sabato 29 settembre 2018

Il disprezzo e l'onestà.

Stupefacente la nequizia di alcune persone, il dissolvimento d'ogni forma di concetto etico, di coscienza di sé e della realtà che gravita intorno a loro. Eppure sono "personaggi" hanno ruoli preminenti, preponderano nella società, hanno titoli e carriere di cui menare vanto. Ma quale vanteria, se non quella di una ambizione deflagrante e viziata dalle cortigianerie ricorrenti?
A maggior ragione, queste persone diguazzano liberamente, in totale arbitrio, nelle stagnanti cloache delle città di provincia. Provinciali, al limitare del confine di uno Stato rotto, frammentario, confuso.
La città di provincia ne è l'habitat naturale, il terreno fecondo, il brodo di coltura primordiale. In essa agiscono a piacimento, protetti dentro al ventre ammorbato; nascosti e assimilati agli altri, pretendono il riconoscimento, l'onorevolezza di un potere ottenuto, fors'anche a denti stretti e pane amaro, ma sempre ottenebrante, conservatore dell'immagine che di sé hanno.
La città di provincia è un animale ferito a morte, corre alla decadenza, si disfa in sussulti di vitalità estrema, agonizza nelle periferie e nei vicoli del centro storico, si lorda delle sozzure straripanti sulla pietra dei marciapiedi, sozzumi di cittadini che non sanno di esserlo, furbescamente ignoranti, lesti all'indignata protesta e immobili e muti nello scempio quotidiano delle cartacce oleose di rosticceria, dei multicolorati pacchetti di sigarette, dell'infinito manto secco di cicche, delle medaglie di chewing gum offerte alle basole di lava, delle cacche dei cani non raccolte  da padroni cani. E in mezzo le masse dei turisti ondeggiano, scorrono veloci, un occhio al barocco, un altro alle immondizie.
I caffè sono sempre pieni, i tavoli pullulano di volti e voci, richiami e risate, ci si conosce tutti. Seduti all'ora dell'aperitivo, li trovi lì, anche loro, i personaggi. Lecitamente dediti alla ricreazione d'un calice di vino contorno annesso, pronti al selfie amichevole, sorridente, da postare sull'iphone: se non fosse per quella vorace voglia di esserci, di mostrarsi, piccoli plenipotenziari della città dolente. Se non fosse che maneggiano il loro potere come una clava inerte, sorretta da una mano obliqua, da un arto che non controllano. Perché nulla c'è in loro, la coscienza evaporata assieme al vino rosso. Epperò sono consapevoli di esercitare un potere, malignamente e maldestramente esposto.
Fuggire allora? Abbandonare la città molle di antica assuefazione?
Sarebbe meglio. Nell'attesa di una scelta, continuare a non chinare la testa, a non piegare la schiena: nell'attesa il disprezzo e l'onestà di essere quello che si è sempre stati.

Eduard Costantini "Donne al bar"

giovedì 20 settembre 2018

Il sale buono.

Silenzio e pensieri: un settembre come si conviene per tradizione e per aspirazione naturale. L'autunno è alle porte e il frastorno dell'estate, le notti inquiete, i ronzii e i cicalecci della casa e della coscienza si smorzano. Non resta che la pausa morbida, delle pacate riflessioni, fino all'accogliente freddo. Perché a me il caldo mi estingue e mi ripudia, il freddo mi accoglie ed è da sempre così.
Rifletto sulla situazione che viviamo tutti: in Europa o no, migranti sì, migranti niente, via dall' accoglierli (che bella avvolgente parola!),  manovra economica che scappa dalle mani e dalle intenzioni. Parole, quante, promesse, quante. Paure e suggestioni. E concretezza di mosche che ronzano, ronzano.
Non mi avveleno di politica, resto alla finestra, guardo solo ai giovani, a quelli sempre, che se possono scappano e, se non possono, s'adeguano e aspettano.
Ma penso, ne ho tutto il tempo tra una bega personale che mi reca solo fastidio e noia e un'altra che poi si risolve e si ride, penso alle persone. Penso ai loro sorrisi e ai volti ispirati dalla buona creanza, da quello che passa, a detta del pubblico, per un bel carattere. Penso alle persone gentili, così gentili che questa loro garbatezza di modi e di aspetto e di gesti, si potrebbe affettare come uno squisito prosciutto montano: a mano e con un coltello affilato. Penso ai commenti che le loro labbra teneramente schiuse esalano e sono sempre commenti pertinenti a quello che ci si aspetta, a quello che si vuole da loro. Persone attentissime, non solo gentili, a dimostrare la loro gratitudine alle gratificazioni di un cenno, di un breve encomio, di una condiscendenza en passant. Persone di cuore, virtuale s'intende, che tanto non si spreca sangue vero nel pomparlo. Di cuor gentile dunque. Tranne quando, eh sì! tranne quando non gli si sfiora il nervo scoperto della vanità, dell'egocentrismo, della permalosa supponenza. Allora il cambiamento è repentino, Fregoli gli avrebbe fatto un baffo. La gentilezza si tramuta, si trasfigura col paludato abito della circospezione, la gentilezza delle parole trasuda del veleno dell'ipocrisia. Finalmente. Un tratto peculiare di queste persone è la totale assenza del senso dell'ironia, per non dire poi dell'autoironia: tipico esempio è il loro sentirsi sempre e comunque chiamati in causa, tirati dentro a un argomento. Come se tutto il circostante orbitasse intorno a loro, come se ne fossero il materno ombelico.
Ecco, rifletto e metto dubbi e rimpianti a tacere.
In fondo, in fondo l'ho sempre saputo: mai confidare nelle persone che non possiedono il sale buono dell'ironia, diffidarne sempre. Anche se gentilissime ti sorridono.

 Federico Zandomeneghi, Femme au miroir, 1898

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