martedì 17 novembre 2020

Confronti

 


Confronti novembre 2020

I confronti non si adeguano, non appartengono
all’amore
perché pretendono una mancanza da una parte
o dall’altra
Incoraggiano l’amarezza delle labbra
la rigidità dei sorrisi
la fissità degli occhi traccia un filo d’acciaio
che si attorciglia.
Nei confronti si schierano gli amori
diventano soldati
armati alla pari ma uno vince sempre
 e l’altro è il soccombente

Io ti amo di più  lo abbiamo detto tutti

mentre il cielo incredulo
cadeva a pezzi sulle nostre teste.
Il confronto nell’amore c’è ed è lacerazione
di un altro tempo
che non ha limiti di tenerezze di carezze
anche di sofferenze
 
-le sofferenze uniscono più che le gioie-
 
Confrontare l’amore è pesarlo
con la bilancia a due piatti del bottegaio,
era d’ottone e marmo,
 s’affosserebbe un piatto e non dal chilo in più,
 
(perché mi viene in mente la libbra di carne?
 di un cuore?)
 
Peserebbero il passo indietro, il mettersi di canto,
le lacrime improvvise?
un film e un libro che ci siamo passati a voce? 
una pazzia, un dolore,
un sacrificio che senza chiedere si è imposto?


Frida Kahlo "Le due Frida" 1939
 
 
 

mercoledì 11 novembre 2020

Meglio tacere.

 


Torno qui dopo mesi. Lo dico a me stessa prima di tutto, lo dico a me con una sorta di stupore perché non pensavo di aver voglia di scrivere qui. Come se questo spazio fosse limitato da qualcosa o a qualcuno. E so invece che sono io a dargli robusti confini. Quelli della mia incapacità nella perseveranza, della mia inguaribile indolenza.

Torno qui per tacere, per scegliere il silenzio. Quel silenzio schiacciato, umiliato dalle parole fuori dai denti, scardinato come porte dopo il sisma, sconnesso come le menti dei vecchi allettati da troppo tempo. Cosa potrei e vorrei aggiungere al superfluo? 

In questi mesi di ruggine da scrostare, di paludi abbandonate alle zanzare da guadare, tutto è stato detto, tutto è stato affermato; e tutto negato. Nessuno, nessuno ha avuto o voluto il tempo della riflessione, si è alzato il tiro, si sono sciolti gli ormeggi, scaricando la zavorra del buongusto e della ponderatezza e via alle scorribande di giudizi e critiche e approvazioni ed entusiasmi. Ognuno ha parlato per sé e per gli altri, ma anche contro sé e contro gli altri. Se mai dovessi raccontare di  questi mesi, al netto della solitudine feroce, delle vittime inermi, della paura armata di medievale falce, degli affetti dispersi nelle chat e nelle videochiamate, ne racconterei le voci, contraddittorie e spesso, troppo spesso ipocrite. 

Non mi interessano né i negazionisti, né gli esperimenti muscolari tra scienziati e politici. Non mi interessa neanche più l'utilizzo scriteriato delle notizie da parte dei media: molto più che a una realtà oggettiva che si avvicinasse maggiormente alla verità dei fatti, si è preferito il megafono dello spettacolo, quasi una drammatizzazione teatrale da grandguignol, un sopperire triste e scadente alle ribalte vuote di teatri e cabaret. E non m'importa neanche di chi si professa adempiente, ligio alle regole e se ne fa vanto - l'individuo mediamente intelligente sa quando e come proteggersi e l'individuo mediamente inserito nella società sa quando e come comportarsi con gli altri. E quelli che non si proteggono e non proteggono gli altri, non sono né intelligenti né individui socialmente accettabili. Non provo alcuna curiosità per loro, per le asserzioni in antitesi tra loro, per l'ampollosità che ne trasuda, come se dovessimo arrenderci, tutti, a una escatologia nuova e sicura.  

Mi interessano il non detto, il sottaciuto, l'intravisto. Mi interessano e mi sconfortano in pari misura il velo squarciato a metà, il sipario accostato, il buco della serratura oltre il quale c'è il bisbigliare della coscienza.

Mi interessa l'umanità offesa. Mi interessa la resurrezione possibile.  E mi interessano le parole di nuda verità, senza glorificazioni, né cori, né emozioni. Quelle che dicono che una Democrazia non sarà mai una democrazia compiuta e "grande" fin quando non sarà in grado di assicurare la salute, a tutti i cittadini. Tutti.

Per il resto, preferisco il silenzio. Meglio tacere.  


lunedì 25 maggio 2020

Dietro i vetri e non è un diario.


Ora potrei dire che ho riflettuto, che ho rovistato dentro la mia carne, affondando nel sangue che scorreva feroce e vivo nella penombra della lampada, con le scale agitate da fantasmagorie dietro i vetri della finestra affacciata sulla strada  abbandonata dai passi di uomini e donne con i cani al guinzaglio, per l’ultimo giro d’aria. Ora potrei parlare di quello che abbiamo vissuto, ma mi è ancora dolcemente doloroso, mi pare di sfiorare un ematoma pulsante verso cui tende, irrefrenabile, la mano. Non voglio stilare un diario, leggo che ne sono in procinto di edizione o almeno in speme, decine o chissà centinaia di scritti, pensieri e vite di forzata clausura. Ciascuno di noi, e siamo milioni, custodisce percezioni, sentimenti, che siano simili o no poco importa. Non ho curiosità particolari su questo. Quello che mi sollecita è il binomio, involontario, solitudine o isolamento - cambiamento.
Dunque si sbandierava, assieme ai tricolori alle finestre e ai balconi, il cambiamento. S’aggirava per la penisola uno spettro, ma era uno spettro che non incuteva timore, anzi: andavamo in brodo di giuggiole perché ci piaceva, perché no, essere migliori. O credere con una seria certezza di poterlo diventare. E quindi le piazze, sconfinati deserti e bellissime, delle nostre città, la gioiosa consapevolezza di contribuire al loro respiro; la commozione per i medici e i sanitari, l’emozione drammatica di Papa Francesco sperduto davanti al colonnato di S. Pietro.  I cori, i canti, i musicisti, gli artisti, tutti a chiedere con affettuosa premura di restare a casa. Buoni, a casa. E lo siamo stati.
Per un po’. Poi tutto è scemato, le mani hanno smesso di applaudire perché i morti non diminuivano, le bandiere sono state arrotolate, i cori si sono zittiti, gli artisti e tutti gli altri hanno cominciato a mostrare una ciclica prevedibilità e tutto è piombato nel silenzio, quello effettivo della solitudine.
Ci siamo messi, come la mia colombaccia sul ficus, a covare. Rabbia e frustrazioni, rancori, paure, attese disattese sono esplosi sui social - pleonastico dire  che questi sono ormai il termoscanner dello stato morale, politico, economico, sociale di una nazione -  e ne hanno fatto le spese alcune persone che, per un motivo o per un altro, hanno surriscaldato la minestra scotta ma sempre avvelenata della ciancia nostrana e  la ripresa gloriosa della nostrana fatwa non si è fatta attendere, a chi tocca tocca.  Fine della bontà, fine del mondial festival della fratellanza.
Quindi, se ne dovrebbe dedurre che l’isolamento ci ha danneggiati,  spiritualmente oltreché materialmente.
Parrebbe di sì, di primo acchito. Sicuramente ci ha impoveriti economicamente e sarà durissima sfangarla la vita, ma non per tutti. Questo è il primo madornale abbaglio che ci ha accecati: la crisi non è per nulla democratica,  mieterà le sue vittime tra i più fragili, falcidierà i deboli, proprio come ha fatto il virus. E come ancora lo fa, dall’altra parte del globo.  E nulla, o poco, si sa dell’Africa. Quelli che rabbrividiscono per gli sbarchi, potrebbero tirare un sospiro di sollievo. Sì, lo so, sono cattiva, mi adeguo.
Parrebbe dunque che la solitudine - oltre le torte e i dolci fatti in casa, che bello! E i libri, quanti ne abbiamo letti e la musica e i film riscoperti, ah! I vecchi film (io per prima eh) - ci abbia resi perversi, rabbiosi, pronti a sferrare l’attacco al primo disgraziato che capitasse sotto tiro. No, non è così, non lo credo. Perché la solitudine è straziante per la mancanza e fa piangere la sera, quando anche il soffio di vento dietro i vetri della finestra cessa e tutto diventa un cielo senza voci e le voci delle persone assenti ti rimbalzano nella testa e nel petto e vorresti afferrarle e quando i volti lontani si affacciano dall’etere tecnologico c’è il sobbalzo del cuore e resti a spiare ossessivamente quei tratti, i movimenti, li riconosci, li riapprendi, li leggi. Senza toccare, immobilizzi  le mani che sono rami inutili. La solitudine è chiudere il cervello all’oggi e fingersi nel futuro e immaginare, tutto quello che manca, tutti gli assenti. La solitudine è costruire il domani, con pazienza.  La solitudine è fatica, un avvolgersi in sé, una coperta da tessere per proteggersi.  Aspettando. Mi piace pensare che diventi un lavoro, un’occupazione nella quale impegnare quella parte di noi che, nel trambusto del fuori, del gomito a gomito, della pacca tra colleghi, è sempre negletta, oscurata. Uno sbilenco, schiacciato io a cui non rispondiamo perché non abbiamo tempo.
La solitudine-isolamento no, non ci ha cambiati, non tutti, forse anche pochi. E quei pochi sono quelli che, in qualche modo, l’hanno riconosciuta perché, in un altro tempo, in altre occasioni, gli è stata familiare.
Ora siamo liberi, da qualche settimana, ci siamo tolti le catene e ci ritroviamo nella palude di Lerna con l’Idra ancora pericolosamente vivo e con i nostri bisogni e paure e contorcimenti e lividi e pugni serrati ( e quanto crudele sostegno dà a questo nostro inquieto spaurito vivere, l’informazione, "il vaccino salvifico ci sarà a breve, no, tra molto, anzi mai, no ci sarà a breve ma non per tutti" gli esclusi quelli non mancano mai) . Come prima,  peggio di prima. L’incantesimo della Bella Addormentata è finito, sono stati cento anni questi due mesi, per la nostra cattiva coscienza. Mettiamola in libertà e non diamo la colpa all’isolamento, almeno non questo, non quest’ennesima ipocrisia. Siamo così e non vogliamo cambiare. L’altro è un’idea da cui prendere le distanze. E ora che ci è permesso di tornare fuori dalle nostre stanze, fisiche e ideali stanze, rientriamo con scalpitante bramosia tra la folla. Ritorniamo a essere massa, delusa e incollerita perché ulteriori incertezze, ulteriori inganni, ulteriori trappole stanno dietro l’angolo.
La solitudine era il ricovero temporaneo alle nostre afflizioni, l’oblio di noi stessi: eravamo altri, potevamo essere altro. Oggi sciamando per le vie, insofferenti alle mascherine umide di sudori già estivi, sgattaiolando bruschi di fronte a chi ci viene incontro -lo sconosciuto temuto, la minaccia incombente - entrando sospettosi nelle botteghe riaperte a fatica, li lasciamo lì, gli altri noi, quelli che siamo stati in tutte quelle ore sospese in una surreale quotidianità.  Li confiniamo nelle stanze d’ombre e parole e pensieri, come ologrammi di noi.

Edward Hopper "Early Sunday Morning" 1930






mercoledì 6 maggio 2020

Cocci.

Mi chiedo cosa ricorderò di questi giorni, mi chiedo cosa sarò io e come affronterò la vita.  Anche se non sarà poi così lunga. Non ho risposte, non ne trovo, devo rimettere al posto che gli tocca tutti i cocci. Per adesso ho solo frammenti, cocci.


Cocci.  4 maggio 2020

C’è un vaso di terracotta
smozzicato
d’ocra rotta in più punti
come la mia testa
che sta attaccata al collo
solo per rispetto del tempo
perché le resti dentro.
Sta il mio coccio tra gli altri cocci
del giardino spigoloso, arricciato
ammucchiato e croccante di foglie
sotto le suole di gomma,
le ciabatte di due mesi ai piedi
che mi impediscono di raggiungere
una strada, un sentiero, una costa.
Ho letto romanzi stravaganti
e uno magico scritto da qualche strega,
ho letto poesie  addolorate d’amore,
anche le mie parole prive di versi ho letto
distici, esametri scomposti, terzine
vacillanti per lo spavento nuovo
per il distacco rotto dalle sirene.

Ho ammazzato il desiderio, di tutto.

Ho spaccato sminuzzato le mie pene
come mandorle e nocciole
le ho amalgamate all’impasto
di ciambelle e torte infornate
perché il calore scacciasse il gelo
dalla casa e dalla vita.

Niente pensieri niente rimpianti
niente niente niente niente niente

Era il nemico da sconfiggere
il desiderio vorace e l’ansia
li allungavo con l’acqua per non
ubriacarmi di dolore nel buio
che andavo cercando, ogni sera.

Ho tenuto duro, sono stata brava
mi sono tolta le dolcezze dell’attesa.
Di un sorriso, di un abbraccio, di una fuga.

Sto qui tra i miei cocci, sbeccata
tra i ciottoli calpestati dagli uccelli
e la rosa bianca gonfia i boccioli
e l’asparago è una piuma.


Edward Hopper "Cape Cod morning" 1950


giovedì 16 aprile 2020

Della solitudine 2020

Tempo di riflessioni. E se prima lo rincorrevo, incalzandolo, trafugandolo quasi di nascosto, il tempo,  ora si è dilatato, è una voragine in cui sprofondare. Non è una poesia, ma una riflessione dunque. D'altronde le mie sono sempre e solo riflessioni, anche se scritte in modo inconsueto. Forse.


Della solitudine 16 aprile

Della solitudine si parla molto
È la condizione di questo tempo,
 un privilegio anche.
È conficcata in me ma non è il virus.
Non è uno dei sintomi perfetti
per dire che sono malata
la solitudine non fa tossire
non toglie il respiro ai polmoni
non mi fa morire di paura
se mi i cola il naso, se la fronte scotta.
Quindi non faccio paragoni,
non m’inginocchio a piangere pregando.
M’accuccio invece come un cane
battuto dal padrone e non ho però
una coda da scodinzolare.
Forse emetto un mugolio lagnoso
forse digrigno i denti nelle notti
le notti più fredde e lunghe dell’anno
eppure è già metà aprile nel nido
dei colombacci in cima all’albero.
Non per me non per queste assenze
di parole di grida di sorrisi di carezze
che non ci daremo 
per quanto tempo ancora?
Un rospo grinzoso mi irride 
e mi tremano le ossa 
e le cartilagini stridono di rabbia
perché ti ho atteso per tanti anni
senza che tu lo sapessi e ora
mi sei vietato.
Potrei scagliare al cielo pietre di fuoco
potrei non perdonare tutto il male
potrei perdermi di scatto 
in un pelago scuro.
Precipitare  nel mio stesso cuore
come mi accadde in passato.
Ma sono equa.
Sui piatti della bilancia metto l’amore
e non oscilla il peso.  
Tanto avrai tu, quanto dono
all’altra metà di me,
quella lontana e silenziosa e schiva.
Una madre non fa differenze
una madre tace ascolta
tutto comprende
anche il non bene della solitudine.
A questa resto fedele allora, per non tradire,
per non sentirmi colpevole.
Di lei accetto questa pena
amara che mi conforta:
non ho scelto, non ho sofferto meno.



Umberto Boccioni "Controluce" (Ritratto della madre) 1909






sabato 4 aprile 2020

Mutamenti

Non so pensare al dopo. Non riesco a vedere con i miei occhi sfatti che hanno contagiato la mente. Ma so che ci saranno, per me, mutamenti.  E forse per altri.

Mutamenti    4 aprile 2020

Bivacco in questo accampamento
provvisorio - mi dico -
all’equo stringente tormento.
Non ci sono spazi radure d’alberi
cespugli accoccolati nel fitto
non ci sono rivoli salvifici,
ombre di sole o di luna
nel chiuso susseguirsi di ore.
Avverto le pulsazioni più acute
le nebbie umide degli occhi
le vertigini delle assenze.
So che verranno mutamenti
-sono in cammino, sul mio sentiero
franato sconquassato eroso -
Li aspetto sulla soglia in silenzio.
Sono mutamenti tutti i morti
sono mutamenti le solitudini
sono mutamenti le scoperte
dell’amore fraterno e pure
della fiducia tradita, in sospeso.

Ma tu, tu no. Tu no.
Tu non sarai mutamento
Occhi di luce lontana.
Stai bene, ti prego, abbi cura di te.
Metti la mascherina e i guanti
che questa primavera ci regala
Afferra il tempo tra le tue mura
assecondalo, sii gentile con lui.
Abbi pazienza e frena i pensieri.
Lascia solo che volino da me
lasciane liberi uno o due
per me, ché mi basteranno
e non avere pena per me,
per il mio fiato che ti pare affanno
o per tuo padre spericolato,
non essere chioccia con noi
anche se ci fa tepore
nelle stanze, questo tuo amore.

Scavalco quel muro giallo
abbatto i palazzi col bambino inquieto
-m’inquieta il suo piangere -
attraverso il cielo che oggi
ha poca pioggia nel ventre
e  forse qualche lama di sole.
Ti arrivo senza che tu mi veda
senza che tu te ne accorga
siamo insieme, siamo vicine.
Noi non avremo mutamenti del cuore.

Ma tu abbi cura di te, ti prego.




Claude Monet "Primavera"  1886

venerdì 6 marzo 2020

Esperimento collettivo.

Il nuovo esperimento collettivo è la paura.
Rassicuranti volti dai sorrisi tirati con l'appretto ci dicono che non è così pericoloso. Però, al contempo, sganciano piccole micidiali bombe, creano cordoni, snocciolano cifre, esortano a comportamenti e a stili di vita claustrali. E le nostre menti sbattono di qua e di là come farfalle impazzite. Quasi impazienti di farla finita, che finisca in qualunque maniera e come finirà vorremmo conoscerlo. Ci spetta, è un nostro diritto.
E invece si sgrana un enorme rosario di numeri, ieri, oggi e domani. A chi tocca, tocca.
A chi tocca, tocca. E a loro, laggiù in quelle terre d'inferno è da anni e anni che la storia li ha scelti perché muoiano di fame e di guerra e se non muoiono di fame e di guerra, moriranno di mare e di freddo e di sfinimento dietro le nostre porte, sulle nostre spiagge di europei che devono fare i conti,  i nostri conti di numeri, di borse vacillanti e anche di persone - gli anziani più malandati, come crudelmente enunciano - che muoiono e di altre che si ammalano e aspettano e pregano che le strutture sanitarie non cedano.
In questo luogo surreale, metafisico, di notizie contraddittorie, di detto e di taciuto, di incoerenze, annaspiamo alla ricerca di qualcosa, il vaccino che è un'ipotesi suggestiva, o di qualcuno, i virologi, gli scienziati e dietro di loro, i governi che dovrebbero indirizzarci. E dietro ancora quell'ombra che, implacabile, da alcuni anni abbiamo imparato a temere pur non sapendone nulla o poco, l'economia, la macroeconomia, gli affari, i salti tripli, le manovre sommerse, gli accordi, i capitali. Ombre per noi, poveri viandanti di questo pianeta, per noi che tremiamo aspettando e sperando che non ci tocchi.
Due frasi, negli ultimi giorni, mi hanno colpita.
La prima l'ho ascoltata durante una trasmissione dal prof. Franco Cardini (parlava delle "pestilenze" nel corso dei secoli) e diceva che oggi abbiamo qualcosa in meno rispetto ai secoli passati: non c'è Dio.
La seconda mi è stata suggerita in una conversazione ricca di umori e sensibilità alterne, da una carissima amica: "Come una nemesi".
Νέμεσις, nel mondo greco era una divinità di Giustizia che portava l'equilibrio sociale e politico. Il termine poi assunse altri significati, quali 'castigo'  'vendetta'. E forse non essendo riuscita ad ottenere dagli uomini quell'equilibrio, si è tramutata davvero in una sorta di espiazione, questo nostro vivere folle e disumano.
Che Dio manchi? Non lo so. Ma se c'è, noi uomini non lo scorgiamo perché siamo divenuti ciechi e sordi, fogli fruscianti ci ricoprono. Abbiamo eretto e continuiamo a erigere recinzioni e cortine fumogene per non vedere gli altri, per tenere lontana da noi la disperazione. Abbiamo creato gli invisibili per non vederli e siamo divenuti noi stessi invisibili al Cielo.
E ora, ora brancoliamo, barcolliamo ubriachi di dubbi e di paure, inseguiti dalle più recenti notizie.



Vincent van Gogh  "Campo di grano con volo di corvi" 1890



domenica 16 febbraio 2020

Febbraio 2020

Il tempo assume forme diverse. Ha volti e corpi, ha parole e gesti. Si riempie e si dilata. E di nuovo, si restringe e si focalizza. In quello che più amiamo.




Febbraio 2020

Non ho tempo a febbraio.
È corto mi dice
la cantilena.
Sfoglio giorni
vengono via come veli
di croissant
Corro di casa in casa
da un sorriso
a un altro
assaporo latte e testoline
di piume
Annaspo, oscillo, m’aggrappo
alla lontananza
di una voce
Faccio voli e salti
come una trapezista
nel mio circo e lo chapiteau
è sempre un cielo
diverso.
Curo con gli occhi i miei fiori
le mani sono impegnate,
incito l’erica
a non incartapecorire,
la rosa bianca a non muffire.
La gatta mi sollecita a seguirla
stesa al sole
tra i panni stesi.
Arriccia gli occhi annusa l’aria
annusa me,
ho altri odori addosso.
Il libro è dimenticato
sulla poltrona a prendere polvere
e peli rossicci
e silenzio.
Non ho tempo a febbraio
Non ne avrò nei mesi
che verranno.
Però vivo, adesso vivo.
Nelle mani mi restano
Profumi antichi e molecole
di tenerezza
Sono imburrate tortiere
le mie mani
a febbraio
E che ne dici della testa?
Affonda, affonda, affonda
ma è negli occhi
che affonda
è nelle fughe
che affonda
è nell’attesa
che affonda
In queste notti di febbraio.

Marc Chagall "L'acrobata" 1914

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