domenica 24 aprile 2016

Parlo ai ragazzi. Ancora e ancora.

Domani, 25 aprile, ricorrerà l'anniversario della Liberazione per l'Italia dal regime fascista. Sono trascorsi settantun'anni e quell'anelito sofferto alla libertà, quel grido alla dignità dell'essere umano violata per oltre un ventennio, quell'ansia di rendere normale  la vita di tutti gli uomini e le donne, quando l'aberrante ideologia totalitaria aveva travolto la vita di tutti nel gorgo dell'odio e della delazione, della paura e della menzogna, fino all'orrore ultimo della guerra, tutti quei valori dovrebbero essere vigorosamente radicati in noi, dovrebbero affondare radici nel profondo delle nostre coscienze, Da ragazza ne ero talmente convinta e talmente entusiasta che le resistenze a questi valori mi apparivano soltanto i colpi di coda del mostro morente, ero innocente, ero ardentemente innamorata del presente, ero gravida di un gioioso futuro di progressivo cammino nella pace e nell'uguaglianza. Poi vennero i dubbi, le incertezze. Gli anni trascorrevano e io vedevo fluire il tempo e in quel fluire annaspavo, tentando di restare abbarbicata a quelle virtù, i beni dello Stato, il suo erario più autentico. Scricchiolava la repubblica, sentivo larvate parole, aliti gelidi di cadaveri sepolti venivano fuori dai sepolcri imbiancati. Ma non demordevo e facevo quello che mi toccava fare: parlavo con i miei figli, con i ragazzi, con i più giovani dagli enormi occhi sbalorditi, spalancati sulle meravigliose possibilità di questo mondo. Li educavo a quei valori, gliene mostravo la bellezza, l'unicità, la bontà. Oggi è Kàos ad avere lo scettro, ed è micidialmente difficile battagliare contro di lui. Mi pare, a volte, di essere una femminile, affranta, svuotata Don Chisciotte; o anche un vecchio donnino simile a un elfo delle saghe nordiche, avvinghiato all'erica frustata dai venti; o ancora una mostruosa Medusa alla quale si taglierebbe volentieri la testa; o ancora e semplicemente una matta che urla alla luna. Quando leggo e ascolto  le parole  di malcelato rancore nei confronti di chi vorrebbe fuggire da guerre e fame - astio bene alimentato da una stampa opportunamente attrezzata nelle tv e sulla carta e, soprattutto, nel web - e quando leggo e ascolto le parole aspre e untuose al contempo - perché, se ci fate caso,  l'incipit è sempre quello "io non sono razzista, io non sono omofobo, io non sono xenofobo, ma ... - nei confronti delle più disparate e variegate e, per me, stimolanti, colorate diversità culturali, etniche, religiose, sessuali, avverto, tagliente come un rasoio, il pericolo della disfatta. Li vedo attorcersi tra loro quei valori di giustizia e libertà, di uguaglianza, li vedo traballare come i vecchi allo stremo delle forze, insicuri di potere arrivare sani e salvi a casa. Ma domani si festeggia lo stesso e si diranno da parte delle autorità le identiche frasi di ogni anno e, per un giorno, magari ci crederanno pure e qualcuno si farà venire gli occhi lustri, Domani ricorderanno e poi, per un altro anno, via in soffitta le bandiere e le canzoni e il sentirsi parte di una Storia.
Io me ne sto in disparte, osservo e non smetto di parlare, anche se con la voce arrochita dagli anni, ai miei ragazzi: li esorto ancora e ancora, li esorto a non abbassare la guardia, a essere le sentinelle di quei valori. Perché li mantengano in vita, al di là di qualunque parola ascoltata o letta, nella consapevolezza che sono i valori su cui l'umanità tutta deve continuare a fondare l'esistenza e la coscienza di ciascuno.


Pablo Picasso "Madre e bambino"  1921


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