domenica 28 dicembre 2014

Proiettile di Natale.

Anche questo Natale è trascorso, diverso e sempre uguale, con i rituali d'obbligo a cui, ogni dicembre, promettiamo solennemente di sottrarci. E invece, puntualmente, le promesse si infrangono come le palle di vetro soffiato che adornano l'abete, non vogliamo che sia diverso. Scaramanticamente, forse, per paura che mutando abitudini anche la nostra vita possa mutare. In fondo è questo il Natale, un'epifania di buoni sentimenti avvolti nella carta dorata, infiocchettati e posti sotto l'abete; la conferma che ci siamo ancora e che ci sono glia altri. In un turbinare di finto nevischio, di jingle bells e whithe christmas sparati nei negozi e negli ipermercati,  di addobbi e gingilli trascinati dalle renne non più lapponi ma cinesi e taiwanesi, di panettoni e dolci e spumanti sbriciolati, addentati, stappati e ingurgitati e tracannati nel vociare delle tavolate di plastica rossa. Tutto come l'anno prima, tutto accettato e anche accolto, come si accoglie un vecchio amico che, sappiamo, ci riporterà indietro, al tempo incantato della nostra infanzia.
Fuori, è fuori da noi, non ci appartiene. Le notizie tristi e sconvolgenti di sofferenze e dolore si impastano con il sapore dolciastro dell'uvetta e dei canditi.
Va bene anche questo, per una volta. Per una volta si può dimenticare, solo il tempo di assaporare il calore degli abbracci e delle risate di chi ci ama e di chi amiamo.

Proiettile 2012


Arriva diritto al cuore
un proiettile di luci,
di carta crepitante,
di sacri canti alcolici.
Il panettone tronfio
raccoglie le bocche
attorno all’agrifoglio
sul tavolo ora spoglio.
Spoglio di te, mischiata
alle assenze lontane
Assenza preziosa
mi tremi nel petto
mi scorri negli occhi.

Aspetterò ancora.

mercoledì 17 dicembre 2014

Un'omelia? No, uno sberleffo.

Oddio, non è poi tutto tempo gettato alle ortiche, quello impiegato a beccare qua e là nell'aia sovraffollata dei social. Si possono apprendere tante cose degli umori vaganti, tante manie e piccole e grandi fobie degli sconosciuti nomadi che ci accompagnano, accostandosi precariamente a noi nello spazio di un commento. Non è necessario avere grande familiarità con la psicologia per capirne le motivazioni e, spesso, le frustrazioni.
Da ieri, come recentissimo esempio, dilaga una querelle sullo spettacolo offerto dalla Rai in cui Roberto Benigni ha fatto da mattatore, esibendosi in una personalissima interpretazione dei Dieci Comandamenti. Apriti Cielo! è proprio il caso di dirlo, le critiche negative, accanto agli elogi entusuastici, si sono sprecati. Delle lodi sperticate non sto a parlarne, le lodi verso altri, annoiano i più. Mi soffermerò invece sulle critiche. Gli si è attribuito di tutto e di più, dalla reità per avere ottenuto un compenso stratosferico, all'atteggiamento compiaciuto, quasi mellifluo, dei toni e delle parole allorquando il tema di uno dei comandamenti gli permetteva di trovare analogie con la società contemporanea, in particolare con la vita politica in Italia e con tutto quello che ne consegue e che ben conosciamo, purtroppo. Lo si è tacciato di cinismo, opportunismo, superficialità. Concordo con chi ha scritto che i temi dell'attualità che oggi ci affliggono così funestamente, non sono da riderci sopra. Ma ecco dove, secondo il mio umilissimo parere, consiste la svista, ecco dove l'obiettivo non ha messo a fuoco l'immagine: Roberto Benigni non voleva la risata facile, a bocca spalancata, no. Voleva, invece, il sorriso triste e disincantato, ma anche ferocemente irriverente, quel sorriso che è un'unghiata alla faccia corrotta del potere. Come a dire, badate bene, voi della politica, voi sbruffoni e maneggioni, badate bene che sappiamo chi siete e non vi permetteremo di prenderci ancora a lungo per i fondelli. Ecco, secondo me, il tono di Roberto Benigni, era quello di uno sberleffo, del pernacchio di Eduardo e di Totò. L'unica arma che il popolo minuto è in grado di sguainare sotto il naso arrogante del potere.
Concludo questa mia riflessione con una breve notazione che, in verità, è una richiesta di chiarimento: ma perché, in molti utenti di Fb ( anche in insospettabili signori e signore dal piglio autorevolmente intellettuale) è diffusissimo il ricorso alla scrittura in caratteri maiuscoli, quando vogliono esprimere un concetto particolarmente a loro congeniale e caro? Che io sappia, Fb non ha un sistema audio e quindi è inutile fare la voce grossa; che io sappia chi è affetto da sordità, non  sentirebbe neanche a pochi centimetri e chi invece non lo è, non gradirebbe il vostro urlare; gli unici a beneficiarne potrebbero essere quelli, come me, affetti da gravi problemi alla vista. Grazie, ne facciamo volentieri a meno.

venerdì 12 dicembre 2014

I silenzi trasparenti.

Ci sono segreti vissuti con una sofferenza silenziosa, che non si vuole mostrare, traspare dai gesti e dagli sguardi. Traspare dai silenzi, silenzi improvvisi, che lacerano il drappo e svelano.

Parlami
Non restare in piedi
con le mani affondate
nei pugni chiusi, non ti vedo.
Non restare col capo basso
non c’è niente per terra
solo polvere caduta dalla tua bocca
Non vedo i tuoi occhi sono nebbia nella stanza, 
non riflettono la lampada
che ti accende i capelli di grigio.
Parlami, dimmi cosa è stato
Di te e di me, della stagione
Vecchia attaccata al mio petto
Come un bambino affamato.
Parlami dei tuoi passi incerti,
delle tue visioni di libero eremita,
Parlami ed esci dal gorgo informe,
accostati a me, senza paura di mentire.
Parlami e, se vuoi, raccontami ancora menzogne,
 io le riconosco nella ruga
scura della tua fronte, nella piega molle della tua maglia,
nel buco dei tuoi occhi morti io non mi perdo più.
Ma tu, parlami, parlami anche se sei stanco.


René Magritte - L'invention de la vie   1928


 

domenica 7 dicembre 2014

Lettera d'amore

Molti anni or sono ho trascorso alcuni mesi della mia vita a Roma. Ero una ragazza con la testa piena di sogni e gli occhi assetati di bellezza. E la bellezza la scoprivo ogni giorno nel mio girovagare, quando ero libera dagli impegni di lavoro, per le strade della città, nei Musei e nelle Basiliche, nelle scalinate; la scoprivo affacciandomi a piccole piazze nascoste da palazzi imponenti, quasi delle corti che custodivano,a guisa di scrigni, un gioiello al centro; la scoprivo passeggiando nei pressi di S. Pietro in Vincoli, in un silenzio autunnale con la sola compagnia del frusciare delle foglie; la scoprivo, recandomi di sovente a ristorare cuore e cervello con la perfezione della Piazza del Campidoglio che mi estasiava per l'armonia delle proporzioni, lasciandomi smarrita nel tramonto; e ancora, addentrandomi nel ghetto ebraico che conservava, allora, botteghe e signori dall'aria seria seduti sulle sedie davanti all'uscio dei negozi. Camminavo senza una meta precisa, non avevo mappe, non ce n'era bisogno, Roma era pronta ad accogliermi, era là protesa incontro a me, generosa nel mostrarmi l'incanto delle sue pietre. Io intanto accaparravo , mettevo da parte, per il futuro distacco, tutta quella ineguagliabile grazia. La sentivo talmente mia la città che non riuscivo a scorgerne altro. Sì, era anche la Roma caciarona, era la Roma spocchiosa che, spesso, debordava dalle voci dei suoi cittadini, era anche questo. Ma non mi importava, non ascoltavo, i miei sensi erano assopiti, esisteva solo quello della vista e mi abbagliava. Sono tornata altre volte a Roma, non più sola, ed è stato diverso. La spartivo con altri e godevo poi dello stupore negli occhi dei miei bambini e di chi ne conosceva gli aspetti più noti. Mi è rimasta nel cuore, non è la mia città natale, ma è come se lo fosse.
Oggi, leggendo quello che le si è rovesciato addosso, tutto il putridume accumulato da uomini sudici della politica e da criminali protetti in un intreccio puteolente di affari e di pecunia, provo un dolore sordo, una collera fredda che mi bruciano e raggelano. Mi chiedo come sia potuto accadere, mi chiedo quanti silenzi colpevoli ci sono stati e tuttora ci sono. Poi ecco, rifletto e allora tutto si fa chiaro, si illumina di una luce sordida: Roma è la capitale, Roma è il serbatoio, Roma è la custode dei tesori d'arte; ma è anche la custode delle turpitudini, delle oscenità taciute. Roma è un enorme specchio che rimanda a tutti la visione di quello che siamo diventati, un unico smisurato immondezzaio.
Addio, mia bella, addio. Un tempo eri caput mundi, oggi sei caput immundi.
Spero, con amore, che la tua bellezza possa ancora salvare te e tutti noi.

lunedì 1 dicembre 2014

Dicembre!

Dicembre. Sinonimo, per i cristiani, del Natale. Con tutto quello che ne consegue in termini di festeggiamenti, addobbi, corse affannate per negozi alla ricerca della strenna utile-inutile e poco costosa - c'è la crisi e c'è che morde l'anima a spendere con tanta gente a spasso in giro - ; propositi per l'anno che si accinge a emettere il primo vagito, e sono di solito, buoni propositi. Non soltanto ci si ripromette, infatti, di cambiare tutto della propria vita, ad esempio casa, stile di vita, partner anche e perché no? Ma  si aggiunge alla catasta di ripensamenti, la suprema aspirazione, quella più vecchia ( sempre per noi cristiani) e ahimè la più disattesa, di essere migliori, nel senso dell'umana bontà. Si è colti dall'afflato universale del caritatevole amore per l'altro e per le necessità dell'altro. Ci costringiamo, per un mese o anche per un giorno (meglio non esagerare, si corre il rischio della scarsa credibilità), al perdono e alla compassione, appendendoli accanto alle palle di vetro, ai rami dell'abete; mescolandoli al muschio che ricopre il presepe, qualora dovessimo prepararlo ad accogliere la Lieta Novella.
Sì, vogliamo stare bene con noi stessi, per una volta, saperci buoni. Ma le lucine dell'albero scintillano nelle nostre case e fuori c'è l'oscurità dove è così facile perdersi: è sufficiente una parola, della quale si disperdono il suono e il significato nell'aria resinosa di dicembre; è sufficiente un gesto che non arriva o che arriva e ha il peso di una sberla; è sufficiente una delusione, la risposta mancata alla letterina spedita a Babbo Natale perché "quella" scatola piena di sogni arrivi a destinazione, trasportata dalle renne, col suo bel fiocco rosso natalizio, ed ecco che il buio può inghiottire noi e le nostre pie predisposizioni.
Dicembre. Sinonimo del Natale e della bontà del panettone e del torrone; della frutta secca e di qualche bicchiere di vino in più; della famiglia riunita e dei bambini più piccoli che si esaltano, timorosi anche, aspettando il papà o il nonno vestiti come il vecchio calato dal Grande Nord; e della speranza di essere buoni, per una notte almeno, con noi stessi e con gli altri. Come ogni anno, come ogni notte di ogni Santo Natale, che possa durare, almeno, fino all'alba del giorno dopo. E poi le lucine si spegneranno, in attesa di brillare nuovamente, in un'altra magica notte di Natale.

Marc Chagall: Solitude - 1933

martedì 25 novembre 2014

Fruscìo

I ricordi si sovrappongono alla vita dell'oggi, alle aspettative del domani. Rimangono impigliati nelle trame dell'esistenza, molesti insetti e splendide farfalle che si agitano senza mai riposare, emettendo un incessante fruscìo.


Fruscìo

Batte il tonfo nella notte
ricadi ancora supina forma
nella libertà degli Inferi
della tua mente impietosa.
Un vortice schiaccia il tempo
un tumulto scardina le porte
da me incustodite, ignara vestale
del tempio sconsacrato agli Dei.
I cancelli stridono, stridono.
Chiudono i giardini al mio occhio cieco.
Non disseterò mai più la mia erba,
vedrò germogli bruciati e lande brune.
Sono reclusi gli anni, calpestati
da molti piedi stranieri.
Mi chiamano ancora, hanno voci
di antichi amori, oscillano e si tuffano.
Del mio cuore dilatato nel nuovo spazio.
piccole ninfe siete, amorose parole.
bisbigli di canzoni, fruscii di erbe smosse
venite fuori dall’ombre, incontro a me venite.



venerdì 21 novembre 2014

Ossessioni? No, solo ombre.

Scivolando, saltellando, inciampando qua e là per il web, in particolare nei social, mi capita, sempre più spesso di imbattermi in post, stati, e relativi commenti rivelatori di una società assillata. Anzi ossessionata. Le ossessioni che sbucano come funghi dopo la pioggia e che bucano le menti come spilli e spilloni, sono, per lo più, riconducibili alla sfera sessuale e, in misura minore anche se imponente, a temi di vario fanatismo - religioso e a-religioso; politico e apolitico; razzista in tutte le salse, e cioè contro le donne e contro gli uomini, contro i neri e i gialli e anche i visi pallidi, insomma contro tutto e tutti. Non ultima, l'ossessione culturale, farsi riconoscere come appartenente a un livello intellettualmente superiore è molto, molto cool. Quelle più divertenti, quando non superano il limite del sempre valido buon gusto, sono le ossessioni inerenti al sesso. Basta fiondare sullo schermo un'immagine appena appena allusiva, non so, una trasparenza, un vedo e non vedo, un abbagliante spicchio di pelle, sapientemente dissimulato e quindi supremamente intrigante, che il picco dei like e dei commenti degli utenti maschili, ecco che si impenna. E il testosterone trabocca e vola felicemente attraverso l'etere. Ora dico io, non è che la cosa crei un particolare fastidio, facciano pure, lor signori e anche loro, le maliziosissime fanciulle (anche in là con gli anni, a onor del vero), ma che, almeno si rendano conto nel reiterarsi quotidiano delle loro abituali performance dialettiche sul web, che rischiano di diventare succubi di un'ossessione. Virtuale certo, ma sempre di ossessione si tratta. E le ossessioni fanno presto a disorientare. Si finisce, prima o poi, col pensare sempre più a una sola cosa e si perdono di vista tante altre cose (e persone), quelle sì, reali e accoglienti. E il discorso è valido per tutti, tanto per la stralunata utenza maschile, quanto per quella femminile, assillata, a sua volta, dal desiderio di conferme del proprio potere seduttivo, e dalla voglia di galanterie, più o meno esplicite ed eleganti. Ma davvero abbiamo necessità, noi donne, di conferme da qualcuno senza identità alcuna, se non quella che appare? A me sembra di no, o quantomeno, non dalla rete. Le conferme di ciò che siamo, fisicamente e intellettivamente, dovremmo leggerle altrove, non sullo schermo lucentemente morto di un pc. Dovremmo leggerle negli occhi di chi ci vive accanto, di chi ci conosce e ama: anche, e forse meglio, per le nostre piccole manie, per le nostre incertezze, per le cadute improvvise, per le fobie e per gli assilli che, come  buchi neri tra le stelle, regalano ombre ammalianti ai nostri occhi.

 Foto di Jacques Henri Lartigue

domenica 16 novembre 2014

La libertà di non ascoltare.

Non c'è frase più esaltante: "Io sono un essere libero". Come non esserne fieramente convinti, come non provare un senso di grandezza nel pronunciarla? La consapevolezza della propria libertà dà anche un senso di onnipotenza, di pienezza. Rappresenta il compimento del cammino.Ci sono, però, uomini e donne che a questa consapevolezza teorica, non hanno mai affiancato la corretta applicazione di questa teorica libertà a quella che risulta essere poi la reale condizione umana e delle loro esistenze, in particolare. Il sentirsi intimamente liberi, implica il potere di scegliere una cosa anziché un'altra; di decidere del proprio presente nella visione di un futuro; spesso, tuttavia, questo non basta, non è stato  e non è sufficiente per molti uomini e donne. Poiché dimenticano che la libertà ha delle regole, senza le quali cessa di esistere. Essere liberi non significa esserlo ad libitum; la libertà piena si ottiene, al contrario di quanto si sarebbe portati a sperare, quando si è capaci di "liberarsi" da istinti e pulsioni narcisistiche ed egocentriche, tanto gratificanti sul momento, quanto distruttivi in prospettiva di un'attività lavorativa, di una relazione sentimentale, dei rapporti sociali in genere. C'è sempre in ciascuno di noi - un pizzico di autocritica non guasta -  la solita, maliziosa vocina che ci spinge, in un determinato frangente della nostra vita, a lasciarci andare, a superare il limite della decenza e della morale, senza provarne, all'istante, grande rimorso o senso di colpa che sia. Piuttosto, ci pare di spiccare il volo, di esserci alleggeriti dai gravami del buon senso e del buon gusto: in breve, ci inebriamo della nostra, supposta, libertà. E ci accomodiamo sulla mongolfiera, privata dalla zavorra, veleggiando verso territori fascinosamente ignoti. Ma l'ebbrezza ha un effetto rebound, e la mongolfiera si affloscia presto, facendoci precipitare nella nausea del dopo sbronza. E allora? Allora, forse faremmo meglio a essere più cauti nelle nostre consapevolezze, bandendo l'illusoria presunzione di essere abilissimi timonieri.
Essere liberi non vuol dire assecondarsi, dare ascolto e poi voce a quella parte di sé che pretende la soddisfazione di un'esigenza (spesso fittizia). Sono certa, per esperienza diretta, che sia altro, anzi tutto il contrario. Per me ha il senso di una "redenzione" di quella parte buia del nostro io o quanto meno ha il senso della nostra capacità di ricacciarla, quella porzione di noi, nell'oscurità e che lì giaccia sempre.
Oggigiorno scorgo tanti ragazzi e ragazze che aspirano ( mi ricordano un po' i nostri avi irredentisti) alla libertà. Dalla famiglia d'origine per poter scegliere se averne una "tutta" loro; dalla paura di non  valere niente; dalla convinzione di  essere condannati a un eterno precariato di lavoro e di affetti.
Aspirano all'autonomia, dai padri e dalle ansie. E perché ci riescano, devono essere indipendenti economicamente, in soldoni, devono avere un lavoro e non con paghe da fame che continuerebbero a mantenerli nella condizione di non-libertà.
Oggi ci vorrebbe il lavoro, ecco questo rappresenterebbe la libertà per i giovani. Ma questo è un altro discorso, scusate, la lingua batte dove il dente duole.

Foto di Robert Mapplethorpe

martedì 11 novembre 2014

Una coscienza diversa

"Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta."  (...) Non vi dirò che non val nulla, se per voi    è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la vostra. Ma sì. Tanto diversa dalla mia.   (tratto da "Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello)

 Mai come in questi giorni le parole di Pirandello mi sembrano perfettamente attinenti a tutto quello che accade. Abbiamo assistito a una sequela di assoluzioni in vari processi e non starò qui a ricordarli tutti. Mi limiterò a riportare che, per tutti o quasi, non erano sufficienti le prove a carico o il reato non era ascrivibile ad alcuni degli imputati o essi stessi erano estranei al reato.Ne prendo atto, con una certa amarezza, ma ne prendo atto. Nel processo per il terremoto de L'Aquila, quello che però mi ha emotivamente colpita è stato lo sconcerto e la rabbia di chi gridava "vergogna" da una parte, e dall'altra l'apparente serenità d'animo espressa da alcuni imputati-assolti e, in particolare, quella espressa da un magistrato che, rispondendo alle domande di un giornalista, si definiva "in pace con la coscienza e con Dio". Purtroppo non ne ricordo il nome, ma ne invidio le certezze. Ecco, io non sono così sicura della mia coscienza, come Pirandello scrive, non vale nulla perché c'è quella di altri. Però, sempre citando Pirandello, la mia è diversa.E tornando a più umili e ordinari fatti, anche nella vita quotidiana si inciampa in moltitudini di coscienze. C'è, ad esempio, la coscienza di chi sa con ferrea sicurezza, a chi rendere merito nel lavoro svolto. Lo sa con la ferrea certezza dovuta ad anni di assuefazione, rassegnata o no, al nepotismo più sfrontato e al clientelismo; lo sa in quella maniera, ipocrita e arrogante, per mezzo della quale si muove nella società, acquisendo consensi e simpatie, più o meno devote. Sa a chi rendere merito, immeritatamente, a scapito dell'onestà e della riservatezza, dell'educazione e della laboriosa applicazione, dell'intelligente capacità di assolvere ai compiti assegnati senza degradare la propria coscienza.
Che è, per l'appunto, una coscienza diversa.





venerdì 7 novembre 2014

Monocromia

La città è di un unico colore, si è tinta di piombo come il cielo che pare avvolgerla. Le cupole si distinguono appena e gli alberi, ora immobili, se ne stanno zitti e bagnati, giù nel parco. Le strade di lava nera brillano, lasciando scorrere un'acqua melmosa di foglie e di carte marcite; il temporale ha lasciato un sentore sulfureo nella caligine. Non vi sono rumori, pare che si sia addormentata, la città altrimenti chiassosa. Ma non mi spaventa tutto questo scuro abbassarsi del cielo, mi offre una sensazione di calma, come l'attesa pigra di qualcosa: Il vento ha smesso da alcune ore di strapazzare tetti e terrazzi, concede una tregua alle orecchie; ieri fischiava, era un treno impazzito, e mulinava sulla città, portandosi via tutto quello che gli sbarrava la corsa. Il vento sì, mi incute un'angoscia perfida, che si insinua nella mente e sibila e poi sbraita: sembrano grida velate, i suoi respiri sulla città. Ma oggi no, oggi il cielo brontola,  è un vecchione catarroso.
In questo giorno senza luce, senza i colori del nostro bellissimo novembre, il mondo appare distante, talmente che si potrebbe dimenticare che ci sia altro; e la politica e l'indefesso vociare e le istanze furenti di giustizia e di lavoro, si sciolgono nel grigio, in un acquerello nebbioso. Se la pioggia potesse lavare tutto, stemperare ogni singola parola di menzogna, ogni stupida promessa; se andasse tutto a defluire nei tombini, proclami fantasiosi, accordi fantasmagorici, velleitarie aspettative e decisioni, tutto si mischierebbe alla melma, dove è meglio che resti.
Noi, scampati ai vortici della natura offesa, restiamo al chiuso delle case o rientriamo in esse, senza parole e senza pensieri per un giorno. Soli o in compagnia di chi ci è più caro, ad assaporare dai vetri punteggiati di gocce la città grigia e muta.

sabato 1 novembre 2014

L'Idra di Lerna mi divorerà.

Non è mia abitudine mettermi su queste pagine con assiduità giornaliera, ma ho il petto colmo di amarezza, il cuore che batte al ritmo di una rabbia furente.
Non ce la faccio più a vivere in un Paese così, la misura è stracolma, la tentazione di fuggire è tanta.
Ieri i media hanno diffuso due notizie, la prima riguardante l'assoluzione, nel processo  sulla morte di Stefano Cucchi, di tutti gli imputati; la seconda, la prescrizione del reato nel processo d'appello contro il ministro Claudio Scajola. E nel processo di primo grado era stato assolto, perché nell'acquisto della ormai famosa casa con vista sul Colosseo, non vi era stato dolo da parte sua. In poche parole, a caval donato non si guarda in bocca e che colpa può mai avere il tapino, se un tale magnanimamente gli ha voluto elargire una regalia da un milione di euro? Capita a tutti noi, no? E se non è ancora successo, è solo colpa nostra che, poveri scemi, non abbiamo saputo scegliere le amicizie giuste.
Due sentenze  dunque e se ne dovrebbe essere lieti, se giustizia fosse stata fatta. Ma non è così. E se nel caso del politico, anima candida siccome un giglio, la vicenda suscita lo sberleffo e un triste sarcasmo; nell'altro, quello del giovane morto non si sa come -  anzi no, si suggerisce l'ipotesi di un suicidio dovuto all' inedia consapevolmente voluta da lui stesso - l'epilogo suscita uno sbigottimento attonito come se non si volesse credere a ciò che si sente, e subito dopo, una collera sorda e il rifiuto sdegnato di accettarla quella sentenza.
Penso ai genitori e alla sorella di Stefano che hanno visto quel cadavere, figlio e fratello un tempo, macchiato dalle ecchimosi, gli occhi pesti, segnato da fratture; penso a loro che hanno collaborato con le istituzioni, confermando dolorosamente la tossicodipendenza del loro ragazzo, ma fiduciosi di conoscere la verità di quel corpo spezzato e denutrito. Vorrei abbracciarli e dirgli che sono con loro, che sto dalla loro parte, che anche io voglio la verità.
Mi rimane questo gusto fangoso nella bocca, questo miasma nelle narici, questa sensazione di sporcizia. Come se anche io fossi caduta nella palude fetida dell'Idra, il mostro a nove teste che è pronto a divorarmi.

venerdì 31 ottobre 2014

Oscillare sempre.

Oscillare è una necessità imposta dalla vita. Forse è stato sempre così, l'essere umano sempre sospeso tra dubbi, grandi e piccole menzogne, speranze e disillusioni. Forse è nel nostro DNA, discendiamo dai primati dice la scienza e come tali serbiamo il ricordo di una vita appesa ai rami delle foreste. E questo altalenante moto perpetuo, se da un lato ci sottrae a una stabilità cercata, dall'altro rende più interessante la visuale: la prospettiva non è mai la stessa. Così un giorno scorgiamo un'ampia fetta di panorama, il passato-presente-futuro scansionati in ordine spazio-temporale, e traballiamo un poco meno; un altro, la prospettiva si restringe e riusciamo a scorgere solo uno spicchio esiguo, magari il passato, una fetta di presente poco intellegibile, e niente del futuro. E allora, perdiamo l'equilibrio. Facile cadere, lasciarsi risucchiare nel maelstrom del passato, dove le nostalgie e i rimpianti e anche i rimorsi la fanno da padroni. Se guardassimo solo alle immagini che ci vengono da quel mondo sepolto negli angoli della nostra mente, diventeremmo vittime delle nostre vecchie ossessioni. Tutto il vissuto tornerebbe a emergere dalla voragine aperta e ci spingerebbe a precipitarvi dentro.
La memoria della vita è una compagna fedele, ci sorregge e consiglia e ignorarla è roba che attiene alla follia o alle patologie degenerative del cervello. Terribile non averla, terribile cancellarla o imporle il silenzio. Ma è bene che s'abbracci al presente, amorosa amica, per offrirci conforto e suggerirci il cammino. E il futuro, il feto nel ventre della vita, è atteso con minor paura, quasi con cauta gioia.
Mi piacerebbe la certezza che i giovani corrano verso il futuro, accompagnati nel viaggio dalla loro breve memoria, festosamente scevri da dubbi, sicuri di non incontrare barriere o, peggio, precipizi. Sono tantissimi, sono un Pianeta vivo e allegro; sono colorati e cantano e ballano e si amano, tutti ugualmente preziosi, tutti ugualmente utili. So che non è così adesso, ma io voglio crederci. Che volete, miei cari amici, oscillo e traballo anche io come un tavolino zoppo, il passato mi ghermisce e il presente mi atterrisce, ma il futuro, no, quello è di altri.

Max Ernst  "La donna che oscilla"  1923


lunedì 27 ottobre 2014

Sogno 1998 - 2014

In questi giorni accadono strane cose. Un uomo che si dichiara con il cuore a sinistra, politicamente s'intende, che pronuncia discorsi che non riesco a capire; una piazza gremita di gente che si dichiara con il cuore a sinistra che gli grida contro; e in una libreria, una ragazza piena di sogni  che parla alla presentazione del suo libro di coraggio e di sconfitta, di ragazzi che se ne vanno e di chi invece resta per continuare a lottare, di opportunità negate e di diritti violati. E queste sue parole non rappresentano l'argomento del suo libro, non sono nella "scaletta", nessuno se le aspettava. Eppure le ha dette ed è stato il momento più emozionante del pomeriggio. Forse lei non lo sa, ma in quel momento, lei proprio lei che si definisce apartitica e apolitica, ha dato una grande lezione di politica. Perché ha usato parole semplici, di quelle che ti arrivano dentro e lì restano.
A lei e a tutte le ragazze come lei che sanno meglio dei troppi Soloni tromboni, cosa sia il diritto di scegliere, il diritto di vivere dove si vuole vivere. a loro tutte dedico questa mie parole.

Sogno 1998
Come le donne di Chagall
volo appesa al cielo
sulla città che dorme
della belva i ferini sonni.
Seguo scie di fiorite
Corone alle stelle
Ammiccanti lucciole
Sulle siepi blu della notte.
Allaccio la mano alla mano
Delle mie donne amate
Hanno volti di luna d’agosto
Hanno occhi di allegre comete
In corsa nel sogno e nel vento
Non sono straniera, non più.
Mi portano via le mie donne
E non c’è precipizio di nero.
Io volo io volo io volo.


Marc Chagall  -   Nudo sopra Vitebsk, 1933     

















giovedì 23 ottobre 2014

Il canto delle sirene.

Si dovrebbero avere delle certezze, si dovrebbe poter dire: "ecco, io ho un lavoro, un tetto che mi copre, una famiglia che mi supporta e che mi ama. E sono un individuo libero, posso esprimere le mie opinioni, posso amare chi voglio. Io so di rappresentare un valore per la Società, come tutti gli altri individui né più né meno. E non posso essere discriminato per razza, per sesso, per religione. Amo e perseguo due doveri imprescindibili: quello di rispettare l'ambiente che mi ha accolto e quello di rispettare il prossimo. Se non amarlo, rispettarlo".
Ma le certezze, al giorno d'oggi, scarseggiano e noi barcolliamo, indecisi a quale canto di sirena prestare il nostro orecchio.  Perché le Sirene si prendono gioco di noi, ci ammaliano e strizzano l'occhio glauco e beffardo, si tuffano tra i marosi e riemergono sempre, sono creature immortali; mutano aspetto e si travestono, assumono fattezze umane; sono carezzevoli inganni della nostra mente.
Noi vaghiamo col pensiero, ipotizziamo scenari fantastici di altre realtà possibili; scorrazziamo nelle praterie della memoria, alla ricerca dei tanti perché e dei tanti "dove abbiamo sbagliato?" che continuamente ci arrovellano; spulciamo il presente, nella speranza di trovare una risposta, una sola che ci orienti verso il cammino giusto. E spesso si crede di averla trovata la risposta, in una persona che ci tende la mano, in una telefonata attesa da tempo, in un sorriso improvviso e sconosciuto. Non è molto per correre spediti, ma è un tenue sostegno a cui poggiarsi per non vacillare. Intanto le sirene continuano a cantare seducenti promesse e noi, imparando la certezza dei passi, le lasciamo cantare.


Marc Chagalla - Sirena con Poeta    1967

sabato 18 ottobre 2014

Ascolto il tuo sussurro.

Un pomeriggio di lavoro, una pausa con un caffè accanto, una canzone. E, di colpo, si è via, fuori dalle pareti che ci chiudono. Si fanno capriole al contrario e ci si ferma davanti a una porta chiusa,  da noi e, chissà, da un elfo bizzarro e dispettoso. 


Un sussurro

Ascolto il tuo sussurro
intinto nel fiume della città
che scorre ancora negli occhi
trasparente di mille piccole
luci accesa, le luci dei sogni
segregati nella stanza invernale.
Scorgo il tuo sussurro
disegnato sui muri della città
con i colori pallidi del cielo
e danno vita alla bocca chiara
e alle guance bagnate nel fiume
che scorre ancora negli occhi.
Ascolto il tuo sussurro
rivolto all'elfo bizzarro
che fa le capriole nel cuore
disordinato trae un filo d'erba 
dai prati bagnati dal fiume
che scorre ancora negli occhi.


Georges Seurat - Disegno del 1884
 







mercoledì 15 ottobre 2014

L'ombelico del mondo, sono io.

Sono stata molto in dubbio se scrivere questa mia riflessione, ma ieri e anche oggi ho ricevuto una delusione, attesa in un certo senso, ma quando poi ti si scaraventa dentro, il gusto che ne trai è sempre amaro.
Vi sarà pure capitato di discutere con qualcuno, di avere una discussione animata, di non trovarvi d'accordo su una questione, su un giudizio, su un fatto accaduto ad altri che, emotivamente, vi ha coinvolti. Penso proprio di sì, succede a tutti, è nella natura stessa dell'essere umano la flessibilità del pensiero e, di conseguenza. del giudizio critico. E, si è sempre pensato che sia "costruttivo" il confrontarsi delle idee, la dialettica accesa da personali convincimenti non dovrebbe nuocere a nessuno. Ma non sempre è così, c'è chi ritiene che la manifestazione di pareri opposti, la divergenza di opinioni si tramutino in offesa, in insulto gratuito. Senza accorgersi che sprofondano nell'egocentrismo, senza accorgersi che stanno a rimirare il proprio ombelico. Che è, appunto, l'atteggiamento peculiare dell'egocentrico. E con gli egocentrici, amici/e miei, è inutile perdere tempo: non vi ascoltano, non vi leggono (qualora aveste optato per la scrittura per comunicare con loro): un muro di gomma contro cui rimbalzare in  eterno. E alla fine, anche la gomma, per quanto elastica, fa male. Un'ultima riflessione: l'egocentrico sta ripiegato su se stesso, vede e sente solo quello che ha scelto di vedere e sentire, si sottrae abilmente alle domande o le interpreta secondo un criterio prestabilito, ossia non risponde "articolatamente", ma scivola, sorvola e si degna di rispondere solo a ciò che, ritiene, sia in grado di sostenere la sua primigenia e inoppugnabile posizione. Posizione sì, perché non deflette minimamente, si arrocca, si lancia contro il "nemico" per poi, spesso, alla fine abbandonare il campo di questa sua esclusivissima battaglia. E non si accorge che nessuno lo insegue, che nessuno avrebbe voglia di vincere o di perdere. Che nessuno gli è ostile, che il nemico, se c'è, se ne sta proprio lì, sotto il suo naso: sì, è proprio quell'ombelico che continua a rimirare.

Delfi: L'ombelico del mondo

lunedì 13 ottobre 2014

L’album dei ricordi: l’amore gay ai tempi dello scandalo.



E se ci capitassero per le mani delle foto, diciamo pure, un poco “bizzarre”, cosa ne faremmo? Foto che ritraggono coppie felicemente appagate, allacciate nelle effusioni amorose, con gli occhi temerariamente fissi all’obiettivo. Temerariamente sì, perché sono immagini di coppie omosessuali, riprese in periodi storici nei quali l’omosessualità non era ammessa dalle convenzioni sociali.
Questo è quanto è accaduto a un collezionista, il regista francese   Sebastien Lifshitz che,andando in giro per mercatini in ogni angolo del mondo, alla ricerca di oggetti stravaganti, ha raccolto in trent’anni una notevole quantità di foto, creando un vero book rivelatore, ai nostri occhi ormai abituati a vedere di tutto e di più, di un mondo ben lontano dagli stereotipi culturali e sociali di epoche che sembrano assai remote; epoche in cui il puritanesimo anglosassone e la cultura cattolica mettevano all’ostracismo ogni aspetto “formale” delle inclinazioni sessuali. “diverse”.
Eppure, l’omosessualità era, ed è, storia dell’essere umano, fin dalle prime manifestazioni dell’Arte letteraria e figurativa; ma se nel tempio delle Muse era misconosciuta e pruriginosamente accettata, nella vita quotidiana diventava oggetto di scandalizzato disgusto. Anch’esso non esente da una buona dose di pruderie e di curiosità. Ma, si sa, uomini e donne, stimolati da Cupido, non resistono alla tentazione di immortalare l’attimo fuggitivo, ed eccoli ritratti in languidi abbracci, furtive occhiate, risate complici.
Le foto che ci scorrono davanti sono i piccoli capolavori di un’Arte “minore” che, senza suscitare lo stupore procurato da un dipinto di  Leonardo o di Caravaggio  
o di un affresco pompeiano, ci regalano, con le sfumature di nero, di grigio e di seppia, le suggestioni dell’amore saffico o, tout court, omosessuale, colto dall’obiettivo con l’intento di non suscitare scandalo in periodi storici in cui, invece,  ci si scandalizzava molto. La tenerezza carnale è ben visibile nelle pose, nei volti sorridenti, nei gesti morbidi dell’amore. Perché sempre di amore si tratta, il sesso a cui si appartiene poco conta.
Allora cosa faremmo noi, di queste foto? Le strapperemmo e le cestineremmo? O, al contrario, le guarderemmo con l’occhio un poco malinconico di chi sfoglia un album dei nonni? Propendo per questa seconda ipotesi.  In fin dei conti, potremmo definire queste foto, le antesignane dei nostri selfie che inondano i social: il divertissement di rendere pubblico, l’io privato. Messo a nudo,in questi scatti, con straordinario coraggio, un pizzico d’ironia e tanta elegante leggerezza; nei contemporanei selfie, con sicurezza, un pizzico di sfrontatezza e una leggerezza meno elegante.  Alla faccia di qualche, residuo, moralista.  
  

martedì 7 ottobre 2014

In pasto a tutti.

E se la smettessimo di mettere in piazza i nostri fatti personali? Se provassimo, anche solo per qualche giorno, a tacere su quelli che sono i nostri vizi privati e le nostre pubbliche virtù e ci limitassimo a condividere, sui social, musica, trailer di film o qualche video che ci ha incuriositi?  O se discettassimo  sull'ultimo libro che abbiamo avuto il piacere (il dis-piacere) di leggere? O anche, se discutessimo di animali, di politica (ammesso che se ne abbia ancora la voglia), di arte? Imponendoci, solo per qualche giorno, di non postare selfie che ci ritraggono, inevitabilmente, al meglio della forma fisica - languidamente sexy le donne; virilmente pensosi, i signori uomini - ; di condividere le foto dell'ultimo, indimenticabile, insuperabile viaggio (se poi si tratta del fatidico "viaggio di nozze", lo sdilinquimento dei commenti è assicurato); di dimostrare la perizia acquisita nelle arti gastronomiche, esibendo filmati a base di farina, uova, burro e zucchero, con zoomata sulle mani impiastricciate e il sottofondo del mixer che trita.
Ma quello che dovremmo evitare, almeno per qualche giorno, assolutamente evitare, è la divulgazione - proprio letteralmente, rendere noto al volgo, quindi a tutti - di ciò che accade nelle nostre vite. Quanto di più intimo, a volte: la delusione di chi credevamo amico, la preoccupazione per la salute di un parente, il tradimento subito dal partner, e altro ancora. Di peggio, di più. Una pletora di sentimenti sovraesposti, sbandierati, urlati a destra e a manca; anzi più si urla, più ci si attorciglia con le parole e gli insulti e le recriminazioni, più ci sentiamo soddisfatti. Ma soddisfatti di che? Di avere dato in pasto il nostro privato a bocche sconosciute? Di avere edotto il " pubblico" delle nostre avventure-disavventure amorose, affettive e via di seguito? No, non credo. Il "pubblico" non partecipa emotivamente, tutt'al più si distrae, tutt'al più si diverte. E noi ci riteniamo soddisfatti, noi narcisisti internauti. Scambiando la nostra mancanza di ritegno, per sincerità; e la riservatezza di altri, per ipocrisia.


Helmut Newton - Berlino, "I grandi nudi"

giovedì 2 ottobre 2014

Nel nulla.

Che difficoltà scrivere del nulla. Sì, perché in questi giorni (sono una santa donna a limitarne lo spazio temporale) la politica e chi ne incarna le idee (?), vagano nella sconfinata e desolata regione del Nulla. I nostri uomini politici e le nostre dame che graziosamente siedono sugli scranni del Parlamento, hanno un bel da fare. Si agitano, passeggiano dentro e fuori, rilasciano brevi e illuminanti interviste al giornalista - malcapitato, malmostoso, maldisposto, o al contrario, bene accolto, riverente e bendisposto - di turno;  siedono impettiti e battaglieri nei talk show (quanti ce ne sono? l'Istat dovrebbe pensare seriamente a un censimento): insomma sono presenti, assolutamente partecipi delle nostre miserrime vite. E discutono, consigliano, esortano, enunciano, enumerano, sempre fervidi e appassionati. Ultimamente dell'articolo 18, assurto a totem, sia per i detrattori che per i fautori. E attorno a questo italico totem, i nostri ballano la loro danza tribale, minacciando, dall'uno e dall'altro fronte, catastrofi e macerie. Accompagnati dall'orchestra di economisti, sindacalisti, giornalisti, maitres à penser schierati pro o contro, tutti esagitati, tutti convinti di essere i "salvatori della Patria". E mentre il Nulla viene fuori dalle loro bocche, creando una cortina di nebbia che impedisce di vedere la realtà che sta all'esterno, l'esercito è in marcia senza una meta, senza un nemico contro cui combattere. I nostri giovani. Senza lavoro, senza dignità, senza identità, senza ruolo. Come comparse (non pagate) sul set di un colossal storico, nel quale nessuno spettatore li riconoscerà, li ricorderà. I nostri giovani, in futuro, non potranno cantare "La storia siamo noi",  perché la storia li ha cancellati.

domenica 28 settembre 2014

In punta di piedi.

In punta di piedi, senza fiatare. Con il cuore ebbro e la mente vacillante. Ci si sente così a ripensare al passato, Ubriachi eravamo e ciechi, non volevamo vedere. Ma la luce cambia e si fa gravida. Di colpo illumina.

In punta di piedi


In punta di piedi rientro
nella tua vita scollata dalla mia.
Nei palmi screziati di mappe
nuove, i miei dolori antichi
le mie recenti gioie ti offro.
Non voltarti più, c'è buio
e cadresti di schianto.
Afferrati a me, allacciami ai fianchi
e nel buio e nella luce cadremo
ancora e ancora, insieme.

martedì 23 settembre 2014

Da una città all'altra.

Nel flusso di pensieri ne pesco qualcuno strampalato eppure talmente pressante, che le dita si agitano alla ricerca dei tasti, una volta avrei detto "della penna", ma il progresso esclude spesso oggetti di nobili virtù. La stramberia di oggi è che non ho voglia di riflettere, non penso. O meglio voglio pensare solo a cazzate. Voglio mettermi a scrivere che faccio dei dolci e che non mi riescono e chiedere il perché agli amici dei social; voglio fare un selfie e sono indecisa se assumere una posa sexy (alla mia età? uhm, meglio lasciar perdere) oppure scegliere una  posa filosofica-intellettuale-rompolepalleatutti (questa mi verrebbe meglio) e postarlo subito; voglio condividere una decina di barzellette cretine che si guadagnerebbero, sicuramente, centinaia di like e il mio ego si espanderà in maniera spropositata; voglio intervenire in qualche battibecco in cui non c'entro e di cui non me ne frega un tubo, solo per il gusto di infastidire; voglio raccontare le esperienze, manco a dirlo uniche, del mio ultimo viaggio all'estero (quelli in patria non contano), solo che questo risale ad alcuni anni fa e chi se lo ricorda.  Insomma, ho voglia di essere un'abitante degna dei social, una di quelle che fanno la differenza (con gli esseri pensanti, beninteso).
E mentre batto sui tasti, rimugino e rimugino e una luce si accende, benevolmente disposta. Ma non è che basterebbe uscirsene un po', andare a sedersi in un bar con quattro amici/he e scambiare, non opinioni, no, solo pettegolezzi, quisquilie, titillanti nuove su questo o quello (tanto, per tutti "pari sono")? In fondo è la stessa cosa, non cambierebbe granché: passerei dalla sconfinata (sembra, ma è poi vero?) città virtuale, alla mia conosciuta, bien- aimée- detestée, realissima città.

sabato 20 settembre 2014

Déjà vu

La storia personale di ognuno di noi riflette spesso la storia dell'umanità nel suo complesso, si ripete. Ciclicamente si compiono gesti analoghi a quelli di un anno o più anni fa; si pronunciano frasi già dette e ascoltate; si ricade negli identici errori, che ci eravamo ripromessi, inutilmente, di non commettere mai più; ci si avvoltola sempre nell'uguale groviglio di vecchi dubbi e di vecchie bugie, ai quali si aggiungono nuovi dubbi e nuove bugie. Tutto scorre in un continuo déjà vu che non cessa di stupire.

Déjà vu

Le stesse parole rimosse
dagli occhi con frullo d’ ali.
Il gesto perenne di tedio
affannato sulla bocca tagliata
dalla lama di altre bugie
sculture di graffi irrisolti.

I fiori non reco, solo il vino
 trabocca dal mio calice e dal tuo
nella stanza di risate ardente.
Di lei e di me con il dubbio nell’ombra
della mente greve d’ amore amaro.
Di silenzio ammantato resiste ancora.

Il ciclo di immemori lune è passato
sulla casa ospitale e nulla è mutato.
Non tu dagli incerti sonni erranti
e dalle veglie sfinite come il tuo corpo.
Non io dalle dita spoglie, aghi d’acciaio
 ti indicano penombre tessute dal ragno.
Non lei, crudele e ignara dea
che tende e spezza il filo annodato

 Un anno  è passato e non ha tempo
di lacerata pietà, di furente pianto.
Il sangue del vino si accende 
nelle nostre vene pulsanti.
Nella stanza calda saetta il lampo
del mio ultimo film e resto cieca.


Foto di Henri Cartier Bresson





martedì 16 settembre 2014

Nell'alba.

Ci sono giorni particolari, si sa. Giorni nei quali ci si sveglia all'alba, senza un motivo,  e si corre fuori verso l'aria fredda che sferza e dirada le nebbie notturne. C'è sempre quella luce fuori, quel rosa livido sospeso sugli alberi e sulle case e si rimane a osservarlo, con gli occhi rivolti all'est, fino a quando trascolora e si muta in rosso. Il sole sale veloce e accende tutto, l'opacità notturna sbiadisce al suo irrompere, quasi violento. E si rientra nella penombra ancora scura e odorosa di buio. E si vorrebbe restare così, nella sommessa quiete delle stanze. Senza affacciarsi al mondo, senza accendere la radio e il televisore, senza collegarsi a Internet. Senza squilli di telefoni, solo il silenzio nella mente. E invece bussano da tutte le parti, chiamano, strepitano. La città si sveglia e spezza la quiete. Il mondo si affaccia e non ci si può nascondere, ti cerca e ti vede. Questo mondo infetto e pazzo, con le sue eterne guerre e i suoi massacri che non ti lasciano scampo. Se hai una coscienza; se hai orecchie per sentire le urla di dolore; se hai occhi per vedere l'orrore che si compie.
Ci sono giorni nei quali si vorrebbe parlare, gridare anche, ma sai che è inutile. Nessuno starà ad ascoltarti, neanche chi ti è accanto. Anche lui sperduto nell'alba di un nuovo giorno, anche lui afferrato dalle tue stesse paure.
Io li chiamo "i giorni spezzati" perché, fragili come cristalli, vanno in mille pezzi.
Allora provo a raccattarli, questi pezzi, faccio che combacino e provo ad attaccarli con la colla della paziente attesa. E della speranza.

venerdì 12 settembre 2014

L'eco del tempo.

Il tempo si ferma. Gli orologi smettono di scandire i minuti. Anche il corpo rallenta i suoi processi, tace. Solo la mente continua, incessante, a correre. E non va avanti, volta le spalle all'oggi e non si cura del poi. Configge i suoi occhi chiari in un recente passato, ricco di silenzi e di assenze. Attesa, era la parola  sussurrata dal tempo,  e l'eco lenta si frangeva nelle stanze.


Ottobre 2012


Comincio a sentire il freddo inverno,
anima mia girovaga tra remote stelle
e fumanti prati intrisi d'acqua verde.

Scorre sui vetri nella veranda esposta
la pioggia attesa, vacilla il cuore di legno
al gocciolio continuo sul tetto in rame.

La luce s'abbassa sul viola del cielo
e un aereo scintilla tondo e rosso
come una luna piena nel nostro agosto.

Ti aspetto al buio seduta, scomoda
e paziente trattengo il libro inglese
che mi hai donato, anima grande.


Man Ray - Hand on the lips  1929




domenica 7 settembre 2014

Bugie, che passione!

Torno spesso sul tema della menzogna, lo so. Rischio di essere monotematica, ma che vi posso dire a mia parziale discolpa, se non che è un argomento che mi affascina? In verità, è meglio togliersi il sassolino subito, siamo tutti bugiardi. Un pochino, tutti. C'è chi lo fa per mestiere (gli attori e i politici); chi per guadagno (imprenditori, banchieri, le prostitute); chi per infingardaggine (sempre i politici e quelli che non vogliono rotte le scatole); chi, in ultimo, per propensione naturale (quelli che non sanno fare altro e vi possono rientrare tutti gli appartenenti alle altre categorie succitate). Qualche volta mentono gli scrittori e i giornalisti, ma è un vezzo, una sbandata dell'ego distratto, un momentaneo riflesso condizionato dagli eventi, dai ricordi, dalle esperienze. Di solito sono i signori uomini - e non me ne vogliano - a mentire di più: noi donne siamo storicamente, culturalmente avvezze a prendere la realtà così come ci si palesa davanti agli occhi, un figlio è un figlio, bello o brutto che sia, buono o cattivo che sia; e anche nel mondo del lavoro è la stessa cosa. Dall'origine del mondo abituate a sfangare l'esistenza nel far quadrare il girone infernale di moglie-amante-madre-massaia-lavoratrice, non abbiamo bisogno di sdrucciolare sulla effettiva consistenza di questi ruoli. C'è chi lo fa, d'accordo, ma si tratta di una specie in via di evoluzione. In senso maschile.  Ma più che altro la menzogna nella donna assume le caratteristiche di un ornamento, di un arricchimento della realtà quotidiana, noi donne abbiamo il potere di rendere suggestivo un luogo che non lo è; di creare un'atmosfera vivacemente gioiosa o terribilmente tragica, anche se non vi sono i presupposti, nella realtà, per essere  felici oppure per precipitare nello sconforto. Possiamo definirci propense all'esagerazione dei sentimenti, a un'espansione dilatata delle nostre e altrui percezioni ed è una delle tante maniere di essere bugiardi. Quelli che però mi seducono con virulenta passione sono i mentitori cronici. Cioè quelli che non sanno di mentire o se lo sanno non vi fanno più caso, e saltellano, piroettano da una bugia all'altra con incredibile agilità. Difficile scorgere sui loro volti lo stigma della menzogna ( c'è tutta una letteratura sulla gestualità dei bugiardi), riescono a non battere ciglio; non arrossiscono, non si tormentano le mani e non si grattano il naso o non si titillano l'orecchio. Sgranano occhioni innocenti e rifilano menzogne. Contraddicendosi, colti da provvide e improvvise amnesie, marciano impavidi e a testa alta nella strada che hanno scelto. E se qualcuno fa notare loro una buca, un intralcio sulla loro strada, se qualcuno osa replicare "ma ti stai contraddicendo, alcuni giorni fa mi hai dato una versione diversa", non vi stupite se vi risponderanno "ah sì? non me n'ero accorto!" Con gli occhi innocenti ben piantati dentro ai vostri.


Amedeo Modigliani    -  Fotografia e ritratto di Celso Lagar  1915

martedì 2 settembre 2014

Sull'Ippogrifo.

In questo scorcio d'estate tentennante tra accenni di grigio nel celeste smorto, con lo scirocco che incendia le colline, si affollano pensieri e ricordi. Un'estate che si chiude e un'altra che si apre, come scatole cinesi vuote eppure misteriose. Se torno a quelle degli ultimi anni, mi appaiono informi, senza qualità, tutte egualmente piatte nella pigrizia assolata dei mesi caldi. Tranne una, recente, che svetta appuntita con le sue forbici capaci di recidere tutto, il passato dal presente e questo dal futuro.
Succede che ogni cosa proceda come dovrebbe; succede che tutto appaia confinato nella quotidiana, sudata monotonia. Senza scosse, senza attese: soltanto la certezza di un distacco, quasi accettato.
 Sono i fatti della vita, toccano un po' tutti: le vacanze e il mare e il solleone e la cucina estiva e le chiacchiere indolori e una serata con vecchi amici e poi, poi basta. Poi una partenza, un aereo che si porta via un pezzo di te. E l'autunno fa il resto e ti chiude nella sua dolcezza.E si pensa che sarà così ogni estate a venire. E invece no, quella che se ne è andata, avrà il potere di farti chiudere i conti con te stesso. Quei conti in sospeso di cui eri all'oscuro. Sarà perché ci si è distratti (il corpo si apre al sole e la mente si richiude); sarà perché si cacciano via quasi fossero zanzare e tafani, le ansie moleste; sarà perché le notti sono brevi e sguazzano nella birra ghiacciata; sarà perché la luna è così grande nel buio e crediamo di poterla raggiungere con un salto. Sarà per tutto questo e per molto altro ancora che dimentichiamo chi siamo e, spesso, chi sono i nostri compagni di viaggio. Poi arriva settembre e la prima pioggia, la notte si fa più lunga e la birra non ha più lo stesso sapore; la luna non è poi così lucente e così grande, ma soprattutto è talmente lontana che dovremmo cavalcare l'Ippogrifo per recuperare il nostro senno perduto. Ma non ve ne sarà bisogno, la vita si ripresenta, scomoda, pressante, vivace, rumorosa, e ci presenta il conto da pagare. Assieme al senno smarrito sulla tonda luna estiva.

Marc Chagall - Sposi sul cavallo alato.








Inizio modulo












Inizio modulo






venerdì 29 agosto 2014

La città di Hopper è la nostra.

Una brevissima riflessione su Edward Hopper, che amo molto, e sulla città di oggi. In particolare sulla mia.


La città che si intuisce nel realismo visionario di Edward Hopper,con le pompe di benzina deserte, gli interni di onirici bar, le forme geometriche dei palazzi, rappresenta perfettamente, ancora oggi, il concetto di agglomerato urbano moderna. La città che tiene  nel ventre, un’umanità  anonima di donne svelate nella loro nudità, in camere affacciate sulla notte; di donne sedute in un treno che non si muove; di coppie assenti l’uno all’altra.
I dipinti di Hopper sono notturni e silenziosi, raramente si accendono di luce; e se c’è, è sempre una luce sfumata di grigio, raccoglie la polvere e lo smog della grande città. In lui vi è la consapevolezza di essere l’occhio che scruta con apparente freddezza la realtà, per coglierne un attimo, per darle un senso di esistenza e di continuità temporale. Le sue figure, come gli oggetti ritratti, sono fissi eppure irradiano una straordinaria tensione dinamica. Della donna che guarda oltre l’angusto panorama della sua finestra, immobile sul letto, possiamo percepirne i pensieri o immaginarli; e la coppia di avventori nel bar continua a raccontare la sua storia, per sempre.
L’impressione che si trae nel porsi di fronte a una tela di Hopper è esattamente quella della partecipazione emotiva. Potrebbe sembrare eccessivo asserirlo, ma i suoi quadri fanno “ascoltare”  dialoghi e captare pensieri di silenziose e immobili figure; fanno sentire lo sferragliare sulle rotaie dei tram e il fischio di treni in partenza. Creano dalla visione, altre visioni: in altre parole costruiscono il ponte da attraversare perché chi ha la fortuna di friuirne, possa raggiungerla e contenerla. L’Arte.
L’ultima mostra di Hopper si è conclusa da poco  a Roma. Bene, cioè male per noi periferici cittadini della penisola, costretti a sobbarcarci delle spese di un viaggio se soffriamo dell’ esigenza di vedere, conoscere, comprendere. Che dovrebbe essere esigenza per tutti, per le scuole, per i giovani e per i vecchi. E come nei dipinti di Hopper noi viviamo nel grigiore di una città senza luce, come una donna da lui ritratta, spogliata e ripiegata su se stessa. 


Edward Hopper  Automat  1927  

lunedì 25 agosto 2014

Potrebbe essere.

E ora ci schiantiamo di botto. Finite le ferie, in larga parte per tutti, ricominciamo a destreggiarci nella realtà quotidiana. Sì perché abbiamo fatto di tutto per allontanarla, con tuffi in mare e scorpacciate di gelati e angurie, con drink e bevande fredde; e alcuni, impavidi e, perdonatemi, un poco tonti, con docce ghiacciate (tranquilli, non ne parlo,  sono certa che la solidarietà ha altre vie); altri in sereno relax nelle campagne magari con un buon libro tra le mani e gli uccellini cinguettanti. E la massa a rosolare nelle città, aspettando con più o minor pazienza la nuvoletta d’acqua. Le ferie sono obbligatorie si sa, ma tutti abbiamo, obtorto collo, sentito e visto cose che non avremmo voluto né ascoltare, né vedere. Per non rovinarci le vacanze, per non guastarci il bagno o la doccia che sia.
Ora si riprende, le scuole riapriranno i battenti, il lavoro (?!?!) assorbirà energie e pensieri,  insomma la vita ripercorrerà le solite strade. E noi saremo costretti a riaprire gli occhi e a tendere le orecchie. Saranno catapulte allora, saranno pallottole e non ci procureranno gioia. Ci accorgeremo che ci sono conflitti orribili accanto a noi; che la gente muore per la mano violenta di assassini indottrinati o di rancori dalle radici rancide e corrose; ci accorgeremo che la politica internazionale è poca cosa e quella nazionale meno ancora; ci imbatteremo ancora e ancora nello spread e nelle agenzie di rating, con i loro epitaffi sulle economie più deboli (e noi non è che siamo messi bene!); e torneremo a litigare, facendo larghissima eco ai nostri impareggiabili politici, per questo o quello, partito, movimento, lista, listino, menù e tutto il resto. Come prima delle sospirate vacanze, troveremo ospitalità in un ambiente molto familiare, nel senso di conosciuto e non di gradevole, ovviamente.
Epperò, potrebbe, dico potrebbe, anche essere un incubo! Forse si tratta solo di un incubo prodotto dall’ultima indigestione prima della fine delle ferie, un incubo tremendo. E quando ci saremo svegliati, ah sì! apriremo gli occhi su un mondo meraviglioso: niente guerre né violenze né orrori né odio né corruzione né ragazzi senza lavoro né spread né agenzie di rating e soprattutto niente politici nei talk a sbraitare, inconcludenti e bugiardi.

Potrebbe essere. 


Foto di Arthur Tress

Lettori fissi