venerdì 29 aprile 2016

Dedicato.

Questo breve racconto voglio dedicarlo alle mamme e alle figlie che sono lontane.

Il caffè  ai tempi di Skype

“Il caffè, il caffè si sarà versato tutto fuori, mai tempo, mai abbastanza tempo per poter fare una cosa per me, per avere un momento di pace.”
Angelica si precipitò in cucina, incespicando nella cintura sciolta della vestaglia, mentre Isotta la gatta pigra e selvaggia che viveva con lei, le saettava tra le ciabatte. Nella luce incerta dell’alba l’aroma scuro del caffè l’avvolse confortandola. Si sedette al tavolo e lo sorseggiò piano, assaporando il caldo pizzicore che le bruciava la lingua. Ancora intorpidito dal sonno, con malavoglia lasciato nel letto, lo sguardo vagava per la cucina, si soffermava  sugli oggetti conosciuti, i piatti di ceramica appesi al muro, l’acquerello dipinto dalla zia pittrice, con un vasetto di marmellata al centro e una tazza con il cucchiaino sullo sfondo di una tovaglia a quadri bianchi e celesti, di quelle di lino a trama grossa come non se ne vedevano più. Che soggetto strano per un dipinto, invece che fiori e frutta, la zia pittrice aveva preferito ritrarre le cose di tutti i giorni, forse perché era la vita che voleva mostrare, quella sua, senza fronzoli e sentimentalismi. Sulla mensola laccata di azzurro, lassù in alto, gli occhi colsero la forma squadrata del macinino della nonna, era ridotto male, arrugginito e dimenticato tra gli oggetti da buttare via nei traslochi che si erano susseguiti da quando era poco più che una bambina.  La nonna è ora accanto a lei, la nonna alta e forte e mette i chicchi lucenti nel macinacaffè e mentre le dice di preparare le tazze per il latte, gira la manovella e trita e il rumore dei chicchi che si sbriciolano è piacevole, poi la nonna prende la napoletana di alluminio e la carica di acqua e di caffè ormai ridotto in polvere, ma è una polvere visibile, terrosa, non come quella che si poggia sui mobili . La napoletana è complicata da usare, dice la nonna, ci vuole arte nel maneggiarla e la nonna è davvero un’artista se poi il caffè che le versa nel latte, poche gocce, “sei ancora piccola per averne di più”, ha un profumo così stordente. Angelica distolse gli occhi, la nonna era scomparsa dentro al macinino, si versò un altro caffè e  tenendo la tazzina  in bilico in una mano, nell’altra reggeva la caffettiera ancora rovente, uscì sul terrazzo. C’era un’aria fredda di primavera indecisa e i pochi fiori gocciolavano della pioggia notturna. Posò la tazzina vuota sul ripiano del piccolo tavolo in ghisa e marmo e aiutandosi con un lembo della vestaglia, che sporcacciona pensò, iniziò a svitare la caffettiera. Il residuo compatto del caffè era un buon concime per le sue pianticelle striminzite e mischiandolo a un po’ di terriccio ne avrebbe fatto un composto morbido e un poco untuoso da distribuire alle malcapitate infelici, perché Angelica sapeva di non avere il pollice verde, lo osservò sorpresa, sì in quel momento, era piuttosto nero, di fondi di caffè e di terra bagnata, altro che verde. Ripulì i vasi dalle erbacce, mentre biascicava qualche parola di conforto alle piante, così aveva sentito dire che si usava fare perché crescessero meglio, si chinò a odorare un’unica rosa bianca, aveva un profumo speziato e malvolentieri rientrò.    Bene, aveva inizio un’altra giornata, la scuola e i suoi bambini l’aspettavano.
A Londra, un’ora dopo. Penelope armeggiava tentando di aprire il barattolo del caffè, si era incastrato il coperchio, il maledetto, proprio a lei doveva capitare, con i minuti contati e il bus non l’aspettava di certo. Tutto calcolato, dieci minuti la colazione, dieci in bagno, doccia compresa e riordinato pure perché doveva lasciarlo in perfetto stato ai coinquilini, dieci per vestirsi e sistemare la massa dei riccioli e poi al volo, guanti, berretto, sciarpa e ombrello. E di certo avrebbe dimenticato qualcosa come le capitava ogni giorno. Finalmente c’era riuscita ad aprirlo e ora riempiva, con la polvere, la caffettiera colorata che era stata la prima cosa che aveva messo in valigia due anni prima, quando dopo la laurea si era trasferita, carica di bagagli e di attese, nella metropoli. Due anni, meglio non pensare. Due anni lontana da casa e la solitudine da mutare in compagnia: volente o nolente, la nostalgia per la mamma e le sorelle da trasformare in  allegro distacco, perché non se ne accorgessero.

Angelica era seduta all’esterno del bar, quel piccolo bar anonimo nei paraggi della scuola e aspettava che Clara la raggiungesse. Clara la sua migliore amica.  Ordinarono due caffè un poco lunghi e con una schiuma di latte spessa, il cameriere vi spolverò sopra una nebbiolina di cacao, aggiunse un cioccolatino omaggio sul piattino e si eclissò nell’ombra interna del locale.  Stavano lì sedute a gustarselo, erano già stanche e ancora a casa c’era tutto da fare, ma per adesso erano in una bolla di calore profumato e potevano raccontarsi un po’ di storie. Clara, del suo nuovo amore. Aveva appena ottenuto il divorzio e si era impelagata subito in una relazione con il cantante di un complesso heavy metal, un giovanotto pelato, tatuato e soprattutto coetaneo del figlio. 
"Sono come rifiorita" le diceva "mi sento giovane e carina, una sensazione che non provavo da troppi anni! Ma tu non puoi capire" continuava con voce estatica "tu, Angelica, hai smesso di vivere, scusa sai, ma è così. Non esci più, non frequenti, non ti metti in gioco, ma insomma perché poi? C’è una sola vita, dico io, e dobbiamo afferrarla, assaporarla tutta, proprio come questo caffè, ottimo davvero! E tu invece che fai? Te ne stai a casa con le figlie, esci con le figlie, parli con Penelope su skype, ah sì certo, lavori anche, ma potresti avere altro!" E sorrideva beatamente scema. Angelica decise che quel pomeriggio l’amica del cuore le ispirava una notevole antipatia. 
"Grazie per avermi concesso che lavoro pure" le rispose "e che per il resto sono un disastro. Tu invece te la godi e fai bene, sì fai proprio benissimo a frequentare discoteche e happy hours, sei molto cool direbbe Penelope." E si interruppe di colpo, non aveva neanche notato i leggings leopardati e gli enormi orecchini, due ruote di bicicletta in effetti, che Clara sfoggiava con stupefacente noncuranza. Affascinata osservava i movimenti dell’amica, una sconosciuta le pareva adesso, e gli occhi andavano alle ruote di bici che sbattevano di qua e di là pericolosamente. "Ma non ti danno fastidio?" le chiese e subito si pentì, perché Clara le lanciò un’occhiata compassionevole. E di cosa aveva parlato lei,   lei Angelica, se non delle sue tre figlie, di quella lontana, la più testarda e la più ribelle? Per questo forse la più vicina al cuore, lo aveva detto piano, sussurrando al liquido bruno, quasi quel liquido potesse trasportare parole e cuore all’isola lontana.  "Devo spedirle il pacco" disse a Clara improvvisamente "scusa devo correre alla Posta e prima devo andare al supermercato a prenderle due chili di caffè, vuole quello nostro e poi la faccio risparmiare quando posso." E scappò via sulla scia odorosa del bar, lasciando le monete sul ripiano del tavolino e avvertendo sulla nuca la delusione dell’amica.  Alla Posta, mentre faceva la coda spostando il peso del corpo da un piede all’altro, maledicendosi per avere messo scarpe con i tacchi, le arrivò la telefonata della madre. Ci mancava solo lei, la madre con le sue fisime e la sua allegria che non otteneva altro che aumentare l’irritazione che le covava dentro. " Sì mamma sono io, sì mamma sono fuori, no mamma non sono ancora rientrata e sì mamma sono stanca, certo mamma vai pure alla tua lezione di tango, sì mamma hai bisogno di svagarti."  La coda si era dissipata assieme alla voce della madre e ora l’impiegato tamburellava sul banco e la fissava annoiato, "allora signora siamo pronti?" le stava dicendo e il tono non era dei più gentili. Angelica ebbe una fiammata alle guance e  un pugno allo stomaco, stava per urlargli in faccia, "ma tu lo sai, brutto stronzo, che io ho un’amica con i leggings leopardati e due ruote di bicicletta alle orecchie ed è anche più vecchia di me di un anno e lo sai che mia madre va a lezione di tango e mi telefona per avere il mio consenso? E lo sai che i piedi mi fanno un male cane e che anche io non vorrei essere qui, ma a casa mia?" Ma non gli urlò in faccia, si limitò a fare  un sospiro eloquente sul grugno dell’uomo e gli porse il pacchetto per la figlia.

Penelope era in pausa, aveva due possibilità: recarsi nel vicino fish&chips e intossicarsi il fegato; oppure decidere per la maratona e andare nel piccolo pub più distante e   risolvere il lunch con un muffin o anche due, erano proprio buoni, e con un caffè lungo, non esattamente il massimo che una siciliana potesse desiderare, ma sempre caffè era. E di certo il fegato avrebbe ringraziato. Lungo la strada un cartellone di taglia extra-large attirò la sua attenzione: accattivante, il barattolo del caffè italiano le sorrideva. Un groppo alla gola, un rigurgito di nostalgia lancinante e stornò lo sguardo. Il pub era affollato, non c’era posto a sedere ai tavolini e alla fine, dopo un’infruttuosa ricerca, si appollaiò sullo sgabello lasciato libero da una ragazza stracarica di pacchetti e forse anche di birra. Dal mug il vapore s’inerpicava su per le pareti tappezzate di quadri, doveva esserci la mostra di qualche pittore in attesa di celebrità, e Penelope si abbandonò alla meditazione. Lo definiva ormai così  quel breve lasso di tempo tutto per sé, uno spazio vuoto e ovattato dove rifugiarsi tra una corsa e l’altra, dopo quasi quattro ore di PC che le aveva gonfiato gli occhi, le pareva di avere due palline da golf nelle orbite, dopo decine di telefonate a clienti papabili e non, dopo le sporadiche osservazioni di qualche collega di umore nero come quel caffè che mollemente beveva. Alla fine, non c’erano residui in quella tazza lunga e stretta, non c’erano fondi da leggere. Carlotta sì, lei sapeva leggerli i fondi del caffè, quante volte lo avevano fatto, sedute insieme al tavolo di un bar della loro città. E ogni tanto aveva indovinato il futuro, Penelope non sapeva come avesse fatto ed era certa che neanche Carlotta lo sapesse, ma ci aveva azzeccato. Chissà cosa le avrebbe detto adesso, chissà cosa avrebbe letto in quelle strie appena accennate che giacevano sul fondo del mug. Probabilmente, niente. Non avrebbe visto nessuna novità in arrivo per lei, nessun principe azzurro, nessuna vincita milionaria, nessun lavoro che la ripagasse degli anni spesi all’università. "Dio, come sono tragica oggi. Sarà perché è lunedì e ho tutta la settimana davanti e un mare di lavoro da sbrigare. Sarà per questo."  Finse di non sentire il naso che le si otturava e gli occhi che si annacquavano, tirò fuori un Kleenex e si soffiò il naso, poi pagò e uscì dal pub. Fuori pioveva, aprì l’ombrello e si diresse con il suo passo da maratoneta verso l’ufficio.    

Finalmente a casa, silenzio e aria che sapeva ancora di notte.  Angelica spalancò le finestre, infilò i guanti di gomma, dopo aver lanciato, con una perfetta parabola, le odiate scarpe in camera da letto, e cominciò a riordinare. Il bagno, uno scenario di guerra in cui le altre due sue figlie si muovevano sapientemente; la cucina ancora meglio, se è possibile definire il meglio briciole che fanno cric croc sotto le piante dei piedi e le tazze del latte vischiose di marmellata, abbandonate sul tavolo. Isotta le si strusciava alle caviglie, miagolando seducente e affamata, già affamata, aveva dimenticato di riempire la ciotola con i croccantini di pollo, "scusami piccola adesso la mamma ti dà la pappa, ecco mangia."  Isotta sembra ridere mentre sgranocchia, pensò Angelica e le arruffò il pelo lungo e morbido.  Tirò fuori l’insalata e la carne, apparecchiò per tre con la  flebile speranza che le ragazze non si presentassero con il solito ospite dell’ultimo minuto, poi pose la piastra sul fornello. Carne ai ferri o meglio paillard di vitello con contorno di erbette miste, voilà la cena è servita.
Le restava un’ora prima che arrivassero, bene. Mise su la moka, accese il PC e si lasciò cadere sulla sedia davanti allo schermo brillante, in attesa di vedere la figlia.

Penelope era rientrata, la casa risuonava di musica sparata a palla e di risate. "Cavolo, ci sono tutti" e passando veloce per la living room, fece un saluto generale. La coinquilina spagnola le gridò dietro che c’era posta per lei, il pacco della mamma, pensò, ma no è troppo presto. Tornò indietro e si fece consegnare la busta gialla con sopra il suo nome, no era da parte del  Town Council, qualche pratica da sbrigare, una rottura in più. La coinquilina spagnola la guardava curiosa, un po’ impicciona lo era, però era anche servizievole a modo suo e Penelope a volte la ricambiava con occhiate che neanche Cerbero avrebbe azzardato.  La gratificò di un movimento delle labbra, un misto di grazie e di un sorriso, il minimo sindacale, di più non poteva dopo una giornata di lavoro come quella che aveva avuta. L’altro coinquilino, stavolta italiano come lei, le chiese se dopo cena le andava una birra da qualche parte, "Una birra? Di lunedì? No, no grazie, domani mi aspetta un’altra giornata infernale."  Poverino, si era preso una mezza cotta per lei, le ronzava sempre attorno quando erano a casa insieme, cercava di compiacerla e, ogni tanto, le portava anche qualche regalino. Era un ragazzo timido e ancora non si era bene ambientato, era arrivato a Londra catapultato più dal destino che dalla propria volontà. D’altronde se l’era cercata quella fortuna, quando aveva inoltrato la domanda per quel master all’estero e, senza che lui ci contasse, lo avevano chiamato. A Penelope faceva simpatia, un miscuglio di affetto da sorella e da amica maggiore, ma non era il suo tipo. E poi, niente relazioni sentimentali, non voleva casini di quel genere, per ora almeno. Gli diede un buffetto sulla guancia per farsi perdonare," potremmo vedere insieme un film, che ne dici? Non appena avremo finito di cenare e dopo che avrò parlato su skype con mia madre."  Il coinquilino timido si irradiò come una lampadina a incandescenza, divenne luminoso subito, "sì benissimo, ne ho scaricati due o tre straordinari, vedrai, preferisci il genere commedia d’amore," s’illuminò di più se possibile, "oppure qualcosa di più impegnato, non so, di più intellettuale?" e si afflosciò un tantino nel dirlo. Penelope voleva dirgli, non me ne frega niente, fai tu, ma si intenerì e gli gridò uscendo dalla living, "una commedia amorosa mi va bene!" Si sarebbe immersa nel rosa per quella sera, colore che non le era per niente congeniale.  In cucina caricò la moka colorata, la pose sul fornello, preparò la tazzina con i gufi disegnati e lo zucchero di canna, poi si tolse le scarpe con i tacchi, la giacca nera, arrotolò le maniche della camicia e accese il PC.

Lo schermo è pieno della loro immagine adesso, Penelope a Londra vede la madre e viceversa. Si sorridono sfinite, gli occhi eternamente luccicanti quando si parlano. Accanto a loro una spirale si avvolge salendo verso il cielo, proviene dalla  tazzina con l’ultimo caffè della giornata, nero e morbido. Il più buono.




Giugno 2012 

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