venerdì 27 maggio 2016

Le parole nello specchio.

Io non mi capacito. Non mi rendo conto, non voglio rendermene conto. Mi ostino. Quello che  dà la stupefatta smorfia di dolente contezza alla mia faccia, quello che mi fa sgranare gli occhi, quello che mi induce alla tristezza, è sempre, sempre, la superficie patinata di ciò che leggo nei post e nei commenti del web. Poche le eccezioni; moltissime le citazioni, spesso non attribuibili all'autore chiamato in causa; sovrabbondanti le frasi di melenso sentimentalismo -cuore, sole, amore - a mazzi, a fiotti, a secchiate, gli alti pensieri sull'amore e sull'amicizia - e questi vincono in like il primato assoluto - ; e poi tutto il resto, tutto quello che è necessario mettersi sotto il naso e davanti agli occhi pur di non pensare, pur di evitare quella che è la reale essenza della vita.  Ma il web non è la vita reale, è solo l'ectoplasma delle nostre esistenze: un'allucinazione passeggera che lascia intravedere appena gli smarrimenti di ciascuno di noi. Smarrimenti e ansie camuffati con la risata di un selfie, con un gelato alla cioccolata, con un fiore. E il mondo, quello vero, fatto di terra calpestata, di città selvagge e inquinate, di mare che ammucchia nei fondali cadaveri, di milioni di piedi che marciano verso l'ignoto doloroso, di milioni di giovani che cercano dentro se stessi un motivo per sperare, questo mondo che pulsa come un unico lacerato cuore, resta fuori, apparentemente dimenticato. Volutamente dimenticato.
Io non mi capacito anche del cinismo, involontario anche, quello sottile e intelligente, quello ben scritto, confezionato in pacco regalo si direbbe, quello che molti accolgono con entusiasmo e con  plaudente condivisione.
Io non mi capacito forse perché sto invecchiando e sono stanca delle mistificazioni e vorrei che le parole avessero chiarezza, nitore, semplicità.
Vorrei che le parole diventassero specchi in cui riflettersi e vedere riflessi gli altri. Specchi di perfetto cristallo nei quali scorgere un'impercettibile verità. Come una linea luminosa, le parole, specchio di quello che siamo.

Henri de Toulouse Lautrec  "Donna nuda di fronte allo specchio"  1897

mercoledì 18 maggio 2016

Venne poi un vento.

I ricordi si mischiano ai sogni e non riesci a distinguere cosa sia sogno o memoria. C'è sempre, però, quel frullare come d'ali nel vento che sappiamo riconoscere.

Venne poi un vento. 



Venne poi un vento notturno si levò gridando
Dalle scale si arrampicò fino al silenzioso sonno
Squassò ordinate stanze spezzò precari cuori
In mille rivoli di linfa sparpagliati giacquero.
Tutto sapevi in quella notte,  il vento ti soffiò
Parole tremanti  all’ orecchio e le accogliesti
Ignara e fiduciosa che fosse un sogno sospinto
Dalle Furie avide di vendetta per il tuo lieto vivere.
Il vento portò via Amore e non lasciò le tracce
Esili luci  bagliori spettrali stanno negli angoli
E scompaiono al tocco della mano che cerca
d’afferrarli,  riponili con cura nel cassetto.
Brandelli di voci e di giocose risa sfrecciano
Verso il cielo e sembrano nere rondinelle
Ma tu sai, tu le conosci le nere rondinelle
Nell’alba di questa primavera torneranno ancora.


Andrew Wyeth   "Wind from the sea"  1947















venerdì 13 maggio 2016

E lo disse il Poeta.

Finalmente l'Italia ha una legge sulle Unioni Civili. Finalmente possiamo dirci, anche noi, un poco civili, almeno in questo campo. Non è di certo finita qui, ma no che non è finita la questione! Già s' odono gli squilli di tromba che chiamano a raccolta i legionari della Famiglia Sacra, marito virilmente uomo, moglie leggiadramente femmina. I figli, ovviamente, in questo centro amorevole e virtuoso.
Per questa volta l'argomento figli è stato chiuso, rimandato al prossimo ventennio. Quindi, se da una parte molte coppie di fatto, etero e omo, festeggiano, dall'altra si affilano, per brandirle sopra la testa dei malcapitati, le spade.
E io resto sempre più sconcertata dalla pochezza della mente umana.
Cosa c'è che turba tanto le coscienze degli appassionati sostenitori della famiglia tradizionale, ovvero di quel nucleo di persone al quale un'educazione arcaica ci ha consegnati? Qual è il batterio che ha scatenato il focolaio? Se interpellati, questi signori e queste signore pronti a immolare tempo ed energie nel nome della santità e legittimità del vincolo matrimoniale, risponderanno che non hanno nulla da obiettare contro l'amore gay, né tantomeno contro le convivenze tra etero. Per loro va benissimo tutto, purché si svolga nell'ombra, nel chiuso delle case, e senza che si accampino scandalosi diritti: trovano forse scandaloso che chi ama voglia accudire nel luogo della sofferenza, la persona amata? Trovano forse scandaloso che chi ama voglia pensare al futuro dell'oggetto del proprio amore, qualora uno dei due dovesse venire a mancare? Ma non è amore questo? Ma non sono anche queste le naturali, normalissime conseguenze dell'amore?
In nome di cosa si possono negare i diritti agli esseri umani? Non  in nome della religione, per carità! Smettiamola di metterla in mezzo, smettiamo di usurpare il nome di Dio - non saremmo meno fanatici dei jihadisti -  smettiamo di usufruirne, come una captatio benevolentiae per appropinquarci meglio dagli inferi al Cielo.
E allora? Ancora una volta, anche in questo caso, penso che la motivazione giusta che spinge moltissimi (no, non i politici, quelli volgono i loro testoni,  da una parte o dall'altra, per mero opportunismo) a vociare, a scalmanarsi nelle piazze, ad assentire fervorosamente ai novelli tribuni, agli appesantiti consoli che invocano il referendum; penso che la motivazione sia la paura. Il timore delle diversità, dei cambiamenti, delle tradizioni offuscate, della precarietà del loro ruolo in questa società. In fondo, fino a oggi, la famiglia tradizionale ha rappresentato il baluardo da ergere contro le avversità. Perché non accettare che anche chi ha fatto scelte differenti lo eriga questo baluardo?
Per me è una questione di sentimenti, di affetti, d'amore. Per me e, vivaddio, per moltissimi altri, è questo che conta: l'amor che move il sole e l'altre stelle.  E lo disse il Poeta.


Tiziano Vecellio "Amor sacro e Amor profano"  1514-15

lunedì 9 maggio 2016

Evanescenti.

Ci sono momenti della giornata in cui si riesce a non pensare a quello che accade oltre il giardino, il nostro. Ovviamente è un modo di dire che sta a indicare il nostro esiguo spazio privato, nel quale svolgiamo e riavvolgiamo il filo che ci è stato affidato in sorte. La routine aiuta a sopportare gli sberleffi e le angustie, le sofferenze e i tumulti che arrivano da fuori: ma il muro di cinta del giardino può dare segni di cedimento e non basta restare con gli occhi serrati e le orecchie tappate e le bocche cucite, il fracassato mondo di fuori ci crolla addosso, ci travolge. Pochi giorni fa qualcuno mi ha detto, ed era una giovane creatura, "ma dove stiamo andando? cosa dovrà accaderci ancora?" e nei suoi occhi scorgevo l'innocenza di un timore reale, avvertito anche se non compreso appieno.
Mi è venuta allora in mente la parola, evanescente. Proprio questo termine che, di solito, si attribuisce a qualcosa di incerto, di visionario. Ai fantasmi, agli spettri, ad esempio. E mi sono rallegrata, sì, perché potrebbe rappresentare una esile via di fuga convincersi, a dispetto di tutto, che oltre il giardino ci sia una realtà evanescente, che fuori ci siano fantasmi di idee, spettri senza vita, visioni o miraggi privi di dimensione, piatti e vuoti. Vacuità.
Poi mi sono risvegliata dalla mia torpida allegria e ho compreso che è proprio quello che ci si aspetta da noi reclusi nei nostri giardini; è quello che i grandi tessitori, i funambolici burattinai si aspettano da noi: che tutto sia evanescente, incorporeo, fittizio e inafferrabile per noi. A nostra volta, sempre più evanescenti, incorporei, fittizi. Ma ben afferrabili, saldamente attaccati ai loro fili.
Guardo quegli occhi innocenti, ne scorgo il dubbio e la paura e so che, oltre il giardino, vedranno la sofferenza e il tumulto e ci sarà ancora rabbia e timore.
Ma è la vita, è quella la vita, gli dirò, vai fuori, vai e afferrala.

Foto di Rosita Delfino

mercoledì 4 maggio 2016

Una riflessione virale.

Quella che sto per scrivere è una riflessione dovuta alla spiacevolezza di un episodio quanto mai banale, ordinario per chi utilizza il web, per chi come me ne fa un uso, se non proprio quotidiano, abbastanza frequente.
Per la seconda volta nel giro di poche settimane sono stata soggetta all'attacco di un virus particolarmente aggressivo. Ora voi vi chiederete: "e allora?"  Certamente, è ritenuta cosa normale, è il rischio che si corre a veleggiare in questo mare senza suoni e senza onde, in quest'oceano silenzioso e solitario. Una traversata in solitudine, all'apparenza. E però ha il potere di raggiungere altre esistenze a noi, molte volte, il più delle volte, ignote. Il fatto in sé non mi ha sconvolta, non più di tanto, ci si fa il callo anche alla stupidaggine, alla vigliaccheria della mano nascosta nell'ombra che con un clic s'insinua nella tua vita.
Quello che mi fa paura non è il gesto, per quanto incomprensibile a una mente che non sia malata, bensì la contiguità, la familiarità che questo gesto ha con la realtà in cui viviamo, la realtà di carne e sangue, dico.
In questi tempi di conoscenze globali, di mercati spalancati su incerti camminamenti, di scambi culturali, sociali dei quali, alla fine, non resta che una traccia ininfluente sulle nostre vite tutte sbarrate dai catenacci di vecchi egoismi; in questi tempi così altalenanti, in bilico sempre tra passato e futuro, noi tutti non conserviamo nessuna integrità, non siamo più capaci di reagire alle manipolazioni di cui ci sentiamo, oscuramente, vittime. Altri decidono per noi. Hanno i loro clic con cui dare l'input perché avvengano i fatti. Sì, è sempre stato così, le grandi egemonie dei regni e degli imperi di antica e più recente storia agivano allo stesso modo, con altri mezzi, e quasi sempre erano le guerre a determinare le sorti e l'avvenire stabilito per i popoli. Ma cosa è cambiato, alla fine? Cosa c'è di diverso, se non la parola "democrazia"? Una parola di nobile lignaggio, una parola che ha scaldato cuori e per la quale tanti, uomini e donne, sono morti. Ma la democrazia impone dei doveri e dei diritti. E noi dovremmo saperlo.  A sentire i notiziari, non mi pare. Restiamo seduti a indignarci, con l'occhio lacrimoso e la mascella contratta e intanto si ergono muri di filo spinato,  novelli pistoleri si affacciano oltreoceano con piglio truculento e mento molle, finanzieri e banchieri dettano le regole perché il lavoro ci sia, ma non per tutti.
Qualche clic va fatto, qualche mano nel buio dovrà interrompere l'accesso alla vita, alla normalità della vita. Dicono che sia progresso, modernità. Per me è mannaia sulle teste dei meno fortunati. Che sono la maggioranza.

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