sabato 27 gennaio 2018

Se potessi dire.

Oggi come ieri. La Memoria è un obbligo che abbiamo tutti, non ci sono vie di fuga. Ci si sbatte contro, con la Memoria e si resta a guardare le ferite. i lividi che lascia dentro. Poi c'è il presente, la sequela dei giorni che viviamo e non è difficile scorgere, con un fremito al cuore, che qualcosa di dolorosamente conosciuto sta accadendo. Fuori e dentro di noi.  Ancora una volta divisi, ancora una volta ingannati da chi decide per noi.


Se potessi dire.


Se  potessi dire a Dio
quello che preghiamo ogni tanto
nelle notti senza luna e senza amore
Se potessi dire a Dio
di stare sveglio lassù
dove crediamo che sia nascosto
Se potessi dire a Dio
gli direi di cancellare con quella mano
disegnata sulla volta
I cancelli di ferro le baracche
i reticolati il ferro spinato
le stelle i tatuaggi i braccialetti
Gli direi di fermare
i treni cigolanti  serrati
come acciughe urlanti
Gli direi di abbracciare
i barconi corrosi dondolanti
sul pelo d’acqua che affoga il grido
Se potessi dire a Dio
degli uomini che non hanno carne  addosso
delle donne dai secchi ventri gravidi
dei bambini dagli occhi perforanti
 le guance essiccate come foglie di tè
Se potessi dire a Dio
tutta questa memoria
dolorosa squassante tremenda
Se potessi dire a Dio
tutto questo presente
ancora in fila ad aspettare.  


Michelangelo Buonarroti "Creazione di Adamo"  1511 ca.


sabato 20 gennaio 2018

I fatti di gennaio.

Questo mese di gennaio ha visto parecchie cose  accadere sotto la sua luce scialba e corta.
A Milano, in città e  non nell'enorme hinterland operoso e formicolante di aziende e fabbriche, si è svolta una tragedia, triste e disperata e neanche tanto inusuale ormai: quattro operai sono rimasti uccisi per le esalazioni di gas tossici, azoto e altro, mentre ispezionavano un vano sotterraneo della loro fabbrica. Quattro uomini, di mezz'età per lo più, quattro operai e voglio dirlo con forza, voglio ricordarlo ancora, "operai". Probabilmente uomini che avevano cominciato a lavorare in fabbrica da ragazzi, e i loro turni duri se li erano sudati come gli stipendi, i salari si diceva un tempo, fino a diventare negli anni operai specializzati. Che è un orgoglio, un bell'orgoglio per chi s'è messo addosso la tuta da poco più che bambino. E sempre con il sogno che poi, alla fine, arriva l'età della pensione e ci si riposa e si vive come si vuole, per quello che resta da vivere (e oggi neanche più questo, ché forse non c'è più neanche quel tempo da sperare e sognare). Ora sono morti, se ne sono andati in una mattina di gennaio, a Milano, se ne sono andati già sotterrati.
Un altro fatto accaduto non meriterebbe parole, ma a me sembra invece una necessità affermare che non siamo più tolleranti, noi uomini e donne giusti, verso chi parla di razza, per chi fa proclami sui "nostri" diritti che invariabilmente non sono i diritti degli altri. Quanto mi è chiaro questo concetto, quanto mi è odiosamente noto! E quanto dovrebbe essere insopportabile, vergognoso discuterne ancora. E no, invece no.
Poi c'è la notizia, anch'essa di pochissimi giorni fa, dell'arresto a Prato di un boss mafioso, terribilmente pericoloso, un criminale alle cui dipendenze lavorano in molti, taglieggiando, picchiando selvaggiamente chi si rifiuta di pagare l'obolo richiesto, uccidendo se occorre, truffando, prostituendo , spacciando droga. E il malvivente, il boss simile a un Riina d'antan - così lo ha definito Mentana- è un cinese residente da un pezzo nel nostro Paese. Del fatto non ho sentito nessuna eco sdegnata. E allora mi sono chiesta; "e se si fosse trattato di un ghanese, di un senegalese, di un nigeriano? o di uno di quei furfanti magrebini? Ci sarebbe stato lo stesso silenzio?"  No, non credo.
A conferma del fatto che l'italica gente ha scoperto di temere come e più delle antiche pestilenze l'uomo che viene per mare su catorci di barche, mi si aggiunge la notizia di un altro comune, Cascina (PI) per anni feudo, come si dice in politichese, rosso. E oggi ridestatosi dal lungo e sinistro letargo per abbracciare, fisicamente e ideologicamente, la giovane sindaca leghista. Abilissima, a onor del vero, straordinariamente talentuosa, tanto da aver convinto la cittadinanza a rigettare qualsiasi idea prossima all'integrazione e alla solidarietà, scegliendo un diffidente e fiero senso di appartenenza, appunto, a una razza, a una cultura, a una religione. Ovviamente tutto senza essere razzisti, come prontamente si premurano di assicurare gli intervistati.  "Ci premuniamo, ci proteggiamo"  Peccato che a Cascina non si sia verificato un solo reato che abbia avuto come attore protagonista un migrante.  Però certo, è sempre meglio pensarci prima.
Allora mi interrogo ancora e mi sembra di trovarla una risposta ed è sempre quella: la paura. La paura, sì, di vedere il nostro mondo sgretolarsi, le nostre abitudini svanire o mutare, la nostra cultura, quella folcloristica del quotidiano vivere, costretta a subire i contraccolpi di una contiguità o peggio di una promiscuità imposta. E non solo queste possibili  ansie. Mi viene in mente la canzoncina antica e crudele che si cantava ai bimbi poco remissivi "e se viene l'uomo nero (...)" L'uomo nero, l'uomo che si confonde con l'oscurità, l'uomo che viene da luoghi lontani e sconosciuti. Paure ancestrali che affondano le radici in un medioevo della mente e dell'anima, l'Uomo Nero, l'antropofago provvisoriamente redento dal grande cuore bianco.
Ecco, questi sono alcuni degli eventi di questo mese di Gennaio che sta per finire.
C'è anche un fatto buono, sì, e va ricordato. Il Presidente Mattarella ha nominato senatrice a vita la signora Liliana Segre, ottantasettenne, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti e vittima delle leggi razziali promulgate proprio ottant'anni or sono da Mussolini e firmate da Vittorio Emanuele III. Un segnale, in questo momento di smemorato arretramento, indubbiamente significativo.
Bene o male questo è stato gennaio 2018, per me e anche con qualche personale rabbia e angoscia, così l'ho vissuto, così lo ricorderò. Con le ciliegine di Trump a guarnire tutta la squisitezza di questa balorda torta. Ma quelle non mancano mai.

sabato 13 gennaio 2018

Solo alla memoria.

Rileggevo stamattina una mia riflessione di alcuni anni fa in cui riflettevo, appunto, sui rapporti umani, in generale. Soffermandomi poi, più a lungo, su quelli, pericolosamente fragili, che ci legano a parenti e ad amici. Non era una riflessione leggera, no. C'era una traccia intensa di sofferenza, di malinconica consapevolezza. Evidentemente c'era un motivo di questa mia tristezza.
E ci torno spesso a queste riflessioni e non so neanche io perché, non del tutto. Di solito si accetta, alla fine si accetta che qualcosa si incrini in un rapporto d'affetto, anche d'amore. Si soffre, ma poi si accetta. Perché non si potrebbe vivere altrimenti, perché il peso dell'amor perduto o della bruciante delusione schiaccerebbe ogni residua volontà di riscattarsi da una prigionia non più dorata. 
Ci sono però disincanti, disillusioni che mortificano più di qualunque pena. E sono quelli delle memorie condivise, degli affetti così intrecciati alla carne e all'anima che pare impensabile, impossibile pensare (anche il semplice pensare!) a una separazione, alla lacerazione, allo strappo. Si può sentire il sordo schiocco dello schianto, si ascolta con angoscia lo stridere della lacerazione, Si avverte il taglio nei muscoli, si guarda con occhi umidi la ferita aperta. Perché la memoria condivisa, il filo che credevamo una treccia robusta di cavi d'acciaio, non dovrebbe mai spezzarsi, non dovrebbe mai essere interrotto. Anche quando l'apatia degli anni che scorrono annoiati, anche quando i nostri occhi si offuscano e non vedono chiaramente il dolore dell'altro, anche quando il nostro cuore si indurisce e invecchia più per una ruggine trascurata che per un'angina molesta; anche allora i ricordi spartiti in perfetta, immutabile armonia, dovrebbero restare il vincolo, il laccio che ci  trattiene saldi e uniti. La memoria dovrebbe salvarci dalla solitudine di una vecchiaia sorda e cieca.
Ma non sempre accade. Siamo di molle creta, siamo imperfetti vasi d'argilla tra vasi di ferro e ci lasciamo schiantare dai colpi avversi. E ci lasciamo manipolare, altre mani ci modellano come gli conviene perché è più comodo e più facile credere che qualcuno, modellandoci, in fondo si prende cura di noi, del nostro benessere. Alla nostra quieta esistenza, senza traumi, senza dolori non rinunciamo. Solo alla memoria rinunceremo.


Carlo Carrà "Vaso di coccio sul davanzale" 1929 ca.

mercoledì 10 gennaio 2018

La tempesta sgorbia.

Mi vengono in mente i versi di Giacomo Leopardi "Passata è la tempesta, odo augelli far festa"  e vorrei che tutte le tempeste fossero davvero passate. Ma quelle del cuore sono insistenti e anche quelle che gli uomini ingiusti provocano.




La tempesta sgorbia.



C’è una lavagna grande
grande quanto venti mani
mani di bambino.

C’è un gessetto rosso
rosso quanto l’allegria
l’allegria di un bambino.

C’è una barca
una barca in mare
e l’onda riccia
che la sbatte e straccia.

Dentro ci sei tu

I tuoi occhi fermi
attaccati al mondo
cuciti addosso al mondo
Così te li ho fatti.

Dentro ci sei tu

Le tue mani libere
i tuoi polsi sottili
liberi da legacci
Così te li ho fatti.

Dentro ci sei tu

I tuoi piedi magri
fatti per andare altrove
fatti per macinare strada
Così te li ho fatti.

Dentro ci sei tu

E la tempesta s’abbatte
di voci gronda
e di scomposti gesti
s’attorce

E ti sfiora, ti spinge
vacillate insieme
ma non cadi
non cadi tu bambino

Occhi fermi
attaccati al mondo
t’ho fatto

Mani libere
e polsi senza legacci
t’ho fatto

Piedi magri
fatti per andare altrove
t’ho fatto.

Cuore mio mio bene

Non tremerai
Perché sgorbio
è il disegno sulla lavagna

Sgorbia è la tempesta
sciancate menti
l' hanno schizzata.

Con un gessetto rosso
Rosso d’allegria
Noi l’aggiusteremo.


Paul Gauguin "L'onda"  1888



lunedì 8 gennaio 2018

L'aquila zoppa.

Ho cambiato programma, sono cambiati gli stimoli alle mie riflessioni. Volevo stilare un consuntivo, forse più poetico più etereo, arioso quasi a sfiorare il cielo di perla che occupa lo stretto spazio sul giardino tra le case; volevo dire quello che mi è piaciuto di quest'anno finito nelle bollicine di un calice e quello che mi piacerebbe di quest'altro usurpatore che vagisce ancora. Ma no, non ci riesco, poi arriva uno squillo, ascolto delle parole e mi monta una rabbia ed è quella panna nera e amara, la immagino così la rabbia, una panna nera e amara che affoga nella bocca ogni parola, che asciuga nella testa ogni pensiero.
Perché ancora una volta so  che sono i pochi, un manipolo bieco a decidere della vita di altri e delle loro legittime aspettative. I piccoli poteri di piccolissimi uomini che non valgono nulla, che non sono nulla se non quello che gli abbiamo concesso di essere col nostro mutismo e la nostra complice pigrizia morale. Omuncoli che spadroneggiano convinti di poterlo fare, in una terra, la mia, derelitta da noi per primi, perché l'importante è che qualche osso da spolpare resti anche per noi, per noi tutti. Uomini miserabili che agiscono secondo logiche medievali, quelle dei vassalli e dei valvassori e chi ha di più, più raccoglie e il popolo bue che crepi. Uomini che non meriterebbero un saluto, un sorriso neanche di cortesia, ma solo il disprezzo che seppellisce e la risata che inchioda.
E invece possono fare quello che gli passa per la testa, possono fare del male. Possono togliere lavoro a chi lo merita e darlo a chi non sa che farsene; possono giocare a scacchi con la vita dei nostri giovani e il re vince sempre con loro.  Il re è coperto dalle mosse degli alfieri e dei cavalli e sulle torri si issano le bandiere con le regali insegne, l'aquila affila i rostri. Ma l'aquila è zoppa e la regina è ancora viva. E la regina dà scacco al re. Toccherà a noi donne, a noi madri, forse? Saremo noi a dare scacco al re?
La collera che provo è grande perché grandi sono le ingiuste cose che vengono perpetrate ai danni di chi non ha altro scopo se non quello di essere libero nell'affermazione della propria dignità e la dignità, per un uomo e per una donna,  è potere esprimere se stessi tramite quello che si sa fare, tramite quello che si ama fare o più semplicemente e comunemente, che si può fare.
Togliere il lavoro a una persona significa derubarla di ogni possibile vita.
Oggi sono arrabbiata, oggi maledico questa nazione che non fa niente per i suoi figli più giovani, che si ostina a non vederli.


Antonio Ligabue "Aquila con volpe"  1949 ca.

lunedì 1 gennaio 2018

Non voglio più.

Solitamente si stilano, si enunciano anche nel silenzio del cuore, i proponimenti, i nostri voti per l'anno che entra, scuotendoci dalle apatie del vecchio che svanisce. Io preferisco enumerare quello che non voglio più.

Non voglio più.
 

Aspettare dietro i vetri il sole del giorno
non voglio più
vado a cercarmelo io il sole, dove posso.
Sorridere perché vorrei piangere
non voglio più
se ho lacrime, le farò scorrere nei laghi
degli occhi, i miei e degli altri
Chinare la testa giù fino al suolo
oltre le ginocchia pietose
non voglio più
starò dritta, sarò un'asta saettante
e sarò dura, coriacea e sarò scudo
sarò scudo a chi abbraccio
Ascoltare le menzogne nere
sapendo di ascoltare menzogne
non voglio più
la mia verità delusa stenderò
come un mantello
un drappo a cingere il mio corpo.
Avvicinare la mano fallace
tendermi a lei sull'orlo del buco
non voglio più
mi guarderò accanto
mi afferrerò alla mano certa.
E scappare, scappare
verso il punto che scompare
trafiggendo il cielo
non voglio più
resterò qui alla mercé della terra
che mi è stata affidata
perché la curi e la concimi
e che fiorisca poi, anche dopo,
quando si sarà fatto buio.


Vincent van Gogh "Campo verde di grano"  1889 ca.

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