mercoledì 25 febbraio 2015

La normalità del non normale.

Non è facile riflettere, siamo talmente assediati da una torma infinita di notizie, che non è possibile, non per me. Schegge, frammenti, scagliati contro una normalità che, da tempo, ha cessato di essere normale. Non è normale vedere i giovani girare su se stessi, alla ricerca di un qualcosa, qualcosa che prima si chiamava lavoro, occupazione; girare su se stessi, fino ad avvitarsi nel buco della loro esistenza, senza più sbocco, senza voglia, inerti e inermi. Non è normale assistere alle incessanti, tragicomiche vicende dei politici, alle loro risse, alle loro volgarità sapientemente svelate ai giornalisti. Non è normale aspettare il prossimo carico di vite risucchiato dal mare e le furibonde prese di posizione di questo e di quello, senza che nulla cambi. Non è normale che si sussurri "ma ci sarà la guerra?" e alcuni, magari, la vorrebbero davvero. E non è normale che i tagliagole, farabutti che hanno fatto della loro barbra ignoranza una nera bandiera di morte, continuino a incutere e seminare terrore. E soprattutto a sporcare l'immagine di un popolo. Ma così è, e non ci resta che piangere, recitava il titolo dell'omonimo film, con Benigni e l'indimenticabile Troisi.
Io, qualche risata, anche agretta, me la faccio, ogni tanto sul web. A spulciare bene, si trovano, tra i commenti e nei post e nei pensieri personali, delle vere chicche. Ma questa è un'altra storia.

Antonio Ligabue - Autoritratto - 1954

giovedì 19 febbraio 2015

C'è un Dio.

No, non parlo di religione. Non oggi, se ne discute anche troppo, forse più in là. Forse quando il gelo si sarà dissolto e rivedrò il sole.
Ogni tanto rileggo le mie note, appunti sparsi negli anni, e ritrovo me stessa. Quella di un tempo e quella che sono adesso.

C’è un Dio 1971

C’è un Dio puerile in te,
capriccioso ti scorre nelle vene,
risale il fiume del tuo sangue
e si affaccia curioso agli occhi.
Traspare nel  bosco segreto
del tuo sguardo, tela di ragno tesse,
zufolando una canzone, allegro
agita le mani e mi afferra.
Mi trascina sull’albero più alto,
la testa ricciuta rovesciata
al sole di quest’ultima stagione.
E ride, ride, e io cado vuota
di sogni nell’ombra calda
dei suoi caprini piedi.
Maligno, prende a calci
Il mio cuore, si rifugia poi
tremante tra le mie braccia.
È il mio bambino.


Satiro danzante  III-II sec. a.C.  -  Mazara del Vallo


venerdì 13 febbraio 2015

Rimpiango Prévert.

Fuori l'inverno continua a imperversare. Che strana stagione, quaggiù, un cielo di ferro, opprimente e ghiacciato. Ma senza i fiocchi di neve, non sui tetti della città, non a renderla più gentile, una madonna con l'ermellino dei nostri giorni, una nobildonna che nasconde, sotto il bianco mantello, i piccoli grandi orrori dei nostri giorni. Una bambina, in fondo mai nata alla vita - tre ore soltanto, non sono sufficienti a sentirla, la vita - alla quale è stato negato il diritto a respirarla l'aria della sua città invernale. Per cinismo, abietto e sudicio, come la pioggia gelida che non riesce a farsi neve e resiste sulle strade e sui marciapiedi, in sconnesse pozze d'acqua fangosa. E poi, l'inverno ghiacciato del mare che ingoia esseri umani, accanto alle nostre coste, come il drago malvagio di tante favole. Ma gli orchi veri ci sono e piangono lacrime di ghiaccio e dicono parole bugiarde.
Fuori l'inverno continua a imperversare. E ci sono uomini e donne che fingono di lottare, ci credono anche, simulacri carnevaleschi, come quelli di cartapesta sui carri, e pugni e calci e urla e strepiti, nel confortevole calore dell'Aula.
E ancora domani, gli innamorati scalderanno il gelo dell'inverno, con il loro amore. Mentre, da Sanremo arriverà la notizia del vincitore del Festival. Come spesso, è accaduto, forse vincerà la canzone più scema, ma i ragazzi e le ragazze innamorati avranno la loro colonna sonora, in questo inverno ghiacciato.
Penso ad altri inverni di freddo, ad altri mari gelati e generosi, ad altri innamorati e ad altre canzoni. Sì, lo confesso, in questo inverno ghiacciato, rimpiango Prévert.

Les enfants qui s’aiment
Les enfants qui s’aiment s’embrassent debout
Contre les portes de la nuit
Et les passants qui passent les désignent du doigt
Mais les enfants qui s’aiment
Ne sont là pour personne
Et c’est seulement leur ombre
Qui tremble dans la nuit
Excitant la rage des passants
Leur rage leur mépris leurs rires et leur envie
Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne
Ils sont ailleurs bien plus loin que la nuit
Bien plus haut que le jour
Dans l’éblouissante clarté de leur premier amour

domenica 8 febbraio 2015

No, non la dea Vesta.

Ecco, quello era il succo della spremuta. Adele non ce la può fare da sola. Adele ha due figli e un marito a cui pensare. Una casa da pulire, anche se c’è la colf a ore, il lavoro è tanto.  Ergo, Adele non è capace di cavarsela al di fuori delle mura domestiche.  Fino a quando si tratta di incerare e spolverare e lavare e stirare, Adele è il massimo, una dea Vesta col sorriso stracco e scimunito, amorevolmente fisso sugli abitanti della domus.
Sulla tavola la zuppiera era vuota, Adele si alzò e dalla credenza prese la teglia della parmigiana, le prime melanzane, un’ora a friggere, e nel microonde si scaldavano le crepes di nutella per i ragazzi e alla crema di limone per Pietro. Una mattinata avanti e indietro, a lucidare con le ciabatte la ceramica della cucina e, come se non bastasse, era anche uscita per portare il pranzo alle due vecchiette e a Dishna. Era sgattaiolata fuori dalla casa della madre senza salutarle, una criminale oppressa dal misfatto commesso. E ora, eccola lì in quella stanza già arrostita dal sole primaverile, accerchiata dai mobili austeri della suocera, accerchiata dai tre che esigevano risposte e cure. Non era una dea benigna. No, si sentiva, piuttosto, lo spirito malevolo di una strega che le zampettava dentro.  Non voleva un altare dove si potessero appendere ghirlande e ceri votivi per propiziarsi i favori. 
(Tratto da "L'assente") 

domenica 1 febbraio 2015

L'amicizia è una farfalla.

L'amicizia è un attimo, accogliente e caldo come il letto a cui si è abituati, di silenzio assoluto. Una vibrazione nell'aria che fa incrociare gli sguardi; una scena tratta da un film visto, anni prima, in una sala buia e giovane, a metà tra la risata e il pianto; una canzone che guizza dietro la fronte e si affaccia, timida e stonata, alle labbra semichiuse per essere ricordata; un gesto semplice, uno sfiorarsi dei gomiti, per dividere il piacere o il dispiacere di una frase, di un fatto.
L'amicizia è una farfalla da acchiappare mentre vola. E da conservare, gelosamente.
No, non credo che sia così. L'amicizia, quando c'è, quando respira  e si nutre di memoria e anche di presente, ha la pretesa, sacrosanta, della libertà. Non può essere acchiappata come una farfalla per essere esposta nella bacheca degli oggetti più preziosi, preziosi, ma infissi con gli spilli. Non c'è possesso nell'amicizia e non c'è diniego. Corre nel cuore, assieme agli altri amori.
Quando si stanca, cade. Precipita nel mulinello dell'oblio, trascurata cianfrusaglia da riporre in soffitta, nella scatola di ciò che è rimasto incompiuto.
Ci diciamo delusi allora, dopo avere richiuso la scatola, ma non è che l'ultima arma da usare per difenderci dal dolore della privazione. Non è delusione, non delude una ferita, duole. E intanto aspettiamo che si cicatrizzi e torniamo, un poco zoppi, a camminare da soli, con più diffidenza e con più cautela.


Gustav Klimt  Le amiche   1916 - 17

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