martedì 29 luglio 2014

Immutabili detriti.

Sto leggendo un libro di Julian Barnes, "Il senso di una fine" è il titolo. Procedo lentamente, correggo i refusi di un mio libro al quale tengo molto; mi spremo le meningi per scriverne un altro (per ragazzine) che mi è stato commissionato; vivo la mia vita di donna che ha ancora dei "doveri" da assolvere. Ma procedo a passo di lumaca nella lettura anche perché torno spesso indietro, ficco la testa e il cuore nelle parole di questo scrittore inglese e mi sembrano talmente conosciute, sperimentate, da lasciarmi sbalordita. Come senza fiato.
Il tempo che scorre più velocemente di quanto vorremmo quando si è giunti al traguardo della "certa età"; l'inesorabilità dell'approssimarsi della fine, non solo fisica, ma spirituale. Il crollo dei desideri e delle attese; l'attaccarsi ossessivamente alle abitudini; il reiterarsi di situazioni, nelle stagioni che si rincorrono. E sullo sfondo i ricordi di quello che abbiamo fin qui vissuto, la memoria dolente e gioiosa di ogni affanno e di ogni felicità goduta. Il rimpianto delle occasioni smarrite lungo il cammino che si fa a volte struggente; il rimorso verso chi non siamo stati in grado di amare abbastanza o, semplicemente, di aiutare. Il rimorso verso noi stessi per non essere stati altro se non quello che rimane di noi nel riflesso di uno specchio, negli sguardi di chi ci è vicino ancora.
Leggendo queste pagine, mi accorgo che anche l'estate ha imboccato la via del non ritorno. Un'altra che se ne andrà,  portando con sé un bagaglio vuoto, poco caldo ( Fortuna ha voluto che sia mite), zanzare,  la consueta fiacchezza. Lascerà una micetta color cipria e tutte le incertezze di prima.
Niente di diverso, in fondo. Tutto si ripete, il tempo scorre rapido, ma ogni cosa resta inerte nel posto in cui, ordinata mente, si era collocata. No, Eraclito si sbagliava: Solo il tempo scorre e tutto resta, come immutabili detriti.

giovedì 24 luglio 2014

Siamo stati tutto e il contrario di tutto.

Non ho niente di nuovo da scrivere. Sono inchiodata da quegli occhi neri di bambini; sono inferocita con gli uomini che governano questo pianeta morente; sono arrabbiata con me stessa perché non ho la possibilità di agire. Se non sottoscrivendo petizioni, lanciando appelli. Come fossero aquiloni, nella speranza che volino in alto, lontano fino a raggiungere l'Imperscrutabile, l'Inconoscibile. Se esiste.Mi sono concessa di rivedere un film che amo moltissimo, "Le invasioni barbariche" film canadese di circa dieci anni fa (forse un poco meno) e mi piace riportare un momento fondamentale per carpirne il senso e, anche, per innamorarsene, come è capitato a me.
"Siamo stati tutto e il contrario di tutto".
Vero, e oggi siamo ancora qualcosa, possiamo definirci con un'identità?




lunedì 14 luglio 2014

I bambini di Gaza non sono ologrammi. Non ancora.

Sul finire del millennio scorso, in preda alle suggestioni dolorose dei recenti conflitti nel Kosovo e prima ancora della guerra del Kuwait, avevo scritto brevi frasi su quel mio sentire di allora. Sono trascorsi circa venti anni e la società si è trasformata in maniera talmente accelerata da togliermi il fiato e, spesso, la capacità di stare al passo con essa. Inutile soffermarsi a elencarne i dettagli, basta guardarsi intorno, dare un'occhiata alle news che i media ci scodellano quotidianamente per rendersi conto che siamo già nel futuro. Tra breve i nostri interlocutori preferiti saranno non più amici e compagni di lavoro in carne e ossa, ma i loro ologrammi. La vita si svolgerà in 3D e ognuno potrà crearsi la realtà che più gli conviene. Prosit! E va bene, quelli della mia età ne vivranno uno scorcio, il tempo di dare una sbirciatina, il tempo di scrollare la testa in segno di rassegnato sconforto e via dalla scena, le generazioni di figli e nipoti scalpitano impazientemente preparate alla sfida.
La società, globalmente, è cambiata dunque. Ma non la Storia, non la propensione dannata degli uomini a farsi guerra, a scannarsi per qualunque motivo, il più gettonato e il più subdolo sempre quello legato alla diversità di credo religioso.
Oggi come allora sono gli occhi dei bambini a darci la misura dell'orrore di un conflitto. Sono i loro sguardi neri e innocenti, ignoranti di ogni cosa fuorché della caparbia voglia di vita.
La Storia rimane ugualmente feroce, oggi come allora nell'indifferenza e nell'abitudine alla ferocia; la società cambia in una girandola vorticosa di tecnologie sempre più stranianti, avvicinando l'essere umano sempre più a un'esistenza in cui la materia diventa incorporea, diventa un'immagine del cervello da materializzare tramite un tasto.
I bambini delle guerre per il mondo, i bambini di Gaza, però, non sono ologrammi. Non ancora.

Ballando 1995
Ballando abbracciata
all’idea spezzata
come ossa di case
nei campi bruciati,
al sogno negato
dei bimbi ingannati
dal gioco mortale,
mi volgo al gran salto
al di là del duemila.
Privilegio invitante
che il tempo mi dona
senz'altra richiesta
del non ricordare.
Ballando ballando
mi reco alla festa.


mercoledì 9 luglio 2014

Alla fonte quieta.

Dai sogni di notti estive, nel ronzio di ventilatori e climatizzatori e zanzare.
Dagli incubi di albe estive, nella vibrazione di sole rosso che abbacina occhi e cervelli.
Visioni di paure notturne, singulti del cuore respirano accanto a noi, stentano a dissolversi. Sarà la luce, bianca e rovente lama, a recidere il filo di ombre.
Plachiamo la sete alla fonte quieta.

Alla fonte placo la mia sete.



E alla fonte dell’attesa placo la mia sete
metto una benda sui tuoi chiari occhi
rivolti al passato, ti porto con me 
su altri sentieri sconosciuti a te, a me.
La strada sconnessa si allunga davanti
ma io non la percorro, cieca cammino
lungo immaginari giardini al tramonto
la donna discinta giace nell’ombra.
Una falena si brucia alla luce fallace
arde contorta le ali incipriate, muta
si abbatte schiacciata da veloci passi,
corro alla fonte tra sassi scrosciante.
Immergo le mani d’argento macchiate
trascolora di rosso venoso il nitore
mi abbevero all’acqua in attesa di quiete
di spiccare il volo placata la sete.


Claude Monet   Ninfee  1920




venerdì 4 luglio 2014

Il mare negli occhi severi.

Un'isola vive di mare, respira di mare, ha dentro di sé il mare, è il mare. Il mare che la cinge da tutti i lati, cullandola nell'utero materno. La sua storia, la sua civiltà, gli abitanti sono contaminati da sempre dal mare. Chi vive sull'isola porta con sé odore salmastro; nelle retine porta impressa ogni sfumatura di verde e di blu; ha scogli di lava nel cuore e rena bianca appiccicata alla pelle;  e rocce bianche crepate dalle radici di antichi ulivi e carrubi, sferzati dal vento salato; vigneti stesi al sole rosso dell'isola, il cui nettare conserverà nelle botti una screziatura d'azzurro profumo. Tutto questo è memoria del mio mare. Di un tempo.
Ieri avevo di fronte un'adolescente dagli occhi severi e voleva conoscere il perché di tanti morti nel nostro mare, il perché esseri umani siano diventati pesci, come se fossero tonni da squarciare in una folle mattanza. A lei non importava avere spiegazioni politiche o sociali, non ieri, non ancora. A quattordici anni si ha una visione netta delle cose e lei vede solo donne e bambini annegati nel nostro mare. Non ho avuto parole, non davanti a quegli occhi severi, non avevo niente da offrirle. Qualunque mia parola sarebbe annegata nell'acqua, ingoiata anch'essa dalle onde. Voglio anche io delle risposte, le esigo. Voglio il mio mare di sempre, non deve essermi nemico, non deve essere il cimitero dei disperati. Voglio che sia fonte di vita, come è stato per l'isola sempre. Voglio rispondere a quegli occhi severi.

Spiaggia di Calamosche. SR - Sicilia

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