mercoledì 29 aprile 2015

Mediterraneo

Ho pensato al mare. Una presenza invadente qui, vivo su un'isola. E il mare è ovunque, anche se dista chilometri, il cielo ha un colore diverso, a volte è celeste, azzurro, ma con sfumature di verde. E l'odore ti afferra alle narici e le piante sono smosse dal vento che sa di sale e sabbia. Il mare, sale e vita. Un tempo, non più.

Mediterraneo


Abbacinato d’azzurro abbracci
la rena bianca, vi affondi il corpo
con dita salmastre tra sassi di vetro
conchiglie rotte e sterpi mossi dal vento.
Respiri piano nello scroscio dell’onde
ti muovi rotolando, ti ritrai schiumando
torni nel ventre cupo tra festoni d’alghe.
Il sole illumina l’occhio di un pesce
di bagliori sanguigni, fisso nel tuo.
Cala la sera nel silenzio scuro e vibrante
di stelle e granchi e tu dormi, tu dormi.



sabato 25 aprile 2015

Molte emozioni che pressano.

Giorni intensi. C'è una ressa di pensieri, di emozioni che si agitano e vorrebbero venire alla luce, vorrebbero trovare la via. Ma questa non c'è, è sepolta sotto coltri di sabbia, la sabbia dell'apatia e dell'indifferenza, alla fine.
Ascoltavo, poche sere fa, un giornalista ribattere a un altro, che "i migranti ricchi sono bene accetti", aggiungerei, sono riveriti e omaggiati, cercati e serviti. Penso al premier britannico che, in uno slancio di micragnosa generosità, si dice propenso a concedere una portaelicotteri, qualche elicottero, forse due navi da ricognizione, per l'emergenza mortale che insanguina il Mediterraneo. Ma poi, pollice verso, niente accoglienza sul verde suolo d'Albione, per nessun rifugiato. Certo, Londra e anche le altre città dell'isola straripano di immigrati, da tutte le parti del globo. E molti detengono ricchezza e status, molti hanno in mano una discreta fetta dell'economia britannica. Ma quelli hanno messo la bombetta nella city, sono in giacca e cravatta; e se, ancora, si ostinano a portare la kefiah, si chiude un occhio e si aprono i forzieri. Certo, gli altri, i nuovi migranti, sono coperti di stracci, puzzano di morte e di guerra. Meglio starne lontani.
E in Italia c'è chi ne esulta e lo abbraccerebbe pure. Sui gusti non si discute, anche lo squallore dell'animo umano ha un suo fascino.
Tante emozioni, e ieri centinaia di palloncini hanno accompagnato una bambina nel suo viaggio, su per il cielo, a giocare con nuvole e stelle, finalmente libera dal male, finalmente nel silenzio che lei riesce a sentire, che con lei parla.
E oggi, la Festa della Liberazione. Dal nazifascismo e qui faccio salti all'indietro e torno ad avere vent'anni, torno alla mia ribelle voglia di cambiare, che sogni, non solo me stessa, ma il mondo intero. Torno alle liti furiose con il padre, torno al fazzoletto rosso legato al collo, agli occhi spalancati e fiduciosi. Ai cortei di studenti che sbandavano e ridevano. Eravamo così giovani, così goffi e così sicuri.
Stasera sono qui e le emozioni mi pressano e sono diverse, ho in testa molte cose: barche d'umanità sul mare, palloncini che salgono nell'azzurro, una ragazza che cantava felice, bella ciao.

domenica 19 aprile 2015

Basta un clic.

Io non ho poteri, ma ho voce e occhi. E quelli che mi leggono hanno voce e occhi per gridare e per vedere. Quello che, da anni, accade nel Mediterraneo è quanto di più iniquo, feroce ci sia, perché avviene con il silenzio di tutti, dell'Europa, del mondo.  Non basta più esprimere il cordoglio per le vittime, è un atto di vile ipocrisia, se dopo si voltano le spalle. Non basta più mandare, ogni tanto, qualche politico, un ministro, un esponente del Parlamento Europeo a Lampedusa perché sfilino davanti alle salme recuperate dal mare. Non hanno il coraggio di guardare i vivi, coloro che sono scampati alla morte, non hanno la forza e la dignità di guardarli negli occhi.
Oggi sono annegati in 700, forse meno, forse di più. Il Mediterraneo è un'enorme bara, il mio mare azzurro è un mare nero, di morte e dolore. Non è possibile fingere che non sia così, non è una pagliuzza, è una trave. Ci siamo stretti, da ogni parte del mondo, alla Francia per l'attentato alla libertà di stampa, eravamo tutti Charlie Hebdo. E ora? Restiamo avvolti nel silenzio. Morti, anche noi, come quei disperati. Cos'è che ci rende muti? Sono, dunque talmente lontani da noi da meritare l'oblio? Oppure, come qualcuno afferma, iene e sciacalli sotto umane spoglie,  dobbiamo averne timore, cedere al panico dell'untore? Di chi, con la pelle nera e il corpo stremato dagli stenti, con le diverse usanze e il credo religioso diverso,ci usurperebbe di tutto?
E la Storia non ha senso, l'Olocausto, i genocidi perpetrati, non contano, allora.
Chiudiamo gli occhi, tappiamo le orecchie, facciamo tabula rasa del passato, non più vittime, non più eccidi. Solo carnefici. Carnefici dei tempi nostri, non più sanguinari dittatori, no, non occorre. Basta un clic, per non vedere, per non ascoltare. Basta girare la testa dall'altro lato e il mare inghiotte i resti.

giovedì 16 aprile 2015

Come in un labirinto.

Come cirri vaporosi in un cielo terso e azzurrissimo in estate. Così mi appaiono, nella mia visione irrimediabilmente fantasiosa della vita, poetica forse per scappare a gambe levate dalla prosaicità del quotidiano, così mi appaiono i  comportamenti, le parole, gli interessi e le passioni anche, di molte persone. E non ce la faccio a capirne il motivo, mi lambicco le meningi. Oddio, una certezza c'è ed è bella e spiattellata davanti a tutti noi: la situazione del momento storico è, a dir poco, schizofrenica. Viviamo in un labirinto di informazioni che ci piovono sulla testa, ogni santo giorno, e non sono, solitamente da esultare, guerre, stragi, crisi economiche spaventose, povertà in aumento, quando non ci si mette di mezzo anche lo scoop della malattia devastante, che potrebbe annientare l'umanità. E noi tutti, viandanti per caso, ci perdiamo nel labirinto e l'orientamento va a farsi benedire. Le personali sicurezze si attenuano fino a scomparire; quelle che un tempo credevamo essere le nostre saldissime opinioni, vacillano come statue con i piedi d'argilla. Disorientati, sfiniti, ci barcameniamo, alla meno peggio, nel mare magno delle offerte che ci propinano i media e la politica, soprattutto, eterna mezzana. Ed è facile non raccapezzarsi più, è facile finire con il non capire più niente, scambiare fischi per fiaschi, montagne di spazzature per monti innevati, rigagnoli di liquami per torrenti alpini. Come fossimo sotto l'effetto di una perenne fata Morgana.
In questo modo, tutto si distorce, le parole sono solo suoni incomprensibili, la scrittura si trasforma in una serie di segni inintelligibili. E cadiamo nella trappola della non consapevolezza, cediamo al flusso dell'incoerenza. Se solo tornassimo indietro, se solo ci imponessimo di comprendere ciò che leggiamo, o di ascoltare non solo con le orecchie, ma con cuore e cervello, le parole degli altri. Se solo ci riappropriassimo della nostra coscienza, l'accarezzassimo come la più bella delle amanti. Avremmo forse la gioia di ritrovarci, di ritrovare noi stessi e le nostre passioni, la nostra perduta coerenza.

domenica 12 aprile 2015

Niente è cambiato.

Proprio per questo, perché ieri e oggi,  da poco tempo, le mie giornate trascorrono in una inattesa quiete, quasi una serenità morbida e leggera come la carezza di mia madre; proprio per questo la notizia della morte del piccolo Checco, ucciso da un cancro nella Terra dei Fuochi (nella Campania felix del mondo latino, oggi brutalmente saccheggiata dalla camorra e dalla politica ignava e disonesta) mi ha lacerato il cuore. Nella testa, il pensiero, la preghiera di sempre, i bambini non si toccano. Sempre inascoltata, sempre reietta. Mi sento incapace ad accettare, lo sono ancora nonostante la maturità degli anni, nonostante gli innumerevoli disinganni della vita. La morte degli innocenti non posso e non voglio accettarla: è immorale, è crudele.
Penso a Checco e, con lui, penso alle moltitudini di bambini che aspettano che il mondo si accorga di loro, che aspettano di vivere, anche loro come tutti gli altri bambini più fortunati. E a loro dedico questa mia, scritta venti anni fa. Niente è cambiato.

Ballando 1995

Ballando abbracciata
all’idea spezzata
come ossa di case
nei campi bruciati,
al sogno negato
dei bimbi ingannati
dal gioco mortale,
mi volgo al gran salto
al di là del duemila.
Privilegio invitante
che il tempo mi dona
senz’altra richiesta
del non ricordare.
Ballando ballando
mi reco alla festa.


martedì 7 aprile 2015

Occhi come il caffè.

Si chiamano Angela, Alex, Elisabeth, Veronica, Oliver, Maria, Ruth. Hanno dei nomi, dei visi, delle storie. 

Avevano delle speranze. «Non sono solo numeri»

Con queste parole inizia l' articolo di un settimanale, scrivendo degli studenti massacrati dalla furia cieca

 di esseri ai quali non riesco a dare un'identità, né sociale, né antropica, né politica. Solo esseri. Striscianti 

nell'ombra, coperti dal nero delle bende e delle coscienze. Anime nere.

Ragazzi e ragazze come tanti, come i nostri figli, chiassosi e variopinti, allegri e arrabbiati, li immagino 

chini sui libri a studiare, li vedo passeggiare mano nella mano con chi amano, i ragazzi e le ragazze che si baciano 

diceva un poeta, e poi correre, correre verso la vita, senza sapere cosa ci sarà, corrono leggeri perché hanno sulle 

spalle un sacco di piume, il peso lieve dei loro sogni. E invece si sono trovati a correre per evitare la morte, per 

sfuggire  allo strazio. Erano cristiani e musulmani, frequentavano la stessa università, e gli assassini hanno operato 

una cernita, hanno scelto i cristiani e si era nei giorni che precedono la Pasqua. Un martirio, forse nell'ottica 

sanguinaria della follia, un martirio per irridere a quell'altro, di duemila anni fa. Ma non importa, a me non importa

la religione che quei ragazzi e quelle ragazze professavano, erano solo giovani, con i loro nomi e con  le loro 

speranze  uccise, 

Siamo stati tutti, tre mesi fa, francesi, "je suis Charlie" era dappertutto. Oggi, abbiamo tanti nomi, oggi siamo tanti 

ragazze e ragazzi. Non ho visto la stessa partecipazione, forse perché il Kenya è più lontano, troppo. La distanza 

geografica tiene lontani i cuori, forse, i pensieri, la commozione. Ma li ricorderemo, certo che li ricorderemo e non 

nella macellazione che ne hanno fatto;  li ricorderemo come erano e come restano per sempre, affacciati alla vita. 

sorridenti e seri, con le loro vesti multicolori e le acconciature estrose e gli occhi come il caffè, gorgogliante, 

profumato, dolceamaro. 




Gallery Watatu  - Nairobi, Kenya



Gallery Watatu | Nairobi, Kenya
Gallery Watatu | Nairobi, Kenya

Gallery Watatu | Nairobi, Kenya

giovedì 2 aprile 2015

Essere materni, sì uomini.

Ci sono ore trascorse del passato che restano come astri brillanti appesi al cielo, nella memoria. Momenti di beatitudine gioiosa, legati fra loro dalle parole e dai gesti semplici di un pomeriggio tra donne. La tazza con il tè che riscalda in inverno, una spremuta fresca in giardino sull’erba sdraiate, in sonnacchiose estati. Momenti di chiacchiere tenere, di confessioni spontanee, di sorrisi e, qualche volta, di occhi lucidi. E di repentini scrosci di risate, seguiti da pause dolci, magari sgranocchiando un biscotto, pause di silenzio interrotto dai suoni della vita, bambini che giocano e gridano, uomini che commentano lo sport, adolescenti che bisbigliano segrete emozioni. Sono queste le ore che mi fanno far pace col mondo e con le sue strambe leggi. Con i suoi errori impietosi, le sue angosce tristi e ferali. E sempre, queste ore trascorse del passato, sono percorse dai passi leggeri di donne. Di noi donne, con la testa per aria a sognare l’impossibile e con i piedi per terra a marciare diritto, badando che ci siano tutti, uomini e bambini, a marciare con noi. Che nessuno di loro si perda. E ne traggo una quiete felice, la consapevolezza della nostra capacità di mostrarci, di condividere, di vivere i sentimenti senza timore. In questi ricordi, vividi come dipinti, gli uomini sono assenti. Un caro amico, pochi mesi fa, mi diceva:”Occorrono grandi madri per educare gli uomini. Perché gli uomini hanno necessità che qualcuno li educhi ai sentimenti.” Concordo. Non è sempre così, ma in molti casi lo è. Se si provasse a chiedere agli uomini se sentono di essere stati educati al sentimento, parecchi di loro, alzerebbero gli occhi al cielo, scrollerebbero le spalle, incrocerebbero le braccia (in postura auto difensiva), sorriderebbero imbarazzati e un poco perplessi. E tanti di loro penserebbero: “Ecco! L’ennesima menata delle donne.” Allora, che ne direste, miei amatissimi diletti signori uomini, di essere più propensi al sentimento? Di essere accoglienti, generosi, “materni” e non paterni? Potreste scoprire qualcosa di voi, sconosciuta fino a oggi, ma molto piacevole e gratificante. E lo stesso invito lo rivolgo a certe giovani donne che hanno mutilato una parte di sé, il lato materno dell’accoglienza, della comprensione generosa. Per un malinteso senso di una “virile” responsabilità nei confronti della società attuale. Non occorre prendere a prestito dagli uomini la forza e la risolutezza nel lavoro, ne abbiamo da vendere. Straripiamo di energie, siamo fiumi in piena. Senza per questo, abbandonare, come fossero detriti, la materna accoglienza, la generosa comprensione degli altri. E di noi stesse, magari.


Edouard Manet
Le Déjeuner sur l'herbe 1863


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