lunedì 27 gennaio 2014

La memoria. La mia.

Ero poco più di una bambina, occhi celati già da  lenti da miope, treccia arruffata sulle spalle, un corpo magro e informe insaccato in abiti informi. Ero poco più di una bambina sospesa tra le bambole e gli specchi che rimandavano un’immagine di me poco gradevole. Sempre con un libro tra le mani, sempre con la testa piena di parole. Sapevo tutto, così credevo, della mia famiglia; conoscevo la storia dei miei nonni appresa dalla voce d’argento della nonna; conoscevo la storia di mio padre eroe incerto in una guerra infame. Era il mio mondo e i fantasmi c’erano, ma li potevo chiamare per nome. Poi non ricordo né quando, né perché, la mia tela si lacerò. L’involucro in cui mi ero annidata si spezzò e la mia famiglia e la storia di mio padre eroe incerto e la storia-storia assunsero un altro aspetto. Ricordo  un documentario in bianco e nero, girato dagli americani (o dai sovietici?) quando filmarono l’orrore di quei volti, di quei corpi consunti come scheletri di carne e sangue, i sopravvissuti con le mani aggrappate al filo spinato; ricordo le orbite nere e fisse nell’obiettivo della cinepresa, orbite non occhi. E i miei occhi, li rivedo enormi e sgranati, orbite vuote anch’essi. Mio padre era seduto dietro di me, sul divano a fiori e stava zitto. Mi girai piano e gli chiesi: “Tu sapevi, papà?”
Mio padre era fascista. Aveva amato la Patria e il Duce. Ho odiato  per molti anni, quel suo amor di patria, quel suo amore cieco e mortale.  L’ho perdonato dopo, alla fine.  Non ne parlavamo quasi più, ma io ero l'anima rossa, per lui e non si arrabbiava più, mi aveva, in qualche modo, accettata. 


domenica 26 gennaio 2014

Giorno per giorno.

Un terremoto. Appena percepito, contro la parete gialla, un buco allo stomaco, un silenzio di uccelli in giardino. Poi niente, la calma. Rimane un pulsare doloroso del sangue, ma a quello ho fatto l'abitudine da qualche mese. Oggi è accaduto questo. E anche altro: ho riso, ho riso finalmente, con gli occhi chiari e allegri di mia figlia puntati dentro al cuore, mentre mi raccontava di sé, farfalla chiusa nell'involucro del pc, farfalla libera sotto cieli piovosi. Nella mia stanza filtrava un raggio freddo, un laser che mi accecava, ma lei era con me e niente di male poteva accadere, non con lei. Domani sarà diverso, domani verrà dell'altro e il laser freddo riprenderà a tagliare, bisturi incruento. Giorno per giorno penetrerà in me, ma io stornerò lo sguardo, non pemetterò che mi sfiori. Giorno per giorno lo affronterò e, come lei, gli riderò in faccia. Al mio laser, al mio raggio freddo.

martedì 21 gennaio 2014

L'insensatezza della vita.

Quante stranezze riserva la vita, quanti eventi ci sorprendono senza segnali, senza presagi. Nella nostra personale esistenza, così come nella vita pubblica. E il disagio che si vive nelle quotidiane esperienze è come amplificato da quello che si insinua dal di fuori, dall'esterno, da quell'altro scorrere da cui non possiamo proteggerci. Oggi mi appare strano che si parli tanto e ancora chissà per quanto se ne parlerà, ahinoi, dei due uomini politici che occupano il palcoscenico con la loro tracotante e affine voglia di potere. L'uno, vecchio e consumato attore, si ostina a calpestare la ribalta con la notoria famelica bramosia di visibilità e di plauso; l'altro, giovane e sorridente, arrota le zanne e studia per apprendere, vuole essere un discepolo esemplare. E noi, noi tutti,  ce ne stiamo nei loggioni, in platea ad assistere. Per lo più muti, qualcuno con il muso storto, qualcuno emette lo squittio di un topo in trappola, qualcuno applaude estasiato. E nello stesso giorno se ne va un grande uomo, un vero artista. Claudio Abbado. Un dispensatore generoso ed elegante di bellezza e di talento scompare accompagnato dalla musica che ha amato e che ha insegnato ad amare a molti. Insensatezze della vita. I due piccoli uomini politici, il doppiopetto per eccellenza e il ragazzo in maniche di camicia, mi ricordano il servo stolto della parabola dei talenti, il servo che non riceverà l'immortalità; l'altro, il maestro Abbado mi ricorda i servi saggi che mettono a profitto i talenti ricevuti.  Sono certa, purtroppo, che in molti continueranno a parlare dei primi due sulla carta stampata, nelle televisioni, nei bar, nelle strade e nelle piazze. Mi conforta il pensiero che del maestro Abbado si parlerà di meno. Si parlerà sottovoce forse, si parlerà in qualche articolo o trasmissione per pochi; si parlerà con la stessa discrezione e lo stesso stile con i quali ha sempre vissuto la sua straordinaria storia di arte. Si parlerà sempre di lui nei teatri lirici, quando la musica risuonerà eterna e forte, quando il gesto delle mani la condurrà a noi, per regalarci ancora e ancora gioia, emozione, pura bellezza. 

giovedì 16 gennaio 2014

Il cuore è precipitato..

Ci sono giorni in cui la vita si rovescia su di te. Come un uragano essa  si abbatte su di te, ti sradica dalle tue abitudini, dalle tue stanze d’ombra e di luce, dal tuo stesso corpo. Straniata da ogni cosa, cerchi di aggrapparti alla mano che ti si offre, ma è distante e precipiti nel vuoto. Precipitare dentro se stessi, senza paracadute, una caduta libera e violenta del cuore, delle viscere. Del cervello. Il dolore è sordo, non dà remissione. Non esiste un analgesico e cerchi di non dargli retta, raccattando le parti del tuo essere, i suoi  pezzi infranti. E ti metti all’opera, come un restauratore di antichi reperti, tentando di ridare forma e senso a te stessa, incolli come puoi quei pezzi, sapendo che piccole crepe resteranno sempre visibili. Ti chiedi perché e un perché non c’è. Non c’è mai un perché al dolore e alla sconfitta. Se ne stanno ben rannicchiati nelle pieghe del tempo, ti seguono da vicino come invisibili angeli, ti circuiscono con menzogne d’una calma rasserenante che non è calma, solo il preludio della fine. E mentre ti rialzi e ti ricomponi in gesti e fattezze umane, mentre riprendi a camminare con i passi esitanti di un bambino, mentre vai a sfiorare quella mano che avresti voluto tenere sempre salda nella tua, sai che nulla sarà più come prima. Il cuore è precipitato, il cuore si è schiantato; la mente è preda di assilli senza volto, oscuri nembi la ricoprono, l’eco di parole dette è venata dalla follia. Parlare d’amore, non c’è più tempo. Rimane una sorda furia che batte nelle vene. No, non sarà nulla più come prima. 


foto di Lois Greenfield

dal diario di Adele (L'assente)

lunedì 13 gennaio 2014

La pienezza della vita.

Mi sento soffocare, ho la gola chiusa e non è la doverosa, annuale influenza. Mi sento soffocare da questa realtà che mi condanna a una non voluta reclusione. Sono in perenne crisi d'aria, vivo in apnea. Sotto un cielo basso e vischioso, un cielo d'inverno cattivo, mi sono condannata a un'esistenza da esiliata, mi sono data l'ostracismo da me. Non ho nessuna voglia o curiosità di incontrare gente, di lasciarmi avvicinare da chicchessia: basto a me stessa. Un'uggia feroce mi assale verso tutto e tutti, a malapena riesco a tenermi al corrente delle novità (novità?quotidianità ripetitiva!) che giornali, web e tv emettono con sincronico stillicidio, quasi fossero dei rubinetti spanati. Sempre le stesse notizie, sempre le stesse facce furbesche, da avvizziti personaggi della Commedia dell'Arte; sempre gli stessi Pulcinella e Arlecchino, Balanzone e Stenterello con le vistose Rosaura e Colombina a coronare il quadro, senza aggiungervi però né la grazia, né la perizia di quelle autentiche damigelle. Che  smania di dissolvenza mi prende, non della mia, ma di quella loro. Dissolti, sparpagliati come granelli di sabbia, infinitesimali punti nello spazio.
Mi consolo ascoltando De Andrè, mi conforta la sua voce di tabacco calda che parla di amori perduti e ciechi, di donne dalla bocca di rosa e di impiccati e di Piero e di Carlo Martello. Mi riporta indietro, Fabrizio, ad altri tempi, tempi di disperati sogni e  di furioso sentire; ma ero viva, ero piena. Come una madre che ha un figlio in grembo e se lo serba con geloso amore. E mi strugge non scorgere quella mia giovanile pienezza nei ragazzi di oggi. Non gli abbiamo scippato solo posti di lavoro, non gli abbiamo scippato il futuro, non solo questo. Gli abbiamo scippato, ladri vampiri, la pienezza dell'esistenza, il gusto esaltante ed esaltato della vita. L'altra sera lo psichiatra Vittorino Andreoli esortava i giovani a essere eretici e Beppe Severgnini, politically correct man, aggiungeva preoccupato, sì eretici, ma non folli, per carità, non fate follie!  E Andreoli ribatteva,  "certo, gli eretici passano alla storia. I folli no"
Non so, non ne sono del tutto convinta. Forse oggi bisognerebbe essere eretici e folli insieme. Ma, più probabilmente, è già troppo tardi per esserlo.


Amedeo Modigliani, Ritratto di Jeanne Hébuterne 1918
  

mercoledì 8 gennaio 2014

Non più.

Non è facile iniziare un nuovo anno, non è facile per chi, come me, ha vissuto quello che è ormai solo un elenco di giorni e di date, come un anno non fausto. Non oso dire infausto ( per i nostri padri latini aveva un'accezione davvero infausta, il termine); intendo solamente dire, non gioioso, non portatore di bene, di allegria, di leggerezza. Un anno pesante, segnato da complicati meccanismi politici e sociali, da uno sfacelo economico che parrebbe essersi allontanato. se la dea Fortuna o meglio ancora la finanza e le banche mondiali e i vari Moody's e Standard &Poor's e affini propagatori di moderne pestilenze e altrettante paure, ci daranno un po' di tregua. Un anno confuso, caoticamente ricco di parole, mai se ne sono ascoltate tante e quasi tutte a vanvera, da parte della classe politica. Un anno di perdita, in fin dei conti, di assenza: del lavoro che è la fata Morgana dei nostri ragazzi e non solo; della politica, quella che dovrebbe esserci d'aiuto, quella che vorremmo vedere ben trattata e che vorremmo ritornare ad amare; della progettualità, legata a filo doppio alla speranza; perdita di progettualità che ha spedito all'estero molti giovani, come fossero pacchi postali senza recapito; della semplice voglia di condividere, se non la collera e l'indignazione. Parole queste abusate, è vero. E ne faremmo volentieri a meno, vorremmo adoperarne altre di parole.Non più assenza, perdita, rabbia, sdegno. Non più. Non più vergogna per i morti nel nostro mare e per i loro compagni sopravvissuti e trattati come bestie da spidocchiare; non più i morti per le piogge autunnali o i terremoti perché si è costruito male e dappertutto; non più sentirsi umiliati perché il nostro Paese è uno di quelli in cui si legge di meno e dove la cultura piglia sberle in faccia dai soliti cafoni; non più sapere che da noi la donna è ancora troppo spesso vittima di abusi e violenze e a molti appare come un'ovvietà; non più la visione di chi soffre di mali incurabili ed è costretto a lasciarsi morire per protesta, perché senza la morte nessuno ti presta orecchio; non più code alla Caritas di anziani che non hanno altro se non il proprio nome e il proprio passato; non più ai nostri Musei chiusi perché non ci sono i fondi per tenerli aperti o alle Chiese e agli edifici storici in rovina, alla Reggia di Caserta e a Pompei che tutti vorrebbero e che noi possediamo e ce ne infischiamo. Non più alla corruzione, basta con il rubare, basta con le frodi, le evasioni, i raggiri, le sconcezze di amministratori e politici. Ho di sicuro dimenticato qualche "non più", avrei dovuto ricordare lo strapotere delle associazioni mafiose, ma già se venissero attuati quei non più che ho citato, le mafie prenderebbero una solenne bastonatura, una di quelle batoste da non dimenticare. E dipende da noi tutti che tutto ciò avvenga, lo Stato siamo noi, c'è poco da fare, scriveva bene Piero Calamandrei. Piaccia o non piaccia, lo Stato siamo noi e non un fantomatico e anacronistico Re Sole. E siamo anche la Storia; facciamola diventare nostra, impossessiamoci di essa, rendiamola fertile, fecondiamola con le nostre vite, il nostro sapere, le nostre speranze, la nostra volontà. La Storia siamo noi, proprio come canta De Gregori. Ma credo di averlo gà menzionato un anno fa, come vedete, nulla è mutato.    

venerdì 3 gennaio 2014

Riflessioni sull'amore bugiardo.

L'anno che si è appena concluso non mi lascia niente, nessun buon odore, nessuna scia luminosa. Un buio nel cuore e nella testa, la percezione che sia stato sprecato o che non sia mai stato un anno della mia vita. Mi lascia, al contrario, graffi e cicatrici non rimarginate e la consapevolezza che molto ci è oscuro, molto ci è ignoto. Crediamo (ci siamo illuse di credere forse) di conoscere l'animo umano, almeno delle persone che ci stanno accanto, a volte le più care. E poi un battito d'ali, un foglio bianco macchiato, una linea d'ombra che oscura il sole e tutto svanisce, evapora in una nebbia malsana. Ci guardiamo intorno smarrite e niente è più come prima, le cose consuete hanno perduto i loro contorni e il nitore che vi vedevamo brillare in superficie. In superficie, appunto. E dentro si annida il nero cupo del vuoto.
Penso agli uomini che, in un modo o nell'altro, hanno attraversato la mia vita, penso alle loro fragili menzogne, ai loro sorrisi e alle tenui promesse. Penso a chi ha intrecciato ragnatele d'acciaio attorno a noi donne ridenti e trascurate; penso a chi ha modellato, con abili crudeli mani, giovani cuori e fertili menti per farne una copia del proprio narcisismo, feroce e dissoluto; penso all'amore molle come uno straccio liso che hanno offerto e che, noi donne, tramutavamo come fossimo alchimisti, in preziosa lamina d'oro. Penso a un uomo giovane e  dall'aria ingenua che serbava dentro cataste di pietra e picche di ferro rugginoso. Malinconico cavaliere di nessuna corte, triste messaggero di nessun Dio, si aggirava alla ventura senza coraggio, con uno scudo forgiato con parole e gesti mendaci.
Ha un nome questo cavaliere, questo giovane codardo,  Amore Bugiardo sta scritto sul giustacuore. Ma il cuore non c'è, il cuore è morto.
Penso a lui e agli altri uomini che fanno del male con la leggerezza e il candore di una colomba, penso a loro e sono lieta di essere donna.
So che vi parrà parziale e fazioso questo mio scrivere, ma so altresì che vi sono uomini retti e buoni e loro capiranno e ameranno di un amore senza corazza, senza falsità, senza vesti sfarzose, ameranno di un amore nudo, noi donne.


Agnolo Bronzino   Allegoria del Trionfo di Venere    1540 - 1545

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