lunedì 9 maggio 2016

Evanescenti.

Ci sono momenti della giornata in cui si riesce a non pensare a quello che accade oltre il giardino, il nostro. Ovviamente è un modo di dire che sta a indicare il nostro esiguo spazio privato, nel quale svolgiamo e riavvolgiamo il filo che ci è stato affidato in sorte. La routine aiuta a sopportare gli sberleffi e le angustie, le sofferenze e i tumulti che arrivano da fuori: ma il muro di cinta del giardino può dare segni di cedimento e non basta restare con gli occhi serrati e le orecchie tappate e le bocche cucite, il fracassato mondo di fuori ci crolla addosso, ci travolge. Pochi giorni fa qualcuno mi ha detto, ed era una giovane creatura, "ma dove stiamo andando? cosa dovrà accaderci ancora?" e nei suoi occhi scorgevo l'innocenza di un timore reale, avvertito anche se non compreso appieno.
Mi è venuta allora in mente la parola, evanescente. Proprio questo termine che, di solito, si attribuisce a qualcosa di incerto, di visionario. Ai fantasmi, agli spettri, ad esempio. E mi sono rallegrata, sì, perché potrebbe rappresentare una esile via di fuga convincersi, a dispetto di tutto, che oltre il giardino ci sia una realtà evanescente, che fuori ci siano fantasmi di idee, spettri senza vita, visioni o miraggi privi di dimensione, piatti e vuoti. Vacuità.
Poi mi sono risvegliata dalla mia torpida allegria e ho compreso che è proprio quello che ci si aspetta da noi reclusi nei nostri giardini; è quello che i grandi tessitori, i funambolici burattinai si aspettano da noi: che tutto sia evanescente, incorporeo, fittizio e inafferrabile per noi. A nostra volta, sempre più evanescenti, incorporei, fittizi. Ma ben afferrabili, saldamente attaccati ai loro fili.
Guardo quegli occhi innocenti, ne scorgo il dubbio e la paura e so che, oltre il giardino, vedranno la sofferenza e il tumulto e ci sarà ancora rabbia e timore.
Ma è la vita, è quella la vita, gli dirò, vai fuori, vai e afferrala.

Foto di Rosita Delfino

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