradevole. Sempre con un libro tra le mani,
sempre con la testa piena di parole. Sapevo tutto, così credevo, della mia
famiglia; conoscevo la storia dei miei nonni appresa dalla voce d’argento della
nonna; conoscevo la storia di mio padre eroe incerto in una guerra infame. Era
il mio mondo e i fantasmi c’erano, ma li potevo chiamare per nome. Poi non
ricordo né quando, né perché, la mia tela si lacerò. L’involucro in cui mi ero
annidata si spezzò e la mia famiglia e la storia di mio padre eroe incerto e la
storia-storia assunsero un altro aspetto. Ricordo un documentario in bianco e nero, girato dagli
americani (o dai sovietici?) quando filmarono l’orrore di quei volti, di quei
corpi consunti come scheletri di carne e sangue, i sopravvissuti con le mani
aggrappate al filo spinato; ricordo le orbite nere e fisse nell’obiettivo della
cinepresa, orbite non occhi. E i miei occhi, li rivedo enormi e sgranati,
orbite vuote anch’essi. Mio padre era seduto dietro di me, sul divano a fiori e
stava zitto. Mi girai piano e gli chiesi: “Tu sapevi, papà?”
Mio padre era fascista. Aveva
amato la Patria e il Duce. Ho odiato per molti anni, quel suo amor di patria, quel suo amore cieco e mortale. L’ho perdonato dopo, alla
fine. Non ne parlavamo quasi più, ma io ero l'anima rossa, per lui e non si arrabbiava più, mi aveva, in qualche modo, accettata.