venerdì 7 novembre 2014

Monocromia

La città è di un unico colore, si è tinta di piombo come il cielo che pare avvolgerla. Le cupole si distinguono appena e gli alberi, ora immobili, se ne stanno zitti e bagnati, giù nel parco. Le strade di lava nera brillano, lasciando scorrere un'acqua melmosa di foglie e di carte marcite; il temporale ha lasciato un sentore sulfureo nella caligine. Non vi sono rumori, pare che si sia addormentata, la città altrimenti chiassosa. Ma non mi spaventa tutto questo scuro abbassarsi del cielo, mi offre una sensazione di calma, come l'attesa pigra di qualcosa: Il vento ha smesso da alcune ore di strapazzare tetti e terrazzi, concede una tregua alle orecchie; ieri fischiava, era un treno impazzito, e mulinava sulla città, portandosi via tutto quello che gli sbarrava la corsa. Il vento sì, mi incute un'angoscia perfida, che si insinua nella mente e sibila e poi sbraita: sembrano grida velate, i suoi respiri sulla città. Ma oggi no, oggi il cielo brontola,  è un vecchione catarroso.
In questo giorno senza luce, senza i colori del nostro bellissimo novembre, il mondo appare distante, talmente che si potrebbe dimenticare che ci sia altro; e la politica e l'indefesso vociare e le istanze furenti di giustizia e di lavoro, si sciolgono nel grigio, in un acquerello nebbioso. Se la pioggia potesse lavare tutto, stemperare ogni singola parola di menzogna, ogni stupida promessa; se andasse tutto a defluire nei tombini, proclami fantasiosi, accordi fantasmagorici, velleitarie aspettative e decisioni, tutto si mischierebbe alla melma, dove è meglio che resti.
Noi, scampati ai vortici della natura offesa, restiamo al chiuso delle case o rientriamo in esse, senza parole e senza pensieri per un giorno. Soli o in compagnia di chi ci è più caro, ad assaporare dai vetri punteggiati di gocce la città grigia e muta.

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