giovedì 30 giugno 2016

Dunque, a questo?

Quel senso di inconsistenza, di fluidità. Quello sperdimento di sé e di ciò che si pensava fosse rocciosamente aggrappato alle certezze, anche le più insignificanti, è ogni giorno più consistente, dilaga nelle nostre vite, ci raggiunge e ci scrolla con brutalità, attraversando montagne e mari e oceani . Si svela ancora e ancora mostruosamente nelle visioni dei corpi e del sangue. Istanbul è forse più distante di Parigi o di Bruxelles? Ha forse paesaggi più inconsueti per i nostri occhi? Eppure è lì, a qualche ora di volo, adagiata sul Bosforo, bella come una principessa delle Mille e una notte. Se ne sta in Europa e in Asia, frontiera, tragica e ambita, di molti appetiti.
Non ho letto commenti di grande partecipazione, di dolore per i quarantuno morti e per gli oltre duecento feriti, qualche timido cenno, quasi si avesse il timore di intralciare lo svolgersi delle usuali attività. Siamo dunque arrivati a questo? Viviamo come possiamo, arrangiando e accomodando le nostre vite alla paura, esorcizzandola con il silenzio, con la memoria in tilt, come se non vi fosse più spazio per gli altri e per il loro dolore. Non giudico, faccio parte anche io di questo collettivo ripudio cieco e sordo, faccio parte anche io dell'esercito stanco e assopito. Niente più ci sbalordisce. Siamo tutti nelle grinfie, saldamente confitte nei nostri cervelli, della paura, scorre dentro di noi. E la morte, finché non ci tocca da vicino, è la morte degli altri ed è l'unico spietato conforto che abbiamo.

venerdì 24 giugno 2016

Questo mi resta.

Poi mi tacerò, prometto! Ma è irrefrenabile l'impulso, non riesco a contenerlo: ho letto tante, ma tante castronerie, oggi, sul web, che la lingua mi sanguina per i morsi e gli occhi mi roteano come due pianeti follemente orbitanti fuori dall'orbita solare. Tutti inglesi oggi. Tutti o quasi tutti ad applaudire il popolo inglese per il coraggio, per la determinazione, per l'implacabile vigore dimostrato. Un popolo di Braveheart (a proposito gli scozzesi hanno votato per il remain), un popolo di nobili e valorosi guerrieri difensori della Magna Charta (anche questo!), un popolo che ha detto no alle scellerate scelte degli scellerati burocrati e banchieri europei. Questo e altro volava nel web, E giù la mannaia su chi, timidamente, osava un fragile, tenue disappunto, un dispiacere intinto anche di nostalgia, sentimento quanto mai stantio oggi. E giù con le accuse di non avere rispetto per le libere scelte di un popolo, per l'espressione più alta della democrazia, il referendum. Quando, sempre timidamente e accoratamente, si faceva notare che non era quello il nodo centrale del fragile smarrimento, della  lieve tristezza. E certo che è giusto rispettare la scelta del popolo inglese, certissimo. Ma non è questo il nodo che vorrei sciogliere. Nessuno tolga agli inglesi ciò che hanno conquistato con il voto referendario, che se lo tengano pure ben stretto e ne misurino, magari più in là, trascorse le ore di sbronze e brindisi,  gli effetti, i costi e i benefici, ove vi fossero.
Ed è anche cosa buona e giusta auspicare un'Europa migliore, dal volto umano, non trincerata dietro le maschere flaccide di burocrati e politici.  E che nessuno ci tolga quest'ultima, flebile speranza.
Ieri ancora scrivevo di una perdita e di una chimera. Ed era sicura la prima e molto incerta la seconda. Sapevo, dentro di me, come sarebbe finita. Perché gli inglesi amano l'Inghilterra, amano la loro isola e la loro moneta, la loro bella sterlina, e amano la loro Regina e il loro clima e la loro dolce, nebbiosa campagna. Ed è bello che sia così. Ma l'amano a tal punto queste loro cose da non potere amare altro. Tutto il resto del mondo è altro, si ferma ai confini che sono mare e mare da ogni lato. Gli inglesi, la maggior parte e lo hanno dimostrato, non vogliono essere europei, credo che non l'abbiano mai voluto.
Isolani e inglesi, con quel grigio mare - quante splendide pagine di letteratura su quel mare, quante burrasche conservo nel cuore - con quella città pazza e colorata di visi colorati, con quelle contee morbide e le guglie delle chiese con i cimiteri  corrosi dalle muffe e dai licheni.
Oggi qualcuno ha scritto: "Virginia Woolf resterà sempre la mia scrittrice extracomunitaria preferita". Mi associo anche io, la Woolf come tanti altri scrittori e poeti  inglesi del passato e del presente, amati e  tanto.  Questo mi resta, non può andare via. E non è poco.
Siate felici nel vostro viaggio di ritorno alla vostra Isola, o inglesi.

giovedì 23 giugno 2016

Inafferrabile.

Tutta l'Europa, quella che conta, quella che fa il gioco del bello e del cattivo tempo, quella delle  banche e delle Borse, è con il fiato sospeso. Almeno così si dice. Aspetta il responso dell'oracolo, quello che l'algida albionica Sibilla vorrà consegnare alla storia. Noi, miserevoli comuni cittadini aspettiamo, non sappiamo fare altro. E soprattutto non sappiamo leggere nelle trame e nelle manovre dei potenti. Stiamo qui e aspettiamo, come sempre, o quasi.
Non sappiamo se provare dispiacere, delusione, angoscia. Il problema è talmente avulso dalle nostre semplici quotidiane attività, tutte tese, in definitiva, alla sopravvivenza, alla ricerca di una stabilità, che ne restiamo distaccati, lontani almeno quanto lontana è la Gran Bretagna. Se cambierà qualcosa, cambierà per tutti,  potrebbe essere questo il pensiero dominante. Non so.
Personalmente provo un vago rammarico, un pungolo molesto dentro. Che non è riconducibile a niente di materiale, di tangibile,. Solo a un'illusione, una chimera, una speranza.  Peraltro già ampiamente disattese negli anni. Mi era piaciuta l'idea dell'Europa madre comune, sì mi affascinò un tempo. Ma ero giovane e si sa, i giovani hanno sempre speranze e sogni, se ne nutrono.
Ora ho altre speranze - no, non rinuncio ad averne - e sono proiettate nel futuro, hanno corpo nei corpi dei milioni di bambini che lottano per vivere e negli occhi dei giovani che lottano per avere il loro posto nel mondo. Ho la speranza, dura e cocciuta come un mulo, che l'umanità ritrovi la strada verso l'umano. Senza retorica, senza slanci d'eroica bontà. Umanità, il senso di appartenenza all'Uomo, il senso del valore e dell'opportunità che l'essere umani contiene in sé.
Se la Gran Bretagna dovesse andare via dall'Europa, non ho idea se sarà un bene o un danno, dal punto di vista economico, per lei e per noi europei che tali resteremo. Non lo so. Certo, qualcosa perderemo però, tutti. Forse di inafferrabile, forse di  incomprensibile, ma qualcosa perderemo.

sabato 18 giugno 2016

Epitaffio perfetto.

Indifferenza, altra parola brutta. Bruttissima. E dilagante, a sottolineare un atteggiamento di distacco dalle situazioni, dalle persone. Distacco emotivo da tutto ciò che non ci coinvolge personalmente, perché viviamo in questa società fortemente individualistica, dove l'individuo siamo noi e il nostro tondo ombelico. Circonfusi dall'alone dei nostri piccoli grandi egoismi orbitiamo sempre e solo attorno a noi stessi e ai nostri bisogni. 
Così non vediamo più le necessità degli altri, anche di chi ci è accanto: chiusi e ciechi e sordi, sappiamo ascoltare solo il nostro lamentoso canto e vedere il nostro obliquo riflesso. E dimentichiamo le devozioni e gli affetti, anche quelli. 
L'indifferenza tiene gli occhi asciutti e rende la lingua scialba, molle pezzetto di carne che resta inerte nelle bocche, mute di fronte alla sofferenza e al dolore degli altri.
Però, in questi giorni, alcuni hanno tolto la maschera dell'indifferenza e se ne stanno negli stadi  e fuori, le tifoserie urlanti e sciagurate; e nelle sedi dei partiti e nelle televisioni e per le strade, col seguito della canea degli elettori, confusamente arrabbiati, con le insopportabili diatribe, con gli eterni insulti. Hanno smesso di essere indifferenti, la differenza è nel pallone che rotola sui campi d'erba verso una rete o l'altra; la differenza la fa la fazione avversaria da sconfiggere, nel calcio come nella politica.
Di tanto in tanto muore qualcuno, una giovane donna, una mamma e una moglie, uccisa brutalmente e lei non era indifferente, lei aveva passione, la riversava nella vita e in quello che faceva. Muoiono i ragazzi e le ragazze a Orlando. Muoiono i genitori di un bambino di tre anni, in Francia.  Per non parlare delle morti silenziose dei bambini, continue, senza scampo. 
E allora? La maschera dell'indifferenza si rimette a posto: aiuta a sopravvivere.
L'epitaffio perfetto del terzo millennio. 


Ferdinando Todesco  "Attesa alla stazione"  2010

mercoledì 15 giugno 2016

Teniamola lontana.

La strage di Orlando, in Florida, pone a noi tutti molti interrogativi e i media, i sociologi e tutti gli esperti di questo pianeta cercheranno di districarsi in mezzo ad essi per rispondervi. Chi ha compiuto quest'ennesimo orrore è un terrorista, pare. Un fondamentalista che ha voluto colpire un'espressione dell'umanità di cui tutti facciamo parte. Come a Parigi, nello scorso novembre, altri invasati senza dio e senza onore massacrarono un'altra faccia dell'umanità, quella scanzonata e allegra di giovani donne e giovani uomini che volevano ascoltare musica e cantare e ballare. Così anche a Orlando, le vittime innocenti sono state scelte in quella fascia di età che è più esposta perché giovane e aperta alla vita e alla gioia di vivere. E che la carneficina abbia riempito il  carniere con i corpi di giovani donne e giovani uomini omosessuali, nulla cambia. Anche in questa moderna, orrida tragedia, la mano dell'assassino, spietata e folle, è stata armata dall'odio per la diversità, in quanto l'odio è cieco e non accetta alcuna forma d'amore; è questo secondo me il punto, la diversità rappresentata dall' odio verso la vita che si contrappone all'amore per la vita, a prescindere dalle scelte sessuali. La crudele ferocia, la disumana violenza ha colpito la vita, l'essenza stessa dell'umanità, lo spirito divino che anima l'umanità intera. La strage di Orlando è perciò, come quella di Parigi, un abominevole atto contro Dio, qualunque dio si voglia concepire come creatore di vita e ispiratore di essa.
Spesso mi sono domandata quali dovrebbero essere le prime nozioni da offrire, con gioia e speranza, ai bambini e sono certa, sempre di più, che una è imprescindibile: non c'è niente, né razza, né colore, né sesso, né religione, che possa ammettere il termine "diversità." Non ci sono persone diverse, in questo martoriato mondo, ci sono persone nate in altri luoghi lontani, che parlano altre lingue, che amano altro, che pregano altro. Ma sono come noi, sono umanità, sono uomini e donne e bambini degni d'amore e rispetto proprio come lo siamo noi. Diversità, comincio ad aborrire questa parola, teniamola distante questa sì emarginiamola, se diventa un alibi per le nostre paure e le nostre ossessioni.


Michelangelo Merisi da Caravaggio  "Scudo con testa di Medusa"  1598 ca.

martedì 7 giugno 2016

Meglio "gouache"

A proposito di elezioni amministrative. Un amico ha definito le preferenze per il PD, a Roma zona Parioli e centro storico (quindi si direbbe er mejo dell'Urbe, quanto a ubicazione), le ha definite come appartenenti alla "gauche caviar" . E sono d'accordo. Sul caviar e anche sullo champagne e su altri pregiatissimi vini d'annata e su succulenze da deschi elitari. Meno d'accordo sono sull'uso del termine "gauche". Credo che di gauche, le elettrici e gli elettori che hanno preferito il PD poco o nulla sappiano. O hanno, volenterosamente e con spirto allegro, dimenticato. In altri tempi, probabilmente, erano impegnati in gioiosi girotondi contro le destre ridanciane; e ancor prima, alcuni di loro scendevano a frotte nelle piazze, scorrazzando in un turbinoso frastuono di slogan e canti, con sventolanti bandiere rosse issate sulle teste. Ma la vita è un lungo cammino e si fa presto ad arrotolare le bandiere e a indossare vesti più consone ai ruoli che vengono assegnati, vuoi per sorte benigna, vuoi per scelta, vuoi per baratto.
A me la parola "gauche" evoca altro. Ancora oggi mi emoziona, con sofferenza e malinconia, Ma io sono una vecchia sognatrice e le mie speranze non hanno peso, sono guizzi di luce nell'oscurità.
Però non mi va che questo termine si annichilisca così. Quelle elettrici e quegli elettori, il cui voto è legittimo sia chiaro, possono asserire di essere tutto e il contrario di tutto, fuorché di "gauche".
Al massimo possono apprezzare a un vernissage, una "gouache": è solo una questione fonetica, metatesi e aggiunta di vocale.


Marc Chagall, Madonna of the Village, 1938-1942 

mercoledì 1 giugno 2016

Le attese.

La primavera inoltrata scappa. Inafferrabile fanciulla dalle mille espressioni, mutevole e capricciosa. Si agghinda, per giorni, d'azzurro e d'incanto scolora in tinte sbiadite; si agita di venti furiosi e si placa di brezze salmastre. E le città e le campagne stordite da fremiti d'uccelli, avviluppate dai colori sgargianti di nuovi germogli, ricadono nella nebbiosa malinconia di un autunno precoce. Ma la bella stagione è vicina, non tremate cuori fragili, la canicola presto asciugherà ogni goccia e resteremo a invocare una tregua. Poi tornerà ancora la pioggia, torneranno ancora le nuvole gonfie e ammassate all'orizzonte e tutto sarà come prima, nel cielo che eternamente ripete se stesso.
Io amo un po' tutte le stagioni, ognuna ha una peculiarità che mi è gradita. All'autunno, però, si accosta la mia anima, lo aspetterò, una volta ancora.
Come aspetterò altre cose che renderanno colmi i miei occhi, che sazieranno il mio cuore. Abbiamo tutti un'attesa e tutti vorremmo che non fosse solo una speranza.
Nel frattempo, ci sono quelli che aspettano, più prosaicamente, un nuovo sindaco per la loro città, con l'illusione che possa essere finalmente il migliore; e quelli che aspettano un nuovo premier, un nuovo presidente che li rappresenti; e quelli che aspettano il referendum - sì o no - e ne fanno una questione di vita o di morte. Tutte attese legittime che meriterebbero risposte degne e determinanti.
Ci sono anche quelli che aspettano un lavoro per poter vivere senza più paure e vergogna; e ci sono quelli che aspettano di poter, semplicemente, vivere.
A queste due categorie, spesso composte di giovani e giovanissimi e bambini, mi associo anche io che non sono più giovane. Sono in attesa con loro e quando quest'attesa sarà colmata, allora sarò sazia. Sazia e appagata di ogni stagione.


Edward Hopper  "Eleven A.M."  -  1926

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