domenica 29 settembre 2013

I nuovi eunuchi.

Non scriverò della crisi di governo. Anche una scadente,  imbranatissima lettrice di tarocchi, sarebbe stata capace di prevederla. Lo sapevano tutti, lo sapevamo tutti e aspettavamo che passasse il prossimo tram, tanto, ci consoliamo, sono tutti uguali, sferragliano, stridono, si fermano e poi ripartono, sempre sulle stesse inamovibili rotaie. Non parlerò della crisi, perché mi dà i brividi, di disgusto, passare in rassegna fatti e volti, vorrei dimenticarli, vorrei non averli mai visti.
Parlerò invece di un giovane morto perché cantava e diceva cose che ad alcuni - e pare che non siano pochi - non piacevano. Di un giovane greco che si è trovato davanti alla signora munita di falce, forse senza aspettarla o forse no. Che se l'è trovata di fronte, travestita con gli abiti ordinari di alcuni bruti, miserabili bruti, e perdonatemi, senza le palle. Sì, perché chi uccide così è senza le palle, quelle tanto decantate da loro, maschi forti e sicuri, campioni della virilità, portatori dell'eroico coraggio greco. E il pensiero va ai gentili eunuchi delle favole d'oriente e provo vergogna per l'accostamento, ma quelli e tanti altri avevano e hanno altri attributi, hanno cervello e cuore; hanno il coraggio della ragione e della parola. Questi sono solo bruti, esseri informi e infimi.
Sono stati arrestati, dicono, il loro leader è in carcere. Bene. Ma quanti ancora verranno a prendere il loro posto? Quanti ascolteranno la voce turpe della violenza e della vigliaccheria? In fondo, sarebbe sufficiente forse, ai giovani, indicare la vita e non la morte. E questo vale per tutti, non solo per i fratelli greci.

Donne di Algeri nei loro appartamenti     Eugéne Delacroix

giovedì 26 settembre 2013

L'incubo

Stanotte ho avuto un incubo. Mi trovavo in una grande sala, anzi era enorme, non riuscivo a scorgerne i confini, ma le pareti sì ed erano tutte tappezzate di quadri, dipinti indistinti, non potevo vedere i soggetti raffigurati, erano migliaia. Io me ne stavo immobile in un angolo ed ero con gli occhi bendati però vedevo ugualmente. Dal fondo della sala, lontano da me, si accalcavano persone, una moltitudine e vociavano, urlavano, ma non capivo cosa dicessero. Poi, all'improvviso,  i dipinti dalle pareti iniziavano a volare per la sala, li seguivo con gli occhi bendati e si ammonticchiavano ai piedi della ressa urlante. Io ero preda di un terrore impotente, sempre immobile. Ora ero in una piazza, anch'essa smisurata e non avevo più la benda sugli occhi e c'era sempre moltissima gente e parlava lingue diverse, sconosciute, un ronzare di api nel cervello, e osservavo con chiarezza quello che mi circondava. Una sensazione di gioia mi afferrò, ero in luoghi noti e amati, non più straniera, scorgevo il Colosseo e accanto la Basilica di S.Marco e Palazzo Vecchio e Fontana di Trevi e, come cartoline sovrapposte, i luoghi belli della mia terra. "Sono a casa", mi dicevo, "sono a casa", quand'ecco che da un cono d'ombra si fa avanti una figura e dietro un'altra e poi un'altra  ancora e iniziano ridendo allegramente ad afferrare con arti simili a zampe, tutte quelle bellezze. Io allora, grido, almeno sono certa di gridare, ma non sento la mia voce, però continuo e tento di scagliarmi contro quegli esseri, ma resto incollata alla pietra nera della piazza. Vanno via sciamando e mi giunge l'eco delle loro risate, che mi incute un'angoscia mai provata. Nel fuggire, uno di questi mi sfiora e mi guarda in fondo, mi succhia l'anima, ha grossi denti come Dracula di Bram Stoker.  Mi sveglio e penso di avere gridato, ma la notte è così silenziosa e del mio grido non c'è traccia. Mi alzo e corro fuori sul terrazzo, c'è la luna che illumina la città. E le cupole della città si stagliano nere contro l'azzurro cupo, sono ancora qui.
Mentre preparo il caffè, ripenso al mio incubo e so cosa significa.
E provo un odio profondo per quelli che hanno permesso il saccheggio di questa mia Italia infelice.


Il vampiro  Edvard Munch

martedì 24 settembre 2013

Un lembo d'acqua separa la Sicilia.

ESSERE BLOGGER IN SICILIA/ PUNTATA 39INTERVISTE DA 1 A 30

«Un lembo d'acqua separa Sicilia
e Penisola: il web può cancellarlo»

Agata Amantia, autrice di «Riflessioni tra me et moi»

Agata AmantiaAgata Amantia
Essere blogger in Sicilia. In questa rubrica proviamo a setacciare i protagonisti del fiorito Hyde Park della rete, con il pulpito, cioè la tastiera del pc sull’isola e la testa nel mondo.

Puntata 39, è la volta di Agata Amantia, curatrice di Riflessioni tra me et moi..

Segnalate i vostri blog aredaweb@corrieredelmezzogiorno.it
Di cosa parla il tuo blog?
«Della vita in ogni sua sfaccettatura, di delusioni e speranze, di attese e di rinunce, ogni tanto anche di amore, ma in senso lato, capisci ho una certa età, e poi in fondo l’amore c’entra sempre, ci sta sempre accanto, assumendo gli aspetti più inconsueti anche. Confesso una particolare inclinazione per la politica, quella è una vecchia passione che non vuole morire, anche se fanno di tutto per farla morire. E poi divago, mi lascio prendere dai ricordi, vado a ritroso nel tempo. La memoria è importante, un individuo che non ha ricordi o, meglio, che non vuole averne, è una persona incompiuta, senza qualità; così come un popolo che non ha memoria o non vuole averne, è un popolo senza qualità».

Da quanto tempo è attivo?
«Ho iniziato a essere una blogger, per gioco. Nel gennaio del 2013, recentemente quindi. Era un periodo particolare della mia vita, di rinnovata solitudine. I miei figli erano andati via, uno convive felicemente, l’altra a Londra in cerca di un futuro. E io mi ritrovavo improvvisamente sola e libera. Il blog mi ha dato una mano a riempire i vuoti che si erano creati».


Hai 67 anni ma fai più di un “nativo digitale”: blog, facebook, twitter, google plus etc. Meriti e demeriti del “mondo social”.
«Ho avuto un’ottima maestra e ora mi arrangio perché ho deciso di farlo e così clicco e navigo e corro su e giù, faccio del moto in un certo senso. Lo consigliano i medici no? Ma no, a parte il divertimento che mi procura, trovo che il mondo social possa anche arricchire, darci qualcosa che prima ci mancava. Io ho ritrovato amici che non frequentavo più da oltre trent’anni e ne ho incontrati altri. Molti sono scettici e addirittura contrari all’uso dei social, pensano che si possa venire a creare una sorta di schizofrenia tra realtà tangibile, concreta e realtà virtuale, inafferrabile ed effimera. Io non lo credo, mi sembra un’asserzione abbondantemente priva di consistenza se riferita a un pubblico di utenti adulti. Sono un po’ più severa per quanto riguarda l’utilizzo dei social da parte dei giovanissimi, in particolare da parte dei bambini, non credo sia un bene, o almeno dovrebbero essere assistiti sempre da un adulto».


Facebook potrebbe fornire alla polizia dati sensibili e algoritmi, anzi già lo fa negli Usa, per prevenire reati. Sei d’accordo?
“Se penso a quello che ho detto prima, ai bambini e ai pericoli a cui possono andare incontro, mi viene da rispondere di sì, sarei d’accordo. Però ho sempre odiato ogni forma di censura, ogni forma di controllo imposto, non lo so, devo rifletterci”.
Eva RiccobonoEva Riccobono
In un’intervista a Vanity Fair Eva Riccobono ha detto che della sua Sicilia non ama la mentalità mafiosa, il familismo e i soprusi. Immediate le polemiche anche di esponenti politici come Simona Vicari che ha ribattuto: “Da una palermitana non me l'aspettavo proprio, ha la puzza sotto il naso come Carla Bruni”. Insomma i panni sporchi si lavano in famiglia o per cambiare le cose è bene anche denunciare le criticità?
“Perché non accettare le critiche? Non rientra nel mio modo di pormi nei confronti degli altri. Io ho il diritto di criticare qualcuno o qualcosa, se lo ritengo giusto e se mi attengo alle regole etiche della critica; e devo, altresì, accettare le critiche, laddove esse siano animate dalla volontà di capire, dalla coscienza morale. Io sono molto critica, anzi sono durissima, nei confronti di un certo modo di essere siciliani. Già in queste due parole sta l’errore primario, secondo me. Cosa significa “essere siciliani”? Cosa è questa benedetta-maledetta sicilianità? Forse che l’essere “isola” ci rende diversi dagli altri? No, io vorrei che fossimo non siciliani, ma metropolitani, cittadini del mondo, partecipi della grande avventura che il Pianeta vive, dentro il Pianeta, conficcati in esso. E dovrebbe essere anche facile, in fin dei conti, la Sicilia è una terra spaventosamente bella e spaventosamente disastrata, siamo carichi di storia, di arte, di cultura, ne portiamo i segni nelle nostre città, ne portiamo le tracce nell’aspetto fisico”.


Uno massimo due aggettivi per ognuno di questi nomi:

Roberto Saviano: “Malinconico”
Rosario Crocetta: “Deludente”
Emma Dante: “Coraggiosa”
Franco Battiato: “Para-mistico”



«Un posto al sole: relax e mente sgombra»«Un posto al sole: relax e mente sgombra»
Nome, età , di dove sei, che lavoro fai, cosa leggi e cosa guardi in tv.
“Agata Amantia, 67 anni, nata a Catania, dove vivo. Dopo una breve esperienza giovanile nel teatro, mi sono sposata e ho fatto per molti anni la mamma. Ma senza mai smettere di scrivere, partecipando a concorsi con poesie e racconti. Poi nel 2008 ho iniziato la stesura del mio primo romanzo “Un gioco tra sorelle” che nel 2011 è stato pubblicato. Attualmente sto scrivendo il mio terzo libro – il secondo è in viaggio per concorsi ed editori – e dopo ho in mente un progetto intrigante, una cosa a quattro mani e a due teste. Ma non dico altro per scaramanzia e anche perché è ancora allo stato embrionale. Cosa leggo? Oltre Saramago, mio grande amore, ci sono Virginia Woolf e Marguerite Yourcenar, le adoro. Poi, Philip Roth e Mc Ewan e ancora Richler e la Atwood. Per un certo periodo, ricordo che mi ero impantanata con gli autori mittleuropei, da Joseph Roth, a Kundera e Marai, ho saccheggiato un’intera collana Adelphi; i grandi classici dell’800 confesso che alcuni non li rileggerei, mi annoiano. Attualmente sto leggendo un libro di Carofiglio e il prossimo sarà Betty di Cotroneo. Due programmi fissi in TV: il tg delle 20 di LA7 e subito dopo zapping su Rai3 a bearmi con “Un posto al sole” relax assicurato e mente sgombra. Ogni tanto un film da vedere o rivedere e nient’altro. I talk politici solo se mancano di urlatori e cafoni e lavandaie, eccezione fatta per Report e Presadiretta, ma questi non sono talkshow. Ah, dimenticavo, anche “Che tempo che fa”, quando però il buon Fazio non assume troppo l’aria da primo della classe”.


Studi.
“Maturità classica e poi Lettere Antiche. Ma niente alloro, perché dopo qualche anno
ho lasciato. Avevo incontrato, folgorata come Paolo di Tarso, il Teatro! E lavoravo pure, perché ne avevo la necessità, dovevo contribuire al budget familiare. Insomma, come si dice, feci il botto, non avrei potuto resistere oltre, lavoro, università, teatro, Troppo, decisamente troppo”.



L’aforisma che citi più spesso? 
“Non cito mai aforismi, non mi piacciono. Hanno un odore tombale, da epitaffio”.


Che significa essere blogger al Sud?
“Per me non c’è nessun sud e nessun nord, sono solo delle coordinate geografiche. C’è il mondo, un mondo intero e basta. Prova ne sia che i miei lettori si trovano in USA come in Russia, in Indonesia come in Sudafrica. Almeno così è in teoria. Nella realtà delle cose, credo che sia diverso essere blogger a Milano o a Bologna che in Sicilia. Pensa alle differenti opportunità che, soprattutto una giovane scrittrice, avrebbe. Una persona a me molto cara e amante della scrittura come me, dice sempre che la Sicilia è separata dalla penisola per via di un lembo d’acqua, uno specchio di mare che la tiene lontana solo di pochissimo, eppure, dice, quel lembo è sufficiente per annegarci dentro. Chi nasce qui deva faticare di più per emergere, il web può darci una mano, corre attraverso lo spazio, cavalca i marosi, getta un ideale ponte tra rive distanti. Mi affascina pensare che il blog sia un aquilone che vola e io volo con lui”.


domenica 22 settembre 2013

Ricordando M.

Sono molto impegnata in un progetto stravagante, e vi assicuro che, per come sono fatta io lo è davvero. Oggi perciò non parlerò di politica, né di problemi che affliggono l'umanità, di domenica poi sarebbe come togliere il dessert dalla bocca dei golosi, né di frivolezze, se mai ho scritto di frivolezze.
Mi sono imbattuta casualmente in un post che ritraeva, con annessa citazione, uno dei miei grandi amori letterari, di cui non farò il nome, Mi piace tenere il segreto, un segreto che mi è caro quanto quel nome che mi ha svelato chi sono, almeno in parte. Qui di seguito, condivido una breve nota che ho scritto oltre venti anni fa in memoria di questo mio amore. Una piccola indicazione c'è e chi legge dovrebbe capire. Un gioco, un gioco pieno di affetto e gratitudine ricordando M.

I libri di M.
A occhi aperti
ti aspetterò anche io
solenne amica
e amerò vederti
giungere carica
di doni e sorrisi
bella come nella
foto che ti ritrae
fanciulla del nord.
Ti verrò incontro
con i miei errori
amori dolori della
mia sciocca vita
sprecata al contrario.
Porterò i tuoi libri
stretti sul cuore
testimoni al passaggio.







martedì 17 settembre 2013

Voglio un garofano rosso.

Ieri sera mi sono imbattuta in un programma di qualità, extra anche. Imbattuta è un modo di dire, in realtà ho premuto quel tasto del telecomando perché era quello che volevo. Finalmente una televisione al servizio del pubblico, finalmente davvero, dopo mesi e mesi di schifezze ammannite a noi poveri fessi guardoni, come informazione che fa la differenza. Sì, la differenza tra spazzatura e spazzatura, una perfetta educazione alla raccolta dei rifiuti. Ieri no, ieri Riccardo Iacona a Presa Diretta ha dato una lezione di stile, di professionalità e di cultura politica e sociale (quella vera, quella che insegna qualcosa di concreto) come purtroppo raramente avviene in TV. Niente urla tra ospiti politici di mezza tacca o giornalisti compiacenti o con le vene fuori dal collo, anzi niente ospiti. Solo la gente, quelli come noi, sì noi comuni mortali, europei senza più l’idea di cosa sia l’Europa, greci, italiani, portoghesi, francesi per le strade del vecchio continente, come in un grande romanzo d’altri tempi, come in un film corale, persi tra la folla in coda agli uffici di collocamento (i moderni job center); stanchi e arrabbiati con la propria pancia vuota in coda alla Caritas o in qualunque altro luogo dove ci sia del cibo da avere; ancora arrabbiati nelle piazze, davanti alle fabbriche chiuse, davanti ai luoghi dove si pensa vengano decise le sorti di non una generazione, ma di due, tre generazioni. I vecchi pensionati accanto ai padri disperati senza lavoro, la ragazza appena laureata accanto alla donna delle pulizie che nessuno vuole più, l’architetto in fuga verso l’Africa, che forse è meglio dell’Europa dice, vicino all’operaio specializzato che ha perduto tutto. Volti che si susseguono e che mi procurano un vertiginoso malessere, una morsa allo stomaco di paura e di collera repressa, a me comodamente seduta sul divano di casa, ancora almeno. E penso, non sarà così per i miei figli, non sarà così per i nostri ragazzi greci, italiani, spagnoli, portoghesi, francesi. E già. Perché è dell’Europa del Sud che qui si sta parlando, un illustre, quanto da me sconosciuto, economista tedesco ci chiama così, europei del sud, e nelle cose che dice c’è del vero. In mezzo alle facce dei giovani e dei vecchi, ogni tanto si affaccia il viso più rilassato anche se contrito per via della serietà del tema, di qualche politologo, di qualche studioso di economia, tutti concordi nel suggerire una identica via d’uscita dal cul de sac dell’austerity imposta e imposta ai ceti più deboli.
Non mi dilungo oltre, mi piacerebbe che chi non lo avesse visto, andasse a dargli una sbirciata.
Solo, permettetemi, un ricordo personale. Tre anni fa sono andata in Portogallo, un viaggio da turista sulle tracce di Pessoa e Saramago. Lo spirito che mi animava era lungi dall’essere quello di chi voleva rendersi conto di quanti soldi avessero in tasca i portoghesi, avevo poesia e libri per la testa, ma fui ugualmente colpita dall’abbandono in cui versavano interi rioni di Lisbona e soprattutto di Porto. Per la prima volta mi accorgevo che per le vie centrali c’erano vecchi, ed erano portoghesi, che vivevano per strada, in mezzo a cartoni e sacchetti di plastica contenenti forse le memorie di un’altra vita. Ne fui stupita e addolorata, il mio viaggio assunse, di colpo, un significato diverso e, nel contempo, mi reputavo fortunata, da noi pensavo, è diverso.
Ieri guardavo i volti dei portoghesi, guardavo i cortei e ascoltavo le loro canzoni, quelle che cantavano quando ebbero la libertà dalla dittatura di Salazar nel 1974 e ascoltavo una donna della mia età che diceva, offrendo un garofano all’occhio della telecamera,  che è tempo di riprendere i garofani in mano.

Credo che quel tempo sia venuto  anche per noi. Non mi sento più fortunata, voglio anche io il mio garofano rosso.

sabato 14 settembre 2013

Dal buco della serratura.

Ogni tanto mi viene voglia di abbandonare. Il web. Ogni tanto capita che mi vedo, proprio così, come fossi un’entità diversa da quella che sono, mi vedo seduta a sbirciare la posta e poi con un clic a saltare su twitter per conoscere le novità e ancora un clic e sono nella pagina di Google+, per arenarmi, già sfinita, sulla spiaggia affollatissima di Facebook. E qui mi ritrovo nuda, ho la spiacevole sensazione di avere dimenticato i vestiti da qualche parte. Mi aggiro tra le moltitudini di post, di foto, di link, di notizie fino allo smarrimento di me, fino a non sapere più chi sono, mi scopro capace di tutto, quasi onnipotente, protetta dallo schermo e dal mouse che mi permettono di agire indisturbata, di restare a far parte della ressa o di staccare la spina. E partecipo anche io allegramente al gioco: risucchiata nel gigantesco maelstrom del web, corro di qua e di là, acchiappo una notizia che mi pare unica quasi fosse una farfalla in via d’estinzione, ne scarto un’altra, scelgo, scarto, clicco ancora, copio e incollo, salvo; infine giudico. Nuda, sempre più nuda e non mi rendo conto dell’occhio altrettanto impietoso e impudico che mi spia. Finché una casualità o meglio la consequenzialità del mio denudarmi, mi appare lampante, brutalmente abbagliante. Eccomi, sono qui, sono quella che leggete, quella che pensate io sia, sono così, prego accomodatevi al mio desco, mangiate con me, anzi cibatevi di me, dei miei pensieri, delle mie idee, dei miei gusti letterari e artistici, fate insomma ciò che volete. Che poi vi restituisco la visita.
Penso allora a una persona a me sommamente cara che, quando decisi un anno fa di allargare il mio utilizzo del computer (fino a quel momento mi era stato utile per la posta e per scrivere), mi aveva avvertita, come fosse un monito, di capire bene a cosa stavo per andare incontro, “guarda, mi disse, che non avrai più intimità, ti metteranno a nudo e in qualche misura perderai qualcosa di te.”  Non l’ascoltai, tutta presa dall’entusiasmante, nuova avventura e mi inoltrai senza bagagli e senza armi nella foresta, allettata da cinguettii ronzii barriti ululati e ruggiti, colori, musiche che parevano essere tutte cose tanto misteriose quanto sublimi a me ignara e ignorantissima. Ora so che aveva ragione chi mi avvertì, so che è come guardare dal buco della serratura in casa d’altri. E me ne vergogno un po’, solo quel tanto che mi fa essere meno intrusiva,
 Mi dico, tenterò di essere discreta, farò dei clic quasi silenziosi, dirò “mi piace” sottovoce e solo se un post o una parola mi piacciono davvero. Mi aggirerò in punta di piedi per il web., mi dico. Ma poi, non ci riesco, sono incapace, le lusinghe della vanità sono dure da debellare. Inganno me stessa sussurrando alla dolente coscienza che, in fondo, si tratta di condivisione -  c’è pure scritto, “condividi” “retweet” - mi faccio coraggio dicendomi che è come entrare in un luogo dove è in corso una grande festa, di quelle che si vedono nei film d’oltreoceano, dove tutti si conoscono e si abbracciano e flirtano e chiacchierano. Già un ricevimento, una soirée di gala, dove gli invitati si presentano poco vestiti,  e sono quelli più morigerati. Mi verrebbe voglia di abbandonare la festa, vorrei fuggire come fossi una Cenerentola invecchiata che perderà la sua scarpetta. Poi ricordo che la scarpetta permette al principe di riavere Cenerentola e mi consolo. Alla fine, ogni favola ha un finale felice. E il web,può recuperare la mia “scarpetta di Cenerentola”, può farmi ritrovare qualcosa o qualcuno nascosto tra la folla infinita. E  sì, può farmi perdere qualcosa di me, ma può anche restituirmela.  

mercoledì 11 settembre 2013

Una spasmodica attesa

E siamo tutti in attesa. In spasmodica attesa. No, spasmodica è un aggettivo decisamente esagerato, un'iperbole dovuta a questo folle periodo, in cui tutto pare assumere coloriture iperboliche, apocalittiche, come se tutto avesse un senso escatologico. Siamo in attesa di sapere come andrà a finire il Governo, se gli sarà dato il benservito da una parte o dall'altra e via a nuove elezioni, con ancora il porcellum  che grufola allegramente; siamo in attesa di conoscere, e qui non c'è da scherzare, cosa succederà in Siria, se la proposta della Russia verrà, in qualche modo, accolta o rigettata (caso vuole che ricorra l'anniversario dell'attentato alle Torri Gemelle e chissà se questo avrà un peso); siamo in attesa -questo è però ormai un must- di osservare l'altalena delle Borse a fronte delle novità politiche, sia in casa nostra che in casa altrui o meglio ancora, nella comune casa di noi tutti poveracci umani; siamo in attesa dello spread, malefico assillo, se va su o, respiro di sollievo va giù, giù. giù. Siamo in attesa dell'autunno e dei problemi che, invariabilmente, scomparsa l'euforica smemoratezza delle ferie estive, ci troveremo ad affrontare: la scuola e l'acquisto di libri e di tutto l'occorrente, cosa che per la maggior parte delle famiglie italiane oggi costituisce un bel salasso; e c'è per tanti, la rata universitaria- a tal proposito, ieri sera ho visto un servizio che ho percepito come una scarica elettrica ( sapete, stupore e dolore ) un padre che, alle prese con i conti che non quadravano, quasi quasi si augurava, con un sorriso che sapeva di resa, che il figlio non superasse i test di ammissione alla facoltà d'ingegneria - e  non è un salasso eseguito con le sanguisughe, come un tempo, ma un prelievo fatto con un siringone da comiche del muto; l' attesa dell'IMU e dell'aumento dell'IVA ( ci saranno? non ci saranno?), un vero thriller ricco di suspence;  l'attesa faticosa che tutto possa, infine, cambiare, prima che sia troppo tardi, prima che il tempo voli, prima che l'autunno diventi un gelido inverno nelle nostre vite.
Ognuno di noi, ne sono certa, è in attesa. A volte di un figlio, a volte di un sorriso, a volte di una parola, molti ragazzi del lavoro, molti genitori del lavoro per loro e per i loro figli. Li tengo a mente, non ne conosco i volti, ma sono qua con me, nella mia testa assieme ai miei ragazzi. Come loro, in attesa che qualcosa cambi.  

lunedì 9 settembre 2013

Dal diario dell'assente.

"Sentimenti contraddittori, due anime che si scontrano dentro di me. Una discrasia che prende corpo soprattutto di notte, con l'estenuante insonnia che mi possiede, senza tregua. Sensazioni di vacuità, una vertigine di angoscia nel buco oscuro della mente, la consapevolezza, mentre osservo la chiusura del cielo sulle scarne stelle, della inutilità di ogni affanno, di ogni dolore e insieme di ogni gioia rubata.
Sempre quella voglia di scappare dal presente, furtiva e vergognosa voglia di abbandono degli altri e di me stessa. Per andare dove, non lo so e non importa. Poi, il respiro del sonno atteso e la luce del nuovo giorno che mi oltraggia. Lascio tutto alla notte appena trascorsa, troverò tra le pieghe del cuscino ciò che ho vissuto."
Leggo questo diario che mi è stato affidato (non è necessario sapere da chi, non sarebbe necessario neanche per me) e le circostanze che hanno fatto sì che lo avessi io mi appaiono più chiare.
Forse perché conosco la sua storia di eterna assente.

sabato 7 settembre 2013

Alchimie.

Un crogiolo che scoppietta, che lancia bolle incandescenti, ma non ci saranno pepite di oro sul fondo. L’alchimista ha sbagliato formula e nel crogiolo rimarranno pezzi di roccia friabile, pomice per grattare via altre scorie.

Gli alchimisti del G20 hanno sbagliato le formule, continuano imperterriti a sbagliare. Se ne stanno lì riuniti, si scambiano opinioni (su cosa? Sul futuro dell’umanità? Sul progresso?), sorridono, si accigliano, si concedono ai giornalisti per declamare le loro convinzioni o i non risultati raggiunti, si mettono in posa per i fotografi che li immortalano da anni, sempre uguali, sempre col sorriso d’obbligo incollato in faccia, a mascherare la noia e forse l’imbarazzo di qualcuno che ancora lo prova, sempre gli stessi anche se i nomi cambiano, ogni tanto c’è una new entry, ma non se ne accorge nessuno, fissi nei ruoli che si sono assegnati da anni. E intanto il mondo frana sulle loro parole, le guerre (le più gettonate e le altre decine di cui si fa finta di non sapere) impazzano, i morti si calpestano come fossero oggetti necessari all’ordine del pianeta. Quando ascolto dalla voce più o meno soddisfatta di un inviato che i potenti della Terra si sono espressi con discreta fiducia sulle sorti economiche degli Stati, sulla ripresa dopo la crisi, “timida” ma c’è, soprattutto quando parlano della finanza mondiale, ho un rigurgito di nausea, devo letteralmente portare la mano alla bocca. Impalati, impettiti, si scrutano con occhio gelido, diffidando l’uno dell’altro. Gelidi, con menti e cuori di ghiaccio, determinano le sorti delle nostre vite. E allora, quando ascolto l’appassionato di turno, politico, sociologo, giornalista o uomo della strada (me compresa) che parla di diritti umani, di dignità calpestata, di equità sociale, di Pace!, provo lo stesso rigurgito. Di nausea e di rabbia.

Pieter Bruegel  L'alchimista, incisione.

mercoledì 4 settembre 2013

Gioco con le parole.

Ogni tanto gioco. Mi diverto a giocare con le parole, le spoglio dei loro abiti da sera, le rivesto con altri più colorati e allegri, un po' come una bambina con la Barbie (anche se è una bambola che proprio non mi piace). Lo faccio quando sento che il tempo mi si appiccica addosso, quando le ore sono irrimediabilmente vuote e i pensieri se ne vanno verso luoghi ostili. Allora non mi basta mettermi a scrivere di Augusto o di Giuditta o delle creature che popolano la mia fantasia e che aspettano pazienti nel mio computer di riprendere a respirare, non mi basta più, anzi quasi mi crea un fastidioso morso al cuore il sapere che sono lì in attesa di un mio cenno, o più propriamente di una mia battuta. Così divago e gioco e afferro le parole più strampalate per farne grottesche rime, dei non senso che alla fine un senso poi ci si può anche trovare. Come nella vita di oggi d'altronde, come in questi giorni in bilico, giorni che non starebbero neanche sul calendario, dipendesse da me e penso da molti altri. E però si srotolano ubbidienti, uno dietro l'altro, ubbidienti alla nozione di tempo che noi conserviamo gelosamente. Senza di essa ci sentiremmo perduti, ci sentiremmo soli in un deserto di galassie, in una sconfinata landa senza nome. Così, dicevo, gioco e giocando dimentico ansie e affanni, dimentico passato e futuro, dimentico me stessa e la vita. C'è solo l'attimo presente, quell'irriverente omaggio alle parole, buttate a caso, sbilenche, goffe e inutili. Non per me però, che per qualche ora o minuto che sia, perdo la memoria di ciò che è utile e giusto e doveroso fare,  e spoglio e rivesto a piacimento le parole e sorrido, sorrido senza sapere perché.

Marc Chagall - La vie

domenica 1 settembre 2013

L'amore è un filo d'erba.

Allora, siamo rientrati dalle ferie e siamo tornati alla quotidiana routine e settembre ci accoglie con scariche di acqua dal cielo che sembrano voler sotterrare  ogni cosa. Sento già il borbottare di alcuni, gli eterni estimatori della frenesia estiva che non ne vogliono sapere di temporali e di cieli macchiati di nuvole (i cieli che io, al contrario, amo), ascolto la loro nostalgia che non è la mia. La mia, quando c'è, affonda le radici in terre lontane e abituate allo scrosciare della pioggia, e dalle radici viene fuori un filo d'erba brillante, un filo di speranza. Ma è solo mia e non partecipa allo spettacolo universale, è un filo d'erba soltanto tra milioni di altri fili di erba, verdi e brillanti. Se ne sta attaccato agli altri, unico  eppure uguale perché il seme che lo ha generato è quello degli altri accanto a lui, il seme dell'amore. Quell'amore che tutti spesso vorremmo  nascondere o cancellare come fosse semplicemente una parola insignificante scritta sulla lavagna, una parola sbagliata in questo nostro mondo convulso; un sentimento che, spesso, distoglie da obiettivi concreti, da progetti piccoli o grandiosi, dimenticando che c'è, è sempre lì dove è sempre stato e non lascia liberi. Vorremmo incarcerarlo, chiuderlo in gabbia perché non disturbi il nostro riposo o le nostre azioni, vorremmo forse annientarlo, ma lui è lì, quieto e paziente.  Pronto a irrompere, una mina sepolta nella sabbia dei pensieri, e a risvegliarci dalla falsa quiete. Io lo custodisco, lo nutro e me ne nutro e poi lo lascio libero e seguo il suo volo sospeso come fosse un'aquila reale, finché diventa un punto incontro al sole. Mi acceca guardarlo, mi abbacina di luce. Poi cala l'ombra e so che è andato via, ma non per sempre. L'amore torna e si presenta ancora e assume forme diverse, ma torna nuovamente a dare luce all'ombra. Coltivo il mio filo d'erba, lo curo perché è prezioso.

Claude Monet "En plein air"

Lettori fissi