martedì 25 novembre 2014

Fruscìo

I ricordi si sovrappongono alla vita dell'oggi, alle aspettative del domani. Rimangono impigliati nelle trame dell'esistenza, molesti insetti e splendide farfalle che si agitano senza mai riposare, emettendo un incessante fruscìo.


Fruscìo

Batte il tonfo nella notte
ricadi ancora supina forma
nella libertà degli Inferi
della tua mente impietosa.
Un vortice schiaccia il tempo
un tumulto scardina le porte
da me incustodite, ignara vestale
del tempio sconsacrato agli Dei.
I cancelli stridono, stridono.
Chiudono i giardini al mio occhio cieco.
Non disseterò mai più la mia erba,
vedrò germogli bruciati e lande brune.
Sono reclusi gli anni, calpestati
da molti piedi stranieri.
Mi chiamano ancora, hanno voci
di antichi amori, oscillano e si tuffano.
Del mio cuore dilatato nel nuovo spazio.
piccole ninfe siete, amorose parole.
bisbigli di canzoni, fruscii di erbe smosse
venite fuori dall’ombre, incontro a me venite.



venerdì 21 novembre 2014

Ossessioni? No, solo ombre.

Scivolando, saltellando, inciampando qua e là per il web, in particolare nei social, mi capita, sempre più spesso di imbattermi in post, stati, e relativi commenti rivelatori di una società assillata. Anzi ossessionata. Le ossessioni che sbucano come funghi dopo la pioggia e che bucano le menti come spilli e spilloni, sono, per lo più, riconducibili alla sfera sessuale e, in misura minore anche se imponente, a temi di vario fanatismo - religioso e a-religioso; politico e apolitico; razzista in tutte le salse, e cioè contro le donne e contro gli uomini, contro i neri e i gialli e anche i visi pallidi, insomma contro tutto e tutti. Non ultima, l'ossessione culturale, farsi riconoscere come appartenente a un livello intellettualmente superiore è molto, molto cool. Quelle più divertenti, quando non superano il limite del sempre valido buon gusto, sono le ossessioni inerenti al sesso. Basta fiondare sullo schermo un'immagine appena appena allusiva, non so, una trasparenza, un vedo e non vedo, un abbagliante spicchio di pelle, sapientemente dissimulato e quindi supremamente intrigante, che il picco dei like e dei commenti degli utenti maschili, ecco che si impenna. E il testosterone trabocca e vola felicemente attraverso l'etere. Ora dico io, non è che la cosa crei un particolare fastidio, facciano pure, lor signori e anche loro, le maliziosissime fanciulle (anche in là con gli anni, a onor del vero), ma che, almeno si rendano conto nel reiterarsi quotidiano delle loro abituali performance dialettiche sul web, che rischiano di diventare succubi di un'ossessione. Virtuale certo, ma sempre di ossessione si tratta. E le ossessioni fanno presto a disorientare. Si finisce, prima o poi, col pensare sempre più a una sola cosa e si perdono di vista tante altre cose (e persone), quelle sì, reali e accoglienti. E il discorso è valido per tutti, tanto per la stralunata utenza maschile, quanto per quella femminile, assillata, a sua volta, dal desiderio di conferme del proprio potere seduttivo, e dalla voglia di galanterie, più o meno esplicite ed eleganti. Ma davvero abbiamo necessità, noi donne, di conferme da qualcuno senza identità alcuna, se non quella che appare? A me sembra di no, o quantomeno, non dalla rete. Le conferme di ciò che siamo, fisicamente e intellettivamente, dovremmo leggerle altrove, non sullo schermo lucentemente morto di un pc. Dovremmo leggerle negli occhi di chi ci vive accanto, di chi ci conosce e ama: anche, e forse meglio, per le nostre piccole manie, per le nostre incertezze, per le cadute improvvise, per le fobie e per gli assilli che, come  buchi neri tra le stelle, regalano ombre ammalianti ai nostri occhi.

 Foto di Jacques Henri Lartigue

domenica 16 novembre 2014

La libertà di non ascoltare.

Non c'è frase più esaltante: "Io sono un essere libero". Come non esserne fieramente convinti, come non provare un senso di grandezza nel pronunciarla? La consapevolezza della propria libertà dà anche un senso di onnipotenza, di pienezza. Rappresenta il compimento del cammino.Ci sono, però, uomini e donne che a questa consapevolezza teorica, non hanno mai affiancato la corretta applicazione di questa teorica libertà a quella che risulta essere poi la reale condizione umana e delle loro esistenze, in particolare. Il sentirsi intimamente liberi, implica il potere di scegliere una cosa anziché un'altra; di decidere del proprio presente nella visione di un futuro; spesso, tuttavia, questo non basta, non è stato  e non è sufficiente per molti uomini e donne. Poiché dimenticano che la libertà ha delle regole, senza le quali cessa di esistere. Essere liberi non significa esserlo ad libitum; la libertà piena si ottiene, al contrario di quanto si sarebbe portati a sperare, quando si è capaci di "liberarsi" da istinti e pulsioni narcisistiche ed egocentriche, tanto gratificanti sul momento, quanto distruttivi in prospettiva di un'attività lavorativa, di una relazione sentimentale, dei rapporti sociali in genere. C'è sempre in ciascuno di noi - un pizzico di autocritica non guasta -  la solita, maliziosa vocina che ci spinge, in un determinato frangente della nostra vita, a lasciarci andare, a superare il limite della decenza e della morale, senza provarne, all'istante, grande rimorso o senso di colpa che sia. Piuttosto, ci pare di spiccare il volo, di esserci alleggeriti dai gravami del buon senso e del buon gusto: in breve, ci inebriamo della nostra, supposta, libertà. E ci accomodiamo sulla mongolfiera, privata dalla zavorra, veleggiando verso territori fascinosamente ignoti. Ma l'ebbrezza ha un effetto rebound, e la mongolfiera si affloscia presto, facendoci precipitare nella nausea del dopo sbronza. E allora? Allora, forse faremmo meglio a essere più cauti nelle nostre consapevolezze, bandendo l'illusoria presunzione di essere abilissimi timonieri.
Essere liberi non vuol dire assecondarsi, dare ascolto e poi voce a quella parte di sé che pretende la soddisfazione di un'esigenza (spesso fittizia). Sono certa, per esperienza diretta, che sia altro, anzi tutto il contrario. Per me ha il senso di una "redenzione" di quella parte buia del nostro io o quanto meno ha il senso della nostra capacità di ricacciarla, quella porzione di noi, nell'oscurità e che lì giaccia sempre.
Oggigiorno scorgo tanti ragazzi e ragazze che aspirano ( mi ricordano un po' i nostri avi irredentisti) alla libertà. Dalla famiglia d'origine per poter scegliere se averne una "tutta" loro; dalla paura di non  valere niente; dalla convinzione di  essere condannati a un eterno precariato di lavoro e di affetti.
Aspirano all'autonomia, dai padri e dalle ansie. E perché ci riescano, devono essere indipendenti economicamente, in soldoni, devono avere un lavoro e non con paghe da fame che continuerebbero a mantenerli nella condizione di non-libertà.
Oggi ci vorrebbe il lavoro, ecco questo rappresenterebbe la libertà per i giovani. Ma questo è un altro discorso, scusate, la lingua batte dove il dente duole.

Foto di Robert Mapplethorpe

martedì 11 novembre 2014

Una coscienza diversa

"Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta."  (...) Non vi dirò che non val nulla, se per voi    è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la vostra. Ma sì. Tanto diversa dalla mia.   (tratto da "Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello)

 Mai come in questi giorni le parole di Pirandello mi sembrano perfettamente attinenti a tutto quello che accade. Abbiamo assistito a una sequela di assoluzioni in vari processi e non starò qui a ricordarli tutti. Mi limiterò a riportare che, per tutti o quasi, non erano sufficienti le prove a carico o il reato non era ascrivibile ad alcuni degli imputati o essi stessi erano estranei al reato.Ne prendo atto, con una certa amarezza, ma ne prendo atto. Nel processo per il terremoto de L'Aquila, quello che però mi ha emotivamente colpita è stato lo sconcerto e la rabbia di chi gridava "vergogna" da una parte, e dall'altra l'apparente serenità d'animo espressa da alcuni imputati-assolti e, in particolare, quella espressa da un magistrato che, rispondendo alle domande di un giornalista, si definiva "in pace con la coscienza e con Dio". Purtroppo non ne ricordo il nome, ma ne invidio le certezze. Ecco, io non sono così sicura della mia coscienza, come Pirandello scrive, non vale nulla perché c'è quella di altri. Però, sempre citando Pirandello, la mia è diversa.E tornando a più umili e ordinari fatti, anche nella vita quotidiana si inciampa in moltitudini di coscienze. C'è, ad esempio, la coscienza di chi sa con ferrea sicurezza, a chi rendere merito nel lavoro svolto. Lo sa con la ferrea certezza dovuta ad anni di assuefazione, rassegnata o no, al nepotismo più sfrontato e al clientelismo; lo sa in quella maniera, ipocrita e arrogante, per mezzo della quale si muove nella società, acquisendo consensi e simpatie, più o meno devote. Sa a chi rendere merito, immeritatamente, a scapito dell'onestà e della riservatezza, dell'educazione e della laboriosa applicazione, dell'intelligente capacità di assolvere ai compiti assegnati senza degradare la propria coscienza.
Che è, per l'appunto, una coscienza diversa.





venerdì 7 novembre 2014

Monocromia

La città è di un unico colore, si è tinta di piombo come il cielo che pare avvolgerla. Le cupole si distinguono appena e gli alberi, ora immobili, se ne stanno zitti e bagnati, giù nel parco. Le strade di lava nera brillano, lasciando scorrere un'acqua melmosa di foglie e di carte marcite; il temporale ha lasciato un sentore sulfureo nella caligine. Non vi sono rumori, pare che si sia addormentata, la città altrimenti chiassosa. Ma non mi spaventa tutto questo scuro abbassarsi del cielo, mi offre una sensazione di calma, come l'attesa pigra di qualcosa: Il vento ha smesso da alcune ore di strapazzare tetti e terrazzi, concede una tregua alle orecchie; ieri fischiava, era un treno impazzito, e mulinava sulla città, portandosi via tutto quello che gli sbarrava la corsa. Il vento sì, mi incute un'angoscia perfida, che si insinua nella mente e sibila e poi sbraita: sembrano grida velate, i suoi respiri sulla città. Ma oggi no, oggi il cielo brontola,  è un vecchione catarroso.
In questo giorno senza luce, senza i colori del nostro bellissimo novembre, il mondo appare distante, talmente che si potrebbe dimenticare che ci sia altro; e la politica e l'indefesso vociare e le istanze furenti di giustizia e di lavoro, si sciolgono nel grigio, in un acquerello nebbioso. Se la pioggia potesse lavare tutto, stemperare ogni singola parola di menzogna, ogni stupida promessa; se andasse tutto a defluire nei tombini, proclami fantasiosi, accordi fantasmagorici, velleitarie aspettative e decisioni, tutto si mischierebbe alla melma, dove è meglio che resti.
Noi, scampati ai vortici della natura offesa, restiamo al chiuso delle case o rientriamo in esse, senza parole e senza pensieri per un giorno. Soli o in compagnia di chi ci è più caro, ad assaporare dai vetri punteggiati di gocce la città grigia e muta.

sabato 1 novembre 2014

L'Idra di Lerna mi divorerà.

Non è mia abitudine mettermi su queste pagine con assiduità giornaliera, ma ho il petto colmo di amarezza, il cuore che batte al ritmo di una rabbia furente.
Non ce la faccio più a vivere in un Paese così, la misura è stracolma, la tentazione di fuggire è tanta.
Ieri i media hanno diffuso due notizie, la prima riguardante l'assoluzione, nel processo  sulla morte di Stefano Cucchi, di tutti gli imputati; la seconda, la prescrizione del reato nel processo d'appello contro il ministro Claudio Scajola. E nel processo di primo grado era stato assolto, perché nell'acquisto della ormai famosa casa con vista sul Colosseo, non vi era stato dolo da parte sua. In poche parole, a caval donato non si guarda in bocca e che colpa può mai avere il tapino, se un tale magnanimamente gli ha voluto elargire una regalia da un milione di euro? Capita a tutti noi, no? E se non è ancora successo, è solo colpa nostra che, poveri scemi, non abbiamo saputo scegliere le amicizie giuste.
Due sentenze  dunque e se ne dovrebbe essere lieti, se giustizia fosse stata fatta. Ma non è così. E se nel caso del politico, anima candida siccome un giglio, la vicenda suscita lo sberleffo e un triste sarcasmo; nell'altro, quello del giovane morto non si sa come -  anzi no, si suggerisce l'ipotesi di un suicidio dovuto all' inedia consapevolmente voluta da lui stesso - l'epilogo suscita uno sbigottimento attonito come se non si volesse credere a ciò che si sente, e subito dopo, una collera sorda e il rifiuto sdegnato di accettarla quella sentenza.
Penso ai genitori e alla sorella di Stefano che hanno visto quel cadavere, figlio e fratello un tempo, macchiato dalle ecchimosi, gli occhi pesti, segnato da fratture; penso a loro che hanno collaborato con le istituzioni, confermando dolorosamente la tossicodipendenza del loro ragazzo, ma fiduciosi di conoscere la verità di quel corpo spezzato e denutrito. Vorrei abbracciarli e dirgli che sono con loro, che sto dalla loro parte, che anche io voglio la verità.
Mi rimane questo gusto fangoso nella bocca, questo miasma nelle narici, questa sensazione di sporcizia. Come se anche io fossi caduta nella palude fetida dell'Idra, il mostro a nove teste che è pronto a divorarmi.

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