venerdì 29 aprile 2016

Dedicato.

Questo breve racconto voglio dedicarlo alle mamme e alle figlie che sono lontane.

Il caffè  ai tempi di Skype

“Il caffè, il caffè si sarà versato tutto fuori, mai tempo, mai abbastanza tempo per poter fare una cosa per me, per avere un momento di pace.”
Angelica si precipitò in cucina, incespicando nella cintura sciolta della vestaglia, mentre Isotta la gatta pigra e selvaggia che viveva con lei, le saettava tra le ciabatte. Nella luce incerta dell’alba l’aroma scuro del caffè l’avvolse confortandola. Si sedette al tavolo e lo sorseggiò piano, assaporando il caldo pizzicore che le bruciava la lingua. Ancora intorpidito dal sonno, con malavoglia lasciato nel letto, lo sguardo vagava per la cucina, si soffermava  sugli oggetti conosciuti, i piatti di ceramica appesi al muro, l’acquerello dipinto dalla zia pittrice, con un vasetto di marmellata al centro e una tazza con il cucchiaino sullo sfondo di una tovaglia a quadri bianchi e celesti, di quelle di lino a trama grossa come non se ne vedevano più. Che soggetto strano per un dipinto, invece che fiori e frutta, la zia pittrice aveva preferito ritrarre le cose di tutti i giorni, forse perché era la vita che voleva mostrare, quella sua, senza fronzoli e sentimentalismi. Sulla mensola laccata di azzurro, lassù in alto, gli occhi colsero la forma squadrata del macinino della nonna, era ridotto male, arrugginito e dimenticato tra gli oggetti da buttare via nei traslochi che si erano susseguiti da quando era poco più che una bambina.  La nonna è ora accanto a lei, la nonna alta e forte e mette i chicchi lucenti nel macinacaffè e mentre le dice di preparare le tazze per il latte, gira la manovella e trita e il rumore dei chicchi che si sbriciolano è piacevole, poi la nonna prende la napoletana di alluminio e la carica di acqua e di caffè ormai ridotto in polvere, ma è una polvere visibile, terrosa, non come quella che si poggia sui mobili . La napoletana è complicata da usare, dice la nonna, ci vuole arte nel maneggiarla e la nonna è davvero un’artista se poi il caffè che le versa nel latte, poche gocce, “sei ancora piccola per averne di più”, ha un profumo così stordente. Angelica distolse gli occhi, la nonna era scomparsa dentro al macinino, si versò un altro caffè e  tenendo la tazzina  in bilico in una mano, nell’altra reggeva la caffettiera ancora rovente, uscì sul terrazzo. C’era un’aria fredda di primavera indecisa e i pochi fiori gocciolavano della pioggia notturna. Posò la tazzina vuota sul ripiano del piccolo tavolo in ghisa e marmo e aiutandosi con un lembo della vestaglia, che sporcacciona pensò, iniziò a svitare la caffettiera. Il residuo compatto del caffè era un buon concime per le sue pianticelle striminzite e mischiandolo a un po’ di terriccio ne avrebbe fatto un composto morbido e un poco untuoso da distribuire alle malcapitate infelici, perché Angelica sapeva di non avere il pollice verde, lo osservò sorpresa, sì in quel momento, era piuttosto nero, di fondi di caffè e di terra bagnata, altro che verde. Ripulì i vasi dalle erbacce, mentre biascicava qualche parola di conforto alle piante, così aveva sentito dire che si usava fare perché crescessero meglio, si chinò a odorare un’unica rosa bianca, aveva un profumo speziato e malvolentieri rientrò.    Bene, aveva inizio un’altra giornata, la scuola e i suoi bambini l’aspettavano.
A Londra, un’ora dopo. Penelope armeggiava tentando di aprire il barattolo del caffè, si era incastrato il coperchio, il maledetto, proprio a lei doveva capitare, con i minuti contati e il bus non l’aspettava di certo. Tutto calcolato, dieci minuti la colazione, dieci in bagno, doccia compresa e riordinato pure perché doveva lasciarlo in perfetto stato ai coinquilini, dieci per vestirsi e sistemare la massa dei riccioli e poi al volo, guanti, berretto, sciarpa e ombrello. E di certo avrebbe dimenticato qualcosa come le capitava ogni giorno. Finalmente c’era riuscita ad aprirlo e ora riempiva, con la polvere, la caffettiera colorata che era stata la prima cosa che aveva messo in valigia due anni prima, quando dopo la laurea si era trasferita, carica di bagagli e di attese, nella metropoli. Due anni, meglio non pensare. Due anni lontana da casa e la solitudine da mutare in compagnia: volente o nolente, la nostalgia per la mamma e le sorelle da trasformare in  allegro distacco, perché non se ne accorgessero.

Angelica era seduta all’esterno del bar, quel piccolo bar anonimo nei paraggi della scuola e aspettava che Clara la raggiungesse. Clara la sua migliore amica.  Ordinarono due caffè un poco lunghi e con una schiuma di latte spessa, il cameriere vi spolverò sopra una nebbiolina di cacao, aggiunse un cioccolatino omaggio sul piattino e si eclissò nell’ombra interna del locale.  Stavano lì sedute a gustarselo, erano già stanche e ancora a casa c’era tutto da fare, ma per adesso erano in una bolla di calore profumato e potevano raccontarsi un po’ di storie. Clara, del suo nuovo amore. Aveva appena ottenuto il divorzio e si era impelagata subito in una relazione con il cantante di un complesso heavy metal, un giovanotto pelato, tatuato e soprattutto coetaneo del figlio. 
"Sono come rifiorita" le diceva "mi sento giovane e carina, una sensazione che non provavo da troppi anni! Ma tu non puoi capire" continuava con voce estatica "tu, Angelica, hai smesso di vivere, scusa sai, ma è così. Non esci più, non frequenti, non ti metti in gioco, ma insomma perché poi? C’è una sola vita, dico io, e dobbiamo afferrarla, assaporarla tutta, proprio come questo caffè, ottimo davvero! E tu invece che fai? Te ne stai a casa con le figlie, esci con le figlie, parli con Penelope su skype, ah sì certo, lavori anche, ma potresti avere altro!" E sorrideva beatamente scema. Angelica decise che quel pomeriggio l’amica del cuore le ispirava una notevole antipatia. 
"Grazie per avermi concesso che lavoro pure" le rispose "e che per il resto sono un disastro. Tu invece te la godi e fai bene, sì fai proprio benissimo a frequentare discoteche e happy hours, sei molto cool direbbe Penelope." E si interruppe di colpo, non aveva neanche notato i leggings leopardati e gli enormi orecchini, due ruote di bicicletta in effetti, che Clara sfoggiava con stupefacente noncuranza. Affascinata osservava i movimenti dell’amica, una sconosciuta le pareva adesso, e gli occhi andavano alle ruote di bici che sbattevano di qua e di là pericolosamente. "Ma non ti danno fastidio?" le chiese e subito si pentì, perché Clara le lanciò un’occhiata compassionevole. E di cosa aveva parlato lei,   lei Angelica, se non delle sue tre figlie, di quella lontana, la più testarda e la più ribelle? Per questo forse la più vicina al cuore, lo aveva detto piano, sussurrando al liquido bruno, quasi quel liquido potesse trasportare parole e cuore all’isola lontana.  "Devo spedirle il pacco" disse a Clara improvvisamente "scusa devo correre alla Posta e prima devo andare al supermercato a prenderle due chili di caffè, vuole quello nostro e poi la faccio risparmiare quando posso." E scappò via sulla scia odorosa del bar, lasciando le monete sul ripiano del tavolino e avvertendo sulla nuca la delusione dell’amica.  Alla Posta, mentre faceva la coda spostando il peso del corpo da un piede all’altro, maledicendosi per avere messo scarpe con i tacchi, le arrivò la telefonata della madre. Ci mancava solo lei, la madre con le sue fisime e la sua allegria che non otteneva altro che aumentare l’irritazione che le covava dentro. " Sì mamma sono io, sì mamma sono fuori, no mamma non sono ancora rientrata e sì mamma sono stanca, certo mamma vai pure alla tua lezione di tango, sì mamma hai bisogno di svagarti."  La coda si era dissipata assieme alla voce della madre e ora l’impiegato tamburellava sul banco e la fissava annoiato, "allora signora siamo pronti?" le stava dicendo e il tono non era dei più gentili. Angelica ebbe una fiammata alle guance e  un pugno allo stomaco, stava per urlargli in faccia, "ma tu lo sai, brutto stronzo, che io ho un’amica con i leggings leopardati e due ruote di bicicletta alle orecchie ed è anche più vecchia di me di un anno e lo sai che mia madre va a lezione di tango e mi telefona per avere il mio consenso? E lo sai che i piedi mi fanno un male cane e che anche io non vorrei essere qui, ma a casa mia?" Ma non gli urlò in faccia, si limitò a fare  un sospiro eloquente sul grugno dell’uomo e gli porse il pacchetto per la figlia.

Penelope era in pausa, aveva due possibilità: recarsi nel vicino fish&chips e intossicarsi il fegato; oppure decidere per la maratona e andare nel piccolo pub più distante e   risolvere il lunch con un muffin o anche due, erano proprio buoni, e con un caffè lungo, non esattamente il massimo che una siciliana potesse desiderare, ma sempre caffè era. E di certo il fegato avrebbe ringraziato. Lungo la strada un cartellone di taglia extra-large attirò la sua attenzione: accattivante, il barattolo del caffè italiano le sorrideva. Un groppo alla gola, un rigurgito di nostalgia lancinante e stornò lo sguardo. Il pub era affollato, non c’era posto a sedere ai tavolini e alla fine, dopo un’infruttuosa ricerca, si appollaiò sullo sgabello lasciato libero da una ragazza stracarica di pacchetti e forse anche di birra. Dal mug il vapore s’inerpicava su per le pareti tappezzate di quadri, doveva esserci la mostra di qualche pittore in attesa di celebrità, e Penelope si abbandonò alla meditazione. Lo definiva ormai così  quel breve lasso di tempo tutto per sé, uno spazio vuoto e ovattato dove rifugiarsi tra una corsa e l’altra, dopo quasi quattro ore di PC che le aveva gonfiato gli occhi, le pareva di avere due palline da golf nelle orbite, dopo decine di telefonate a clienti papabili e non, dopo le sporadiche osservazioni di qualche collega di umore nero come quel caffè che mollemente beveva. Alla fine, non c’erano residui in quella tazza lunga e stretta, non c’erano fondi da leggere. Carlotta sì, lei sapeva leggerli i fondi del caffè, quante volte lo avevano fatto, sedute insieme al tavolo di un bar della loro città. E ogni tanto aveva indovinato il futuro, Penelope non sapeva come avesse fatto ed era certa che neanche Carlotta lo sapesse, ma ci aveva azzeccato. Chissà cosa le avrebbe detto adesso, chissà cosa avrebbe letto in quelle strie appena accennate che giacevano sul fondo del mug. Probabilmente, niente. Non avrebbe visto nessuna novità in arrivo per lei, nessun principe azzurro, nessuna vincita milionaria, nessun lavoro che la ripagasse degli anni spesi all’università. "Dio, come sono tragica oggi. Sarà perché è lunedì e ho tutta la settimana davanti e un mare di lavoro da sbrigare. Sarà per questo."  Finse di non sentire il naso che le si otturava e gli occhi che si annacquavano, tirò fuori un Kleenex e si soffiò il naso, poi pagò e uscì dal pub. Fuori pioveva, aprì l’ombrello e si diresse con il suo passo da maratoneta verso l’ufficio.    

Finalmente a casa, silenzio e aria che sapeva ancora di notte.  Angelica spalancò le finestre, infilò i guanti di gomma, dopo aver lanciato, con una perfetta parabola, le odiate scarpe in camera da letto, e cominciò a riordinare. Il bagno, uno scenario di guerra in cui le altre due sue figlie si muovevano sapientemente; la cucina ancora meglio, se è possibile definire il meglio briciole che fanno cric croc sotto le piante dei piedi e le tazze del latte vischiose di marmellata, abbandonate sul tavolo. Isotta le si strusciava alle caviglie, miagolando seducente e affamata, già affamata, aveva dimenticato di riempire la ciotola con i croccantini di pollo, "scusami piccola adesso la mamma ti dà la pappa, ecco mangia."  Isotta sembra ridere mentre sgranocchia, pensò Angelica e le arruffò il pelo lungo e morbido.  Tirò fuori l’insalata e la carne, apparecchiò per tre con la  flebile speranza che le ragazze non si presentassero con il solito ospite dell’ultimo minuto, poi pose la piastra sul fornello. Carne ai ferri o meglio paillard di vitello con contorno di erbette miste, voilà la cena è servita.
Le restava un’ora prima che arrivassero, bene. Mise su la moka, accese il PC e si lasciò cadere sulla sedia davanti allo schermo brillante, in attesa di vedere la figlia.

Penelope era rientrata, la casa risuonava di musica sparata a palla e di risate. "Cavolo, ci sono tutti" e passando veloce per la living room, fece un saluto generale. La coinquilina spagnola le gridò dietro che c’era posta per lei, il pacco della mamma, pensò, ma no è troppo presto. Tornò indietro e si fece consegnare la busta gialla con sopra il suo nome, no era da parte del  Town Council, qualche pratica da sbrigare, una rottura in più. La coinquilina spagnola la guardava curiosa, un po’ impicciona lo era, però era anche servizievole a modo suo e Penelope a volte la ricambiava con occhiate che neanche Cerbero avrebbe azzardato.  La gratificò di un movimento delle labbra, un misto di grazie e di un sorriso, il minimo sindacale, di più non poteva dopo una giornata di lavoro come quella che aveva avuta. L’altro coinquilino, stavolta italiano come lei, le chiese se dopo cena le andava una birra da qualche parte, "Una birra? Di lunedì? No, no grazie, domani mi aspetta un’altra giornata infernale."  Poverino, si era preso una mezza cotta per lei, le ronzava sempre attorno quando erano a casa insieme, cercava di compiacerla e, ogni tanto, le portava anche qualche regalino. Era un ragazzo timido e ancora non si era bene ambientato, era arrivato a Londra catapultato più dal destino che dalla propria volontà. D’altronde se l’era cercata quella fortuna, quando aveva inoltrato la domanda per quel master all’estero e, senza che lui ci contasse, lo avevano chiamato. A Penelope faceva simpatia, un miscuglio di affetto da sorella e da amica maggiore, ma non era il suo tipo. E poi, niente relazioni sentimentali, non voleva casini di quel genere, per ora almeno. Gli diede un buffetto sulla guancia per farsi perdonare," potremmo vedere insieme un film, che ne dici? Non appena avremo finito di cenare e dopo che avrò parlato su skype con mia madre."  Il coinquilino timido si irradiò come una lampadina a incandescenza, divenne luminoso subito, "sì benissimo, ne ho scaricati due o tre straordinari, vedrai, preferisci il genere commedia d’amore," s’illuminò di più se possibile, "oppure qualcosa di più impegnato, non so, di più intellettuale?" e si afflosciò un tantino nel dirlo. Penelope voleva dirgli, non me ne frega niente, fai tu, ma si intenerì e gli gridò uscendo dalla living, "una commedia amorosa mi va bene!" Si sarebbe immersa nel rosa per quella sera, colore che non le era per niente congeniale.  In cucina caricò la moka colorata, la pose sul fornello, preparò la tazzina con i gufi disegnati e lo zucchero di canna, poi si tolse le scarpe con i tacchi, la giacca nera, arrotolò le maniche della camicia e accese il PC.

Lo schermo è pieno della loro immagine adesso, Penelope a Londra vede la madre e viceversa. Si sorridono sfinite, gli occhi eternamente luccicanti quando si parlano. Accanto a loro una spirale si avvolge salendo verso il cielo, proviene dalla  tazzina con l’ultimo caffè della giornata, nero e morbido. Il più buono.




Giugno 2012 

domenica 24 aprile 2016

Parlo ai ragazzi. Ancora e ancora.

Domani, 25 aprile, ricorrerà l'anniversario della Liberazione per l'Italia dal regime fascista. Sono trascorsi settantun'anni e quell'anelito sofferto alla libertà, quel grido alla dignità dell'essere umano violata per oltre un ventennio, quell'ansia di rendere normale  la vita di tutti gli uomini e le donne, quando l'aberrante ideologia totalitaria aveva travolto la vita di tutti nel gorgo dell'odio e della delazione, della paura e della menzogna, fino all'orrore ultimo della guerra, tutti quei valori dovrebbero essere vigorosamente radicati in noi, dovrebbero affondare radici nel profondo delle nostre coscienze, Da ragazza ne ero talmente convinta e talmente entusiasta che le resistenze a questi valori mi apparivano soltanto i colpi di coda del mostro morente, ero innocente, ero ardentemente innamorata del presente, ero gravida di un gioioso futuro di progressivo cammino nella pace e nell'uguaglianza. Poi vennero i dubbi, le incertezze. Gli anni trascorrevano e io vedevo fluire il tempo e in quel fluire annaspavo, tentando di restare abbarbicata a quelle virtù, i beni dello Stato, il suo erario più autentico. Scricchiolava la repubblica, sentivo larvate parole, aliti gelidi di cadaveri sepolti venivano fuori dai sepolcri imbiancati. Ma non demordevo e facevo quello che mi toccava fare: parlavo con i miei figli, con i ragazzi, con i più giovani dagli enormi occhi sbalorditi, spalancati sulle meravigliose possibilità di questo mondo. Li educavo a quei valori, gliene mostravo la bellezza, l'unicità, la bontà. Oggi è Kàos ad avere lo scettro, ed è micidialmente difficile battagliare contro di lui. Mi pare, a volte, di essere una femminile, affranta, svuotata Don Chisciotte; o anche un vecchio donnino simile a un elfo delle saghe nordiche, avvinghiato all'erica frustata dai venti; o ancora una mostruosa Medusa alla quale si taglierebbe volentieri la testa; o ancora e semplicemente una matta che urla alla luna. Quando leggo e ascolto  le parole  di malcelato rancore nei confronti di chi vorrebbe fuggire da guerre e fame - astio bene alimentato da una stampa opportunamente attrezzata nelle tv e sulla carta e, soprattutto, nel web - e quando leggo e ascolto le parole aspre e untuose al contempo - perché, se ci fate caso,  l'incipit è sempre quello "io non sono razzista, io non sono omofobo, io non sono xenofobo, ma ... - nei confronti delle più disparate e variegate e, per me, stimolanti, colorate diversità culturali, etniche, religiose, sessuali, avverto, tagliente come un rasoio, il pericolo della disfatta. Li vedo attorcersi tra loro quei valori di giustizia e libertà, di uguaglianza, li vedo traballare come i vecchi allo stremo delle forze, insicuri di potere arrivare sani e salvi a casa. Ma domani si festeggia lo stesso e si diranno da parte delle autorità le identiche frasi di ogni anno e, per un giorno, magari ci crederanno pure e qualcuno si farà venire gli occhi lustri, Domani ricorderanno e poi, per un altro anno, via in soffitta le bandiere e le canzoni e il sentirsi parte di una Storia.
Io me ne sto in disparte, osservo e non smetto di parlare, anche se con la voce arrochita dagli anni, ai miei ragazzi: li esorto ancora e ancora, li esorto a non abbassare la guardia, a essere le sentinelle di quei valori. Perché li mantengano in vita, al di là di qualunque parola ascoltata o letta, nella consapevolezza che sono i valori su cui l'umanità tutta deve continuare a fondare l'esistenza e la coscienza di ciascuno.


Pablo Picasso "Madre e bambino"  1921


lunedì 18 aprile 2016

Le ragioni della memoria.

Il caso ultimo della vita politica e sociale d'Italia, appena concluso, è il referendum sulle trivellazioni in mare. Il referendum non ha avuto esito positivo perché non si è raggiunto il quorum innanzitutto. I fatti parlano chiaro, tutto è accecante come la luce che si sprigiona, guarda un po', dal nostro sole in estate, arroventando le nostre spiagge più meridionali: gli italiani hanno disertato l'urna. I perché possono essere molteplici e tutti plausibili, disinformazione, disinteresse per il tema specifico, appartenenza politica, semplice e pura ignavia. Ragioni tutte ragionevolmente contestabili o no, a seconda dei presupposti.
Per me, che ho votato un sì convinto, il presupposto era il mare. E, pur avendo preso nella dovuta considerazione gli appelli di Greenpeace e delle altre associazioni ambientaliste, mi sono basata sulla mia esperienza sensoriale di tenti e tanti anni di frequentazione e di contatto con questa immensa massa che abbraccia la mia isola e gran parte della penisola. Il mio rapporto con il mare è stato, negli ultimi vent'anni, frustrante, ambivalente: da una parte il bisogno viscerale del ritorno al grembo generoso e materno che, nelle torride estati, mi accoglieva restituendomi il respiro, il respiro lento e profondo, capace di lenire gli affanni oltre che il bruciore della pelle; dall'altra, la conferma, ogni stagione più triste, che il mare cambiava. Cambiava colore, cambiava odore. Mutavano i fondali a occhio nudo, sparivano le telline, piccoli molluschi gustosi, dai litorali sabbiosi, sparivano le "patelle" altri molluschi attaccati agli scogli neri affioranti. Ogni estate, in questi ultimi venti anni, è stata segnata da una nuova mancanza, dalla scoperta infelice che anche gli angoli più nascosti venivano depredati.
Ha ragione anche il premier, certo, il mare è stato devastato dall'incuria selvaggia, dal disprezzo crudele di chi ha permesso che vi si costruisse a ridosso, di chi non ha provveduto a mantenerlo pulito con depuratori e collettori per le acque nere. Verissimo. E la colpa è di tutti, verissimo. Ma ieri avremmo voluto e potuto fare un primo passo, un piccolo passo e invertire la marcia, ieri avremmo avuto la possibilità di occuparci anche noi del nostro mare, trascurato, offeso, svilito. Non è andata così, hanno prevalso altre ragioni. Ragioni economiche, ragioni di opportunismo politico. Ecco, per me questo è stato l'errore più marchiano e stupido che si è fatto. Come tutti i referendum, o quasi, anche questo aveva il compito di dare voce alle coscienze, ma anche alla memoria, anche all'esperienza personale, di tutti. Di tutti, fuorché di coloro che non sono andati a esprimere il loro pensiero, e sono stati troppi. Un'Italia di inetti, di rinunciatari, di sordi al bisbigliare lieve della coscienza? Oppure al contrario, di uomini e donne irresistibilmente attratti dal canto delle sirene, come i compagni di Ulisse? Non lo so, ma mi addolora. Come ahimè spesso accade, la politica si è impadronita di questa bella opportunità, è diventata lotta becera, priva di riflessioni, priva di significato, rinfocolata astiosamente da pretestuosi ricatti, da insulti, da minacce.
Ora tutto si è compiuto, chi ha vinto - e non so cos'abbia vinto - non ha l'aria felice, perché vince sapendo di aver avuto un avversario migliore di lui, il mare.
A chi ha perso, spero che gli sia d'insegnamento e, continuando a battersi per ciò in cui crede, lo faccia senza attaccarsi alle braghe della politica.
Il mare non ha bisogno di scorribande tra leader di differenti bandiere. Il mare ha bisogno di cure, di rispetto e di amore.

mercoledì 13 aprile 2016

Un'altra volta.

I ricordi non sempre sono legati a eventi importanti. Spesso sono fiammelle che si accendono, all'improvviso, e ci portano a un momento apparentemente insignificante del passato. Ma ogni giorno vissuto ha un senso, ogni piccolo gesto ha un significato.


Un piccolo bar, un'altra volta.

Dividevamo un croissant, sotto il vento.
Lo spezzasti e mi parve il gesto sacro
Che sfarina il corpo divino, tu sorridevi.
Nel rigagnolo nero s’ abbeverava un piccione
E tu parlavi e nei tuoi occhi scorgevo altre piazze.
Un caffè nero, me lo godo qui dicesti, ubriacò
Quel mattino, fu il nostro segreto calice, l’ultimo.
Quando ci alzammo, vacillavo e tu mi afferrasti
Amoroso tocco delle tue mani sempre fredde.
Camminavi piano perché io non ti sfuggissi,
camminavo svelta per raggiungerti, oltre quel tempo.
Il piccolo bar c’è sempre, il croissant sarà caldo
E ci inebrieremo di caffè nero, un’altra volta.


Pablo Picasso  "Due donne sedute al bar"  1902









giovedì 7 aprile 2016

"No. Leggo un buon libro".

Non ho mai guardato il programma "Porta a Porta" e non lo dico per attribuirmi un vanto, no. Non sono stata una telespettatrice del talk di Vespa per un motivo banale, lo definirei anche estetico: non mi piacciono le persone che si fregano le mani -  non so se avete presente quel gesto che richiama alla memoria un personaggio di Dickens, il mellifluo Uriah Heep - e Bruno Vespa è solito fregarsele con ghiotta soddisfazione. Ciò, per carità, non toglie nulla ai meriti del giornalista che, voglio credere, debbano essere cospicui se la sua luminosa carriera perdura nonostante l'età non più verdeggiante. Eppure, ieri mi sarei aspettata altro dalla RAI. l'emittente nazionale di informazione pubblica, mi sarei aspettata che, per una volta, le ragioni della saccoccia e di utili relazioni non avessero la meglio sulle ragioni della decenza e del rispetto. Il fatto è noto, ma lo riassumo. Il conduttore Vespa ha intervistato, nel corso del programma, il figlio del mafioso Totò Riina, in carcere per le stragi di Capaci e di Via D'Amelio, in cui perirono i giudici Falcone e Borsellino insieme alla moglie di Giovanni Falcone e agli uomini e alle donne della scorta.Come ha precisato Mentana, in verità è compito del giornalismo informare e porgere al pubblico criteri e mezzi per giudicare, per avere un'opinione di avvenimenti e persone e quindi le interviste vanno fatte anche, sostiene Mentana -  e io, in parte, condivido - ai personaggi negativi, ossia assassini, ladri e ladroni, corruttori e corrotti , mafiosi e camorristi. E, in effetti nella storia del giornalismo gli esempi non mancano, basti pensare alle interviste di Enzo Biagi. Ma nel caso specifico, c'è ben altro per cui indignarsi, anzi incazzarsi: l'intervista del pargolo del mafioso Riina è strumentale alla pubblicazione del libro di memorie, presumo con timore, riguardanti le amene amorevolezze del delinquente Riina, nei panni di padre: una certificazione affettuosa e caritatevole di un individuo che tutto merita fuorché affetto e misericordia. A rendere la cosa ancor più miserevolmente indegna è che il libro, con ogni probabilità,  possa essere frutto dell'ingegnosa fantasia di un altro, insomma di un ghost writer prestato alla mafia. Eccellente. Un'altra eccellenza dell'Italia, un'altra immagine di degradante umiliazione a cui l'ente pubblico avrebbe dovuto sottrarre se stesso e noi tutti.
La mia, e non solo mia, unica speranza è che in tantissimi abbiano detto "no, io non ti guardo Vespa. Io stasera spengo la tv e leggo un buon libro. Un buon libro."

Henri Matisse, La lettrice, 1919
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domenica 3 aprile 2016

Countdown.

Avete mai fatto caso che siamo, quasi sempre, a scandire il tempo? A misurare il trascorrere delle ore, dei giorni, noi come perfetti metronomi, tic tac, a seguire il ritmo giusto, non della musica, del tempo. Oppure come se avessimo un'enorme pendola dentro la testa che batte i minuti, per poi annunciarci con quei rintocchi antichi che tutto si compie. Così è per me, da qualche mese. Ma, in fondo, da tanti anni, sicuramente da quando mi sono accorta di averne non troppi a disposizione. E immagino di fermarlo, il tempo, ci provo, ci proviamo tutti. Lo blocchiamo, il subdolo, il fedifrago fuggitivo, nei sorrisi sulle foto, negli abbracci con gli occhi fissi al flash; lo ingabbiamo nelle parole scambiate, di cui presto dimenticheremo il suono e il senso. Lo intrappoliamo, ancora, nei nostri letti sfatti dalle veglie notturne, quando allontaniamo da noi il sonno, perché è il baratro nero in cui ci dissolveremmo insieme, noi e il tempo.
Contrassegniamo i giorni, li numeriamo, un implacabile conto alla rovescia, un countdown che vorremmo dilatare all'infinito, nell'illusione di dilatarlo, il tempo, quello che resta. Quello che resta a noi, dei nostri brevi momenti di consapevole pienezza,  quello che resta dei giorni trascorsi, appesi noi al filo sottile dell'amore, attenti nel maneggiarlo, ché potrebbe spezzarsi.  Ce ne stiamo quieti, scaraventati in mezzo alla vita, sul ring atterrati, aspettiamo a occhi chiusi che, allo scadere del tempo, tutto sia cambiato, tutto sia come vorremmo che fosse.
Ma il tempo e il cielo si confondono e, a occhi aperti, come Adriano, entriamo nella vita nuova, sotto altre stelle, con altre parole, con altri volti ci incontreremo.

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