sabato 18 giugno 2016

Epitaffio perfetto.

Indifferenza, altra parola brutta. Bruttissima. E dilagante, a sottolineare un atteggiamento di distacco dalle situazioni, dalle persone. Distacco emotivo da tutto ciò che non ci coinvolge personalmente, perché viviamo in questa società fortemente individualistica, dove l'individuo siamo noi e il nostro tondo ombelico. Circonfusi dall'alone dei nostri piccoli grandi egoismi orbitiamo sempre e solo attorno a noi stessi e ai nostri bisogni. 
Così non vediamo più le necessità degli altri, anche di chi ci è accanto: chiusi e ciechi e sordi, sappiamo ascoltare solo il nostro lamentoso canto e vedere il nostro obliquo riflesso. E dimentichiamo le devozioni e gli affetti, anche quelli. 
L'indifferenza tiene gli occhi asciutti e rende la lingua scialba, molle pezzetto di carne che resta inerte nelle bocche, mute di fronte alla sofferenza e al dolore degli altri.
Però, in questi giorni, alcuni hanno tolto la maschera dell'indifferenza e se ne stanno negli stadi  e fuori, le tifoserie urlanti e sciagurate; e nelle sedi dei partiti e nelle televisioni e per le strade, col seguito della canea degli elettori, confusamente arrabbiati, con le insopportabili diatribe, con gli eterni insulti. Hanno smesso di essere indifferenti, la differenza è nel pallone che rotola sui campi d'erba verso una rete o l'altra; la differenza la fa la fazione avversaria da sconfiggere, nel calcio come nella politica.
Di tanto in tanto muore qualcuno, una giovane donna, una mamma e una moglie, uccisa brutalmente e lei non era indifferente, lei aveva passione, la riversava nella vita e in quello che faceva. Muoiono i ragazzi e le ragazze a Orlando. Muoiono i genitori di un bambino di tre anni, in Francia.  Per non parlare delle morti silenziose dei bambini, continue, senza scampo. 
E allora? La maschera dell'indifferenza si rimette a posto: aiuta a sopravvivere.
L'epitaffio perfetto del terzo millennio. 


Ferdinando Todesco  "Attesa alla stazione"  2010

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